Droghe: ripartiamo da Genova sulle orme di Don Gallo

In una società improntata in modo proibizionista, si tende a mettere avanti il fatto che la persona faccia uso di sostanze piuttosto che considerarla prima di tutto una persona

 

di Alessio Guidotti, tutor nei reinserimenti lavorativi

alla coop “Il Sorbo” di Formello

 

Si è svolto di recente a Genova il convegno “Droghe, ripartiamo da Genova: sulle orme di Don Gallo”, promosso dalla Comunità San Benedetto al Porto, Antigone, Forum Droghe, Gruppo Abele, e altre associazioni. L’importanza dell’evento è stata determinata dal fatto che il cancella mento della Fini-Giovanardi per incostituzionalità (che ha determinato il ritorno alla separazione delle tabelle tra le cosiddette “droghe leggere” e le “droghe pesanti”) ha fatto tornare a livelli più profondi e significativi i discorsi su proibizionismo e antiproibizionismo. Il convegno è stato strutturato anche riprendendo alcuni spunti proprio da un libro di Don Gallo (Il cantico dei drogati – l’inganno droga. Dogliani, Sensibili alle foglie, 2005) in cui il prete genovese, che spese la sua vita nell’impegno sociale, parlava dei drogati, di droga, e come la società si confronta con questo problema. Le questioni affrontate a Genova sono state diverse e per ognuna sono stati fatti dei laboratori tematici. Io ho partecipato al laboratorio “Parlano i drogati – tra rappresentanza e identità”, coordinato da Andrea Fallarini della rete Itardd italiana riduzione del danno, da Domenico ”Meghu” Chionetti della comunità San Benedetto al Porto e da Maria Stagnitta di Forum droghe. Uno degli obiettivi del laboratorio è stato quello di proseguire il lavoro, svolto in precedenza attraverso la rete ITARDD sulla Carta dei diritti delle persone che usano sostanze.

È difficile immaginare che chi usa sostanze ritenute illegali rivendichi dei diritti. Ma, se immaginiamo di avere un interlocutore non sufficientemente informato su quel mondo “sommerso” (proprio perché proibito) che è il mondo dell’uso di sostanze (leggere o pesanti che siano), sarà necessario offrirgli un panorama più ampio e realistico di quello che socialmente e culturalmente viene offerto sull’uso e sulle persone ch fanno uso di sostanze. Una delle tematiche del laboratorio “Parlano i drogati” faceva riferimento proprio a questo, alla parola “Persone”. Sembra un particolare poco importante, ma non lo è: in una società improntata in modo proibizionista riguardo l’uso di alcune sostanze ritenute dannose (dico alcune perché per altre, come l’alcol e il tabacco, nel nostro Paese non vige un regime di proibizione ma di monopolizzazione statale) si tende a mettere avanti il fatto che la persona faccia uso di sostanze piuttosto che sia una persona. Ma questo lo riscontriamo anche in altre situazioni in cui si preferisce etichettare con un marchio stigmatizzante e scordarsi la persona. Innanzitutto è bene chiarire che parlare di antiproibizionismo, richiedere una nuova politica sulle droghe, portare avanti la richiesta del riconoscimento di alcuni specifici diritti da parte di chi usa sostanze non significa promuovere una cultura dello “sballo” e della droga facile per tutti: questo, semmai, è quello che avviene praticamente, e paradossalmente, in un regime di proibizionismo.

Personalmente, da persona che ha vissuto su di sé le conseguenze dell’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti non leggere, credo che il discorso antiproibizionista sia anche, e soprattutto, qualcosa che riguarda la prevenzione del rischio in merito ad abuso e la riduzione del danno conseguente all’abuso di sostanze stupefacenti. Spesso quando si parla di antiproibizionismo si pensa alle “droghe leggere”, la Cannabis, e ai coffee shop di modello olandese. Fortunatamente, ma con non poche difficoltà, si sta facendo strada un discorso più globale in merito all’uso di sostanze e la relazione che c’è tra il regime di proibizionismo, o viceversa di legalizzazione, in cui questo uso avviene e le conseguenze dell’uso stesso. In pratica si parla di controllo e regolazione.

 

La possibile evoluzione dalla cultura proibizionista a quella antiproibizionista

 

Se è vero che molti lavorano su questo fronte, sia a livello nazionale che internazionale, è pur vero che sono, questi argomenti, poco conosciuti ai più, compresi genitori preoccupati di cosa fumano o assumono e possano assumere in qualche modo i loro figli, e, spiace dirlo, in alcuni casi neanche qualche addetto ai lavori (assistente sociale, educatore, psicologo) ha una visione aggiornata e approfondita su quello che può essere un approccio diverso alla questione “droga”.

In che modo, allora, favorire quella naturale, a mio avviso, evoluzione dalla cultura proibizionista a quella antiproibizionista? Uno degli elementi cardine è la restituzione della parola: la restituzione della parola intesa come riappropriazione di una identità, di un diritto-dovere ad esprimere il proprio pensiero e ad essere parte attiva in quanto protagonista principale, oltre che soggetto di interesse, delle varie politiche che si occupano di droghe. Pensare che la persona che usa sostanze, leggere o pesanti che siano, abbia la possibilità di esprimere, anche in un modo contestualizzato, il proprio pensiero in merito alla sua condizione è certamente il primo, ovvio, passo per una riappropriazione di identità: condizione fondamentale per un processo di consapevolezza e responsabilità.

Bisognerebbe comprendere in che modo il proibizionismo, qui inteso come cultura, ha impedito e impedisca tutto questo. Stigma ed emarginazione sono i danni più gravi dell’uso di sostanze. La nostra memoria tende ad immaginare come danni dell’uso di droga il tossico rinsecchito con lo sguardo assente, ridotto quasi a vivere sulla strada di espedienti: senza escludere che esistono, ed esisteranno sempre, persone che non riescono a gestire una qualche forma di dipendenza che hanno (e mi riferisco al tabacco, all’alcol, ma anche a chi tenta il suicidio perché non regge l’abbandono da parte della sua compagna o compagno) bisognerebbe pensare a tutte quelle persone che usano sostanze in modo controllato: ma controllato da loro stesse, non da qualcuno.

Cosa dicono, in termini sociali, queste persone? Molte cose ma, per quello che qui interessa, dicono soprattutto una cosa: l’uso di sostanze (dalla cannabis, alla cocaina, fino ad arrivare alle sostanze “chimiche”) accomuna una moltitudine variegata di umanità, difficilmente ascrivibile in precise tipologie. Qui, allora, cominciano a venir fuori i primi problemi riguardo gli effetti dannosi del proibizionismo: una delle cose alle quali la cultura proibizionista ci ha abituato è racchiudere le persone che usano sostanze in “categorie con problematiche specifiche”, spesso dimenticando che, ad esempio, l’uso di sostanze per alterare la propria capacità di percezione della realtà è un fenomeno umano che è sempre esistito in ogni cultura e sul quale esistono anche studi antropologici. La globalità nell’approccio alla questione droghe è fondamentale per avere una visione concreta e realistica della questione stessa e, soprattutto, per poter immaginare possibili interventi e strategie laddove si verificano situazioni problematiche legate all’uso di sostanze. A livello mondiale c’è una presa d’atto del fallimento della “guerra alla droga”, una guerra fatta con le politiche della “tolleranza zero” di matrice reganiana che ha visto vittime, fondamentalmente, i drogati e i piccoli spacciatori.

È paradossale che la “guerra alla droga” abbia fatto e faccia, in tutto il mondo, vittime proprio tra le persone che si vorrebbe preservare dal danno della droga: i drogati.

 

Chi vive sulla propria pelle le conseguenze della cultura proibizionista

 

Sarebbe opportuno riflettere su quanto e come vivono sulla propria pelle le conseguenze della cultura proibizionista le persone che usano sostanze. E per cultura proibizionista intendo tutto ciò che ha a che fare con il doversi nascondere, l’occultare, il doversi camuffare, il negare, l’autoghettizzazione per necessità, fino ad arrivare all’arresto anche per piccoli ed insignificanti reati di spaccio o alle sanzioni amministrative.

Contrastare tutto questo significa, prima di tutto, avviare e favorire un processo culturale: il lavoro alla “Carta dei Diritti delle persone che usano sostanze” si muove in questo senso. Veder rispettati i propri diritti, esigere che lo siano, rivendicarli: sono azioni sociali fondamentali che mirano alla riappropriazione di identità e alla responsabilizzazione. In merito, ad esempio, alla prevenzione di incidenti stradali la responsabilizzazione è la strada più efficace di tutte le possibili forme di repressione. Insomma la visione spesso eccessivamente deresponsabilizzante della persona che decide di assumere sostanze è una parte

significativa del problema. Chi usa sostanze andrebbe messo nelle condizioni di essere consapevole di ciò che fa soprattutto in merito alle sue condizioni personali, anche psichiche, e al contesto in cui si accinge ad usare una determinata sostanza. Prendiamo ad esempio il vino, il legalissimo vino, che ha una sua cultura, una sua storia, e i grandi vinai sono considerati degli artisti: eppure esistono gli alcolizzati buttati in un angolo del marciapiede con il brik in cartone di vino fatto senza l’uva, oppure gli alcolizzati di lusso, che se non hanno la loro buona quotidiana bottiglia di vino a disposizione corrono a comprarla perché non possono farne a meno, e poi ci sono i buoni bevitori della domenica e del fine settimana, questi si divideranno in bevitori di qualità (per conoscenza del vino e per disponibilità economica di poter comprare quello buono) e quelli di “vinacqua”, come dicono dalle mie parti, cioè di vino di pessima qualità che costa poco.

Questo panorama di consumo del vino si potrebbe spostare alla cannabis, con la differenza che questa è illegale. E che quindi, tra le tante conseguenze di questa illegalità, averne una cultura riguardo cosa sia, quali sono i principi attivi e via dicendo, è più difficile.

A Genova ci siamo incontrati tra chi tutte queste tematiche le ha sempre affrontate, studiate, le ha vissute in prima persona, cioè noi persone che usano o hanno usato sostanze, vivendo gli effetti non solo psicotropici, ma soprattutto sociali dell’uso di sostanze. L’incontro tra queste realtà, il protagonismo di chi assume sostanze, e quindi la sua responsabilizzazione, sono elementi importanti per la riduzione del danno dell’abuso di sostanze e la prevenzione del rischio, ma io credo soprattutto che questo sia un passo in avanti molto importante contro lo stigma e l’emarginazione.

 

Stigma ed emarginazione

 

Stigma ed emarginazione sono due aspetti del problema legato all’uso di sostanze ma, certamente, non i soli: la sempre maggiore accettazione sociale rispetto al consumo di cannabis, il diffondersi delle droghe del fine settimana, così come l’uso moderato o “controllato” di cocaina ed anche di eroina, aprono certamente scenari diversi anche nell’ambito di quella che deve essere definita un’educazione alla conoscenza delle sostanze volta alla prevenzione delle conseguenze dell’abuso.

Lorenzo Camoletto ed Elisa Fornero del Progetto Neutravel di Torino, tra gli intervenuti al convegno, mi hanno parlato della loro realtà professionale e di come operano in ambito di prevenzione del rischio e di riduzione del danno, proprio in riferimento ai nuovi consumi e al nuovo modo di assumere sostanze per tipologia e modalità. Il Progetto Neutravel opera nell’ambito del divertimento notturno, dei rave party e i free parties: “La nostra filosofia dominante” mi dicono “e che orienta il nostro progetto è data dal fatto che chi assume sostanze stupefacenti sceglie consapevolmente di consumarle, essere consapevoli della scelta però non vuol dire essere consapevoli dei rischi”. Parlando con loro si ha un quadro ben preciso di quelli che sono stili di divertimento e stili di consumo: mi spiegano infatti che i protagonisti del mondo della notte che usano determinati tipi di sostanze non necessariamente sviluppano una dipendenza. Quindi, pur usando una sostanza, sono ben lontani dal pensarsi come persone “problematiche” e soggette a dei rischi. Ma invece i rischi ci sono: dal mettersi alla guida in condizioni non idonee, fino ad avere un “bad trip” cioè un effetto negativo e vissuto male psicologicamente in conseguenza all’assunzione di qualche sostanza. “Il nostro obiettivo è creare consapevolezza nelle persone che mettono in atto determinate condotte su come poter ridurre quei rischi e limitare i danni che ne possono derivare. Riguardo il tipo di sostanze che vengono utilizzate, abbiamo l’impressione che attualmente nei contesti del divertimento torinese e dintorni la vera regina non sia più la cocaina ma la ketamina... la rielaborazione dei dati che il progetto Neutravel sta raccogliendo, avvalendosi di un questionario anonimo sottoposto ai frequentatori nei vari contesti del divertimento, sembra al momento confermarlo”. La cosa che mi ha colpito molto del Progetto Neutravel fa riferimento a quella consapevolezza e responsabilità che io riconduco sempre alla necessaria riappropriazione di identità di chi assume sostanze: “Vogliamo creare empowerment tra i frequentatori: far si che sappiano da soli che cosa fare in caso di eventi critici”, mi dice Elisa. Progetto Neutravel ha un modo interessante di lavorare: sono infatti sostenitori della peer education e del peer support: “Fanno parte della nostra equipe allargata: i peer sono operatori che frequentano attivamente i contesti del divertimento notturno per cui sono a conoscenza dei codici di comunicazione, dei linguaggi e della cultura specifica del contesto”.

Questo favorisce la comunicazione in quanto il peer non è percepito come un operatore sociale “classico”, che può essere visto, ingannevolmente, come qualcuno che tenta di calare dei saperi

dall’alto.

Nel concetto di peer support adottato nel Progetto Neutravel si favorisce inoltre molto lo scambio di conoscenze ed esperienze tra operatori e peer: questo è molto utile per raggiungere l’obiettivo e cioè che i ragazzi imparino a gestire le situazioni di crisi in modo autonomo. Ho incontrato e mi sono confrontato con molte altre realtà che operano in modo diverso nell’ambito della riduzione del danno e la prevenzione del rischio: Infoschok di Torino, Lab57 di Bologna, il Gruppo utenti del Ser.T di Milano per citarne alcune. L’aspetto significativo è che sono realtà che operano partendo dal basso e dal presupposto che proibire è inutile e che, per quanto a qualcuno possa risultare ostile come realtà, le persone, tante persone, usano sostanze, da quelle leggere a quelle pesanti. È ora che il discorso sulle droghe riparta abbandonando la palude proibizionista che, ripeto, è soprattutto una cultura fatta di ipocrisia che genera stigma ed emarginazione e molto carcere. Ripartire significa quindi evolversi culturalmente in un discorso che va sviluppato socialmente a partire dalla strada fino alle scuole e le università: un discorso che prenda atto del fallimento della war on drug, ma soprattutto un discorso dove noi, che usiamo o abbiamo usato sostanze, dobbiamo avere una dignitosa e rispettabile voce in capitolo.

 

 

 

 

Una persona, che non è più la stessa del reato, va avanti cercando di sognare

Sognare una vita che non potrà mai vivere

 

di Lorenzo Sciacca

 

E’ vero, ha ragione il mio amico Carmelo Musumeci (ergastolano ostativo), quando una persona è cambiata in carcere, soffre di più di quella che, magari non per causa sua, non ha la possibilità di cercare un cambiamento.

Credo che questo sia dovuto alla consapevolezza raggiunta, grazie a un percorso, del male fatto e di non essere più la persona del reato commesso.

Sempre il mio amico Carmelo mi dice che stava meglio prima che raggiungesse questa consapevolezza.

Onestamente all’inizio non avevo riflettuto attentamente alle sue parole, poi accade un qualcosa che neanch’io saprei riconoscere come un momento, un attimo, un episodio o altro, so solo che, a volte, accade che torni indietro a pensare a qualcosa che avevi considerato distrattamente per rifletterci sopra più a fondo e finisci per dirti “cazzo è vero”.

Io non voglio dimenticare quello che sono stato e da dove vengo, assolutamente no, ma non mi riconosco più in questi posti. Eppure io ero uno di quelli a cui entrare in carcere non li toccava, non gli faceva nessun effetto, certo il dolore di allontanarsi dalla famiglia era molto forte, ma la mia persona era come indifferente. Questo, ovviamente, è causato da tutto il mio entrare e uscire dalle carceri, perché la mia è stata una scelta, dunque ero consapevole del conto che poi avrei dovuto pagare, il risultato era facile da intuire. Ma il punto qual è? Il punto è avere sulle spalle una carcerazione lunga. Avere la carcerazione lunga significa dover aspettare i tempi che la nostra legge prevede. Leggi emergenziali  che risalgono ai tempi delle stragi mafiose e di atti terroristici, anni 1990-1991. Oppure leggi sulla recidiva, ad esempio l’ex Cirielli. Queste sono tutte leggi che, oltre ad elevare la tua condanna in fase di 1° grado, ti porteranno ad aspettare tempi più lunghi per accedere per lo meno ai permessi, tempi che tu inizi a credere che sia solo utopia riuscire a raggiungere restando indenne rispetto alla quotidianità di un carcere. Una persona che raggiunge una consapevolezza deve continuare a stare rinchiusa in una prigione a soffrire? Non credo che la mia sia una domanda banale. Una persona che non è la stessa del reato va avanti cercando di sognare, di sognare una vita che non potrà mai vivere. A volte penso che i sogni possano anche uccidere. Ogni sera sogno una vita vicino alla persona che amo e alle persone che mi vogliono bene, ma la realtà è che forse non avrò il tempo di viverla, quella vita. Questo perché le cose cambiano con gli anni, la vita scorre fuori e le persone cambiano e ci lasciano. Oggi questo non riesco ad accettarlo, però riconosco che è così, ed è impossibile cambiarlo. Allora mi chiedo: qual è il senso di una pena se deve continuare anche quando riconosci che non sei più lo stesso? Il contorno di tutto questo assume un aspetto estremamente crudele e perverso.

Ogni singolo giorno ti devi alzare dal letto con grinta, la stessa che ti ha portato a essere diverso, perché diventare davvero diverso non è facile, e con la speranza che un giorno qualcuno ti riconosca per quello che sei stato, ma anche per quello che sei oggi.