Incontro con il professor Michele Cortelazzo

Scrivere bene non vuole dire scrivere tanto e complicato

 

Le parole noi nel nostro progetto con le scuole le mettiamo a nudo, le smontiamo, le analizziamo spietatamente. Ed è proprio perché lavoriamo tantissimo con le parole, il linguaggio, le narrazioni, e spesso abbiamo discusso del linguaggio giuridico, quello usato dai magistrati per esempio, e nelle perizie, e nei processi, che abbiamo deciso di invitare in redazione il professor Michele Cortelazzo, direttore dell’Istituto di Linguistica dell’Università di Padova.

Il professor Cortelazzo è esperto di questa materia, allora volevamo incominciare a ragionare se davvero è inevitabile che nell’ambito giuridico si usi un certo tipo di linguaggio, o se non è in certi casi l’esercizio di una forma di potere, o ancora un “vizio” dettato dalla consuetudine e da certe cattive abitudini che si sono consolidate nell’ambito della giustizia.

 

Michele Cortelazzo: Io volevo iniziare spiegando perché la richiesta che mi è stata fatta è giunta al momento giusto, e poi come pensavo di organizzare questo incontro. Quest’anno ho tenuto uno dei miei corsi proprio sul linguaggio giuridico, ed è un corso che si è concluso con un intervento di una persona che so che è stata anche qui, Gianrico Carofiglio, una persona con l’esperienza di scrittore e l’esperienza di magistrato, quindi abbiamo anche discusso con lui di alcuni risultati del nostro lavoro. Allora intanto vi dico che cosa abbiamo fatto in questo corso. I miei studenti sono studenti di comunicazione, quindi ho cercato di usare proprio un sistema di mettere a contatto chi è orientato a ottimizzare, a perfezionare le capacità di comunicazione con il settore che secondo me è più patologico in Italia per quello che riguarda l’uso della lingua. Per cui abbiamo preso una sentenza della Cassazione, fra l’altro per poter fare un corso di 40 ore ho dovuto prendere una sentenza che non avesse più di due pagine. Le sentenze che non hanno più di due pagine in genere sono di tipo procedurale e non narrativo, quindi una complicazione enorme, noi abbiamo cercato di riscriverla. Perché abbiamo cercato di riscriverla?

Adesso cercheremo di vedere quali possono essere alcune delle caratteristiche del linguaggio di magistrati, di avvocati - avvocati e magistrati parlano esattamente la stessa lingua - e commissari di polizia… La colpa è dei miei colleghi di giurisprudenza, io sulla qualità linguistica di molti miei colleghi di giurisprudenza sparerei a zero tranquillamente. Allora, perché ci siamo messi a lavorare su questo?

Perché appunto, la scrittura di chi si è laureato in giurisprudenza, qualunque sia il ruolo che svolge, è una delle scritture più complicate che esistano in Italia. I medici scrivono come dei bambini a confronto, e credo che sia un’altra esperienza che avete, quando andate a fare una visita e vi danno il referto medico non capite niente, però in una sentenza si capisce ancora meno. Si parla tanto del politichese, ma decisamente si capisce meglio il politichese di certe scritture giuridiche.

Allora qual è il problema centrale? Se voi parlate con un avvocato, o con un giudice, vi diranno: però il nostro è un discorso tecnico, e quindi se voi parlate con un ingegnere che vi spiega come funziona una caldaia, è chiaro che deve usare un certo lessico tecnico, perché noi no? l’ingegnere che vi spiega la caldaia si, e io che devo far funzionare un sistema molto delicato, molto complesso come quello della giustizia no?

Se le cose fossero cosi, cioè se i problemi di scarsa comprensione di qualsiasi testo giuridico fossero legati a necessità di espressioni tecniche, il discorso potrebbe essere chiuso, questo avviene in tutti i campi. Però ci sono due problemi secondo me: il primo è che i magistrati e poi tutti gli altri in questo ambito della Giustizia non parlano per sé, lo sapete meglio di me che quando si legge il dispositivo della sentenza in udienza si comincia con: “In nome del Popolo italiano”. Cioè in altre parole il magistrato che compie diversi atti fino all’atto finale della lettura della sentenza, lo fa come portavoce, tecnico senz’altro, ma come portavoce del Popolo italiano. E allora non c’è qualche mediazione possibile fra la necessaria tecnicità e il fatto però che si parla “in nome del Popolo italiano”? E non c’è un altro problema? Io non so se voi sapete qual è la lingua ufficiale della Repubblica Italiana… l’italiano, sì è l’italiano, ma da quando? Dal 1999, perché prima non c’era nessuna norma di legge che sancisse che l’italiano era la lingua ufficiale della Repubblica italiana, e paradossalmente questo è stato sancito nero su bianco in una legge che serviva a tutelare le minoranze, cioè la legge del ’99, quella per cui per esempio adesso in tutti i paesi del Friuli c’è il nome italiano e il nome friulano. Ecco nel momento in cui con l’attuazione dell’art. 6 della Costituzione si è deciso di sviluppare il bilinguismo in quei posti in cui c’erano le ragioni per svilupparlo, hanno voluto mettere come cappello che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. Prima non c’era scritto da nessuna parte, la Costituzione non dice che la lingua della Repubblica è l’italiano.

Allora se la lingua di quel popolo in nome del quale il giudice emette una sentenza è la lingua italiana, quando uno scrive per esempio “per avere con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, esploso 7 colpi di arma da fuoco a distanza ravvicinata e ad altezza d’uomo, attingendo cosi al collo il carabiniere brigadiere… e alla gamba l’appuntato… mentre tentava di sottrarsi al fuoco dietro a un riparo, e al giubbotto operativo di tela il vice brigadiere… che lo stava affrontando, compiendo cosi atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte, non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà”, allora quello che noi possiamo chiederci è: ma è questa la lingua italiana, lingua ufficiale della Repubblica italiana? Per cui noi possiamo dire: c’è una prima ragione che ci impone, che ci consente di essere critici nei confronti del linguaggio giuridico cosi come viene usato in tutte le scritture, di cui poi voi siete credo varie volte lettori. Da una parte che non rispetta quell’idea che si parla “in nome del Popolo italiano”, e dall’altra che in realtà tutte queste cose che qui ho letto e che mi hanno fatto un po’ faticare a leggerle… tutte queste cose hanno poco a che fare con la tecnica. Voglio dire: è chiaro che “più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso” possiamo dirlo perché immagino che lo dica il Codice penale, allora quello possiamo anche ammettere che sia una necessità tecnica. Ma tutto il resto… il caso tipico, “attingere una persona”. Voi quando date un pugno a uno non dite che avete attinto una persona con un pugno, ma che gli avete dato un pugno. Fa male alla stessa maniera sia attingere, sia dare un pugno, però è questo il modo che abbiamo di esprimerci. E soprattutto in quello che vi ho letto io non ho calcolato quanto lunga sia, ma questa sarà una frase di 100 parole, ce ne sono di 150, quando mai nella nostra vita noi produciamo frasi cosi lunghe?

Io ho svolto prima di tutto una critica di tipo per metà “ideologico, di principio” e per metà pragmatico, di efficienza rispetto all’uso della lingua che si fa in moltissimi atti giudiziari. Quello ideologico di principio è: se dobbiamo parlare in nome del Popolo Italiano, dobbiamo parlare nella maniera più simile possibile al modo di parlare del Popolo Italiano, tranne quando ne ho delle necessità particolari. Se io parlo di una persona che ha ucciso un’altra persona, io dico appunto: l’ha uccisa. Tecnicamente immagino che potrebbe essere un omicidio preterintenzionale, omicidio premeditato, omicidio colposo… lì capisco benissimo perché vuol dire che a tipi diversi di omicidio corrispondono tipi diversi di pena, e allora è chiaro che bisogna distinguere, è una necessità tecnica, ma tutte le altre cose no. E poi l’obiezione pragmatica è che scrivere testi di questo genere, a parte il fatto che secondo me si fa anche tanta fatica a imparare a scrivere cosi, significa creare ripetute difficoltà a tutte le persone che non siano a loro volta giuristi che leggono, con il risultato che c’è di fatto una sorta di “complicità” tra le diverse parti del processo, perché se uno non ha un avvocato che gli spiega queste cose, la maggior parte delle persone non riesce a leggerle.

La questione di fondo allora è perché le persone che si occupano di diritto scrivano in questo modo. Allora io qui rubo le parole, cambiandole un po’, che ci ha detto Carofiglio al corso, lui ha visto tre ragioni: inerzia, narcisismo della scrittura, esercitazione del potere. Il primo punto è l’inerzia: siccome chi fa una professione nel campo del diritto inizia a leggere i libri di diritto dell’università che sono scritti in questo modo, legge le leggi che sono scritte in questo modo, poi comincia a fare pratica d’avvocato, l’uditore giudiziario, e non fa altro che leggere sentenze che sono scritte in questo modo, alla fine si abitua a scrivere in un certo modo e non si pone neanche il problema se non sia il caso di cambiare. Certo devo mettere in campo delle circostanze attenuanti, se un magistrato deve scrivere in un mese 50 sentenze e in più fare le udienze non ha il tempo di pensare troppo a quello che scrive, e quindi scrive come una macchina, come ha sempre imparato senza esercitare quello spirito critico, che invece normalmente è la base di quanto si scrive.

Se un magistrato ha varie cose da fare e in più deve scrivere un certo numero di sentenze in un tempo relativamente ridotto, è chiaro che va avanti automaticamente come farebbe ognuno di noi. Allora la risposta a questo problema dovrebbe essere in termini di organizzazione del lavoro, dovrebbe essere quella di avere più tempo per fare questo tipo di lavoro. La seconda è il narcisismo della scrittura, che cosa intendo con questo? Attenzione, narcisismo della scrittura, non dello scrittore. Ognuno di noi che si mette a scrivere un po’ narciso lo è, però una cosa diversa è il narcisismo dello scrittore, questo è uno stato psicologico, un conto è il narcisismo della scrittura, il compiacimento nello scrivere in una certa maniera. Il guaio è chi scrive di diritto perché ha sempre imparato a fare cosi, pensa ormai in maniera fortemente interiorizzata che più scrive una cosa complicata e più quella cosa è bella. Io invece sono del parere che scrivere bene è scrivere frasi semplici in cui ho tolto tutto quello che non serve. Noi abbiamo un testo giuridico che risponde a queste caratteristiche, che è la Costituzione delle Repubblica italiana, con l’eccezione dell’attuale capo quinto che cosi come è stato riformato una decina di anni fa è stato scritto non più con la saggezza dei Padri Costituenti del ‘48, ma in maniera molto simile a come sono scritte oggi le leggi.

Il terzo punto, che è quello in cui mi trovo più in disaccordo con Carofiglio, è il fatto che attraverso le parole si esercita un potere. Io sono in disaccordo non sul fatto in sé, effettivamente usare un certo tipo di lingua crea condizioni di disparità fra chi scrive e chi legge, o comunque fra chi scrive e una parte di chi legge, però io non credo che nella maggior parte dei casi questo sia un effetto consapevole e voluto, ma l’effetto c’è. Se voi per leggere una sentenza che vi riguarda dovete andare dal vostro avvocato e chiedere che vi spieghi che cosa c’è scritto, è chiaro che c’è una forma di potere, perché voi non siete liberi per cosi dire di capire che cosa si dice sulla vostra vita con le vostre competenze. E non dico a chi magari di voi ha avuto una storia scolastica ridotta, ma è la maggior parte della popolazione, non sono casi singoli. E allora effettivamente l’uso di una lingua che per pigrizia, per narcisismo è complessa, usa parole che si potrebbero evitare, costituisce effettivamente una, a mio parere involontaria nella maggior parte dei casi, forma di potere. Quello che a me preoccupa di più è la “falsa conoscenza linguistica” che hanno avvocati e magistrati rispetto a questi problemi. Vi faccio un esempio concreto: nella sentenza che abbiamo esaminato abbiamo trovato la parola “gravame”, che vuol dire sostanzialmente “ricorso”, allora perché non diciamo “ricorso”, perché dobbiamo dire “gravame”?

Io la prima volta che ho incontrato questa parola pensavo che fosse qualcosa come “condanna, condanna accessoria”. Ma è una parola tecnica? No, non è una parola tecnica, nel Codice di Procedura Penale gravame c’è una sola volta, e per il fatto che il legislatore l’ha usato una volta gli avvocati, credendo di fare qualche cosa alla quale sono obbligati, credendo che fosse un termine tecnico oppure compiacendosi di questa parola che nessuno di voi, o quasi nessuno di voi ha sentito, la usano a ogni piè sospinto.

Qualcuno dei miei studenti ha detto che la questione che l’imputato venga obbligatoriamente assistito da un avvocato, che ha il compito anche di fungere da mediatore linguistico con il suo cliente, dà ragione del fatto che i magistrati usino queste parole più difficili, perché permettono una comunicazione più rapida. E questa mi pare una cosa più complessa, ma anche più grave, queste e altre giustificazioni sono le più pericolose, perché che ci sia bisogno di termini tecnici non lo mette in discussione nessuno, ma nella scrittura di magistrati e avvocati le questioni che nascono da termini tecnici sono il 10% circa. Poi è vero che l’imputato non è da solo, è con l’avvocato, ma perché allora io con la scusa dell’avvocato devo rendere difficile anche quello che potrebbe non essere difficile? E credo che questa sia la questione fondamentale. Tenete presente che questo è un problema dei sistemi giuridici, solo che cosa si fa negli altri sistemi giuridici? in America ci sono dei manuali di stile legale, cioè si insegna ad avvocati e magistrati a scrivere dei testi più abbordabili. Tenete presente che basterebbe incominciare a rompere queste frasi lunghissime di cui prima vi ho letto un esempio, in frasi più brevi e già questo da solo migliorerebbe tantissimo la leggibilità del testo, ma in chi usa questo linguaggio le resistenze d’inerzia, il narcisismo della scrittura e la difesa del proprio ruolo sono delle caratteristiche individuali e di casta che forse verranno meno nel tempo, ma ci vorrà davvero tanto tempo.

 

Clirim Bitri: Io sono albanese e sto studiando giurisprudenza. La prima cosa che vorrei dire è che a volte si usa un linguaggio di un certo tipo nell’ambito giuridico perché non ci sia spazio di interpretazione.

Poi lei sa che in Parlamento c’è già una Commissione per la semplificazione della legislazione, che è stata istituita la scorsa legislatura, ma io sono convinto che il linguaggio tecnico serve nella giurisprudenza, perché se si lasciano delle possibilità di interpretare un testo, poi trovi un avvocato che non sa interpretare bene, o trovi un giudice che interpreta male e prendi l’ergastolo…

 

Ornella Favero: Un detenuto che difende i giudici…

 

Michele Cortelazzo: Questo dimostra quanto sono forti i miei colleghi di giurisprudenza… Allora io qui ho una precisazione da fare e un’obiezione. Parto da una cosa che lei ha detto, il fatto che il problema sta alla base nella stesura delle leggi, questo è indubbio, devo anche dire che è dagli anni 80 almeno in Italia che si fanno norme, suggerimenti, raccomandazioni per scrivere le leggi in un certo modo e siamo al punto di partenza, anzi peggio. Io sono stato a un convegno due o tre anni fa e c’era quello che poi è diventato Presidente della Corte Costituzionale, il professore De Siervo, che ha detto che quando loro si trovano a dare interpretazioni, giudizi di incostituzionalità delle leggi, trovano più problemi di scrittura nelle leggi più recenti che non nelle leggi più vecchie. Magari le leggi più vecchie rappresentano una realtà che non è più quella di oggi, però il problema è relativamente facile perché si capisce di che cosa si parlava. Diverso è il discorso della tecnicità, sul discorso della tecnicità del linguaggio giuridico non ho nessun dubbio, ma è il pertugio, la fessura attraverso la quale passa di tutto. In realtà quello che io imputo alla prassi di scrittura giuridica è proprio quello di contravvenire a quel principio che lei giustamente ha ricordato, di non dare spazio a interpretazioni diverse, e allora succede quello che dice lei, che a seconda della capacità di un avvocato di far valere certe ambiguità del testo o della minore accortezza di un giudice possiamo dire che “si va dalla assoluzione all’ergastolo”, quindi su questo sono assolutamente d’accordo. Allora io direi che la tecnicità è ineliminabile, ma con la scusa della tecnicità si fanno delle operazioni culturali che invece non sono più adatte al tempo attuale. E poi io sono soprattutto del parere che chiarezza e mancanza di ambiguità sono più facili da raggiungere con una lingua chiara, semplice che non con una lingua cosi complicata.

 

Gianluca Cappuzzo: A me interessa tornare sul terzo punto di cui si parlava prima, “esercizio del potere”, che magari io chiamerei narcisismo di casta… E lo comprendo ancora meglio quando si parla dei medici, ma nell’ambito medico molto è cambiato negli ultimi anni, anche perché c’è la questione del consenso informato, un medico che parla con un altro medico può usare il tecnicismo, ma quando parla con il paziente è costretto in un certo senso a semplificare e a spiegare. Questo non lo vedo nel linguaggio giuridico, che è sempre estremamente tecnico, ma più che il linguaggio è la forma che è assolutamente lontana dalla comunicazione che c’è nella quotidianità. Ma mentre adesso in ambito medico è scattato qualcosa che obbliga il medico a semplificare nei confronti del paziente, questo non avviene parimenti tra il tecnico giuridico e il semplice cittadino.

 

Carmelo Musumeci: Io mi ricordo un passaggio dei Promessi Sposi, dove don Abbondio per imbrogliare Renzo incomincia a parlare in latino, e quindi Renzo capisce che quando sente parlare quel tipo di linguaggio c’è la fregatura di mezzo. E io credo che sia proprio un senso di potere il parlare così, a livello tecnico, anche perché quando si parla un certo linguaggio tecnico, ci si rivolge a una fetta della società, a un pubblico molto ristretto. Quindi, questo si usa anche, attenzione, proprio come una casta, cioè, si usa come un potere. A me piace scrivere dei, come li chiamo io, racconti social noir carcerari, e qualcuno che scrive bene mi rimprovera di scrivere in maniera troppo semplice, a volte di metterci anche la parolaccia, e io gli rispondo: “Guarda, io purtroppo non so scrivere bene, io scrivo come parlo”. Perché? Perché il mio pubblico è la società, le persone che non conoscono il carcere, che non conoscono le dinamiche del carcere, quindi io cerco di rivolgermi a una massa più grande possibile, e so che il linguaggio comune mi porta ad avere un pubblico più grande, quindi diciamo anche che chi usa questo tipo di linguaggio, il linguaggio giuridico intendo, sbaglia, sbaglia anche perché sono in pochi che lo capiscono.

Io credo invece che si possa parlare di argomenti difficili anche in modo e con parole più semplici, quindi sta anche all’intelligenza della persona nel cercare di dire la stessa cosa in maniera semplice, però, attenzione, può darsi che tanti non abbiano proprio questa capacità.

 

Bruno Turci: Io credo che questo tipo di linguaggio sarà molto difficile cambiarlo, modificarlo. Io sono del parere che sarebbe bene semplificare, ma da un altro lato mi chiedo: “Perché dobbiamo semplificarlo?”, perché questo è un linguaggio che non è diretto a tutti, non è diretto al popolo, al fornaio, perché il fornaio se ha un problema giuridico va da un avvocato, quindi è chiaro che se il fornaio va dall’avvocato non sa neanche cosa ci sia scritto su quei fogli, quindi a che scopo fare questo sforzo di semplificazione? Quello che pesa realmente è che queste sentenze sono scritte da uomini che sembrano scrivere parlando con se stessi più che comunicare con le persone che poi quelle sentenze le dovranno leggere, e cercare di capire che ne sarà della loro vita.

 

Elton Kalica: Intanto, chi conosce l’ambiente del carcere si rende conto da subito come questo tipo di linguaggio, che viene usato dagli operatori di giustizia, non fa altro che creare ancora più distanza tra la macchina della giustizia e il detenuto, l’individuo solo e disorientato.

Quindi la prima necessità che le persone hanno è quella di capire cosa c’è scritto sul foglio che gli è stato dato. E questo già dimostra quanto siano forti e pesanti gli effetti che questo tipo di linguaggio ha su chi poi è il soggetto/interlocutore principale della macchina della giustizia. Si tratta di un continuo senso d’impotenza nelle diverse fasi: durante il processo e durante l’esecuzione della pena.

Si tratta di tempi lunghi dove il processo di trasformazione tocca ogni aspetto fisico/mentale/comportamentale. Il cambiamento investe quindi anche il linguaggio, perché nella vita di tutti i giorni la comunicazione ci serve, specialemente se ci troviamo in situazioni nuove. In carcere invece diventa un ostacolo, quindi hai bisogno di qualcuno che ti traduca, che ti spieghi, hai bisogno soprattutto dell’avvocato, che vai a pagare, perché magari non sei capace di fare neanche una semplice istanza, chiedere una cosa semplice senza il suo aiuto, proprio perché lui possiede le conoscenze tecniche che tu non hai. Il linguaggio giuridico pertanto si rivela anche un esercizio di potere.

Si manifesta il dominio attraverso una terminolgia conosciuta a pochi, alla cerchia chiusa dell’istituzione. Io credo quindi che sia una cosa buona e giusta quella di tentare di impegnarsi perché le cose cambino.

È vero che anche in altri campi, come quello medico c’è questa tendenza a usare un linguaggio che poi continua a riprodurre il rapporto di potere, però i pazienti hanno delle armi per difendersi, in quanto uomini liberi e in pieno possesso di tutti i diritti. Il detenuto invece è privo di difese, in quanto isolato. Basta ricordare che il Codice Penale è uno dei più vecchi in Europa, per capire quanta inerzia ci sia nel volere il cambiamento. Io credo che se le sentenze, se le ordinanze, se le circolari, se tutto diventasse più semplice questo andrebbe a beneficio soprattutto dei detenuti. Ma a quel punto ci sarebbe ancora più conflitto tra una istituzione che tende a chiudere spazi e l’individuo che tenta di riconquistare spazi. E allora bisogna mettersi nell’ordine delle idee che non è facile cambiare il linguaggio giuridico.

 

Ornella Favero: Io spesso ho la sensazione che troppi detenuti siano molto più convinti di me che “in fondo il linguaggio tecnico serve”. Io non sostengo che uno, invece di dire “omicidio preterintenzionale”, debba inventare una espressione più semplice, quella è una formula tecnica, ma guardiamo la forma usata in frasi di questo genere “Interposto appello avverso la decisione richiedevasi l’assoluzione con ampia formula facendosi notare che la pistola Beretta di cui all’imputazione non era sull’auto… ma sull’autovettura sotto il sedile… richiedevasi la riduzione al minimo edittale della pena con concessione delle attenuanti generiche…”. Allora, tutte queste forme, “richiedevasi”, “interposto appello avverso”, “facendosi notare che”, è proprio la forma che è terribile.

È interessante che quando in redazione abbiamo incontrato un gruppo di magistrati con funzioni diverse, gip, gup, pubblici ministeri, e gli abbiamo fatto una domanda sul linguaggio giuridico, ci sono stati due partiti, perché alcuni sostenevano che l’uso di questo tipo di linguaggio evita che ci siano ambiguità e possibili interpretazioni discordanti, quindi è a tutela, praticamente, della persona a cui è rivolto. Ma qualcuno ha ammesso che ci sono molti abusi. Allora, per esempio, la costruzione e l’uso di queste forme impersonali, e poi ancora l’uso del latino credo che davvero non abbiano nessuna giustificazione. Qualcuno dice che quel latino serve a rendere meno a rischio di interpretazioni errate le sentenze, io non ci credo. Volevo in proposito citare il testo “Il delitto non sa scrivere”, che riguarda anche come sono scritte le perizie e gli atti processuali, che secondo uno degli autori, il criminologo Alfredo Verde, rischiano di essere “Sistemi rigidi al fine di tessere trame volte essenzialmente a escludere anziché a comprendere, ad espellere l’alterità, la diversità, anziché accoglierne gli aspetti vitali, a stigmatizzare la diversità del deviante anziché riconoscerne l’umanità e la continuità”.

Queste perizie per esempio, oppure il linguaggio processuale, alla fine rendono la persona che è lì davanti qualcosa di diverso da noi, è questo secondo me un elemento interessante, che è simile a quello che noi troviamo anche in un certo tipo di giornalismo, si deve sempre raccontare la persona che ha a che fare con la giustizia, che ha commesso reati, facendoci immaginare che sia diverso da noi, e quindi si crea una distanza ancora maggiore usando questo linguaggio, e la persona che viene raccontata così diventa un mostro, diventa un mostro nelle perizie, nei processi, nelle sentenze, gli si toglie totalmente l’umanità, e il linguaggio secondo me contribuisce tantissimo a questo.

Una cosa curiosa poi che succede qui dentro è che molte persone detenute spesso, volendo imitare il linguaggio dei magistrati, quando devono scrivere ai magistrati, per chiedere un permesso, una misura alternativa, usano un linguaggio mostruoso, forse perché si crea questa idea che, siccome il magistrato usa quel linguaggio ed ha un potere, io devo cercare di rispondergli usando un linguaggio simile, no? quindi le lettere che partono da qui, scritte dalle persone detenute, sono spesso incredibilmente infarcite di parole e forme contorte, e c’è sempre qualcuno che le scrive per tutti, e quasi sempre è quello che ha lo stile più barocco, che più ricalca il linguaggio delle sentenze.

 

Clirim Bitri: Allora, noi stiamo parlando delle parole scritte per le sentenze, o no? le sentenze scritte, le parole che vengono scritte in quei fogli di carta. Il problema è che nel diritto, oltre a quello che è scritto, c’è il diritto vivente, l’interpretazione che dà un’intera magistratura a quelle parole. Perché si chiama diritto vivente oltre a quello scritto? Se una sentenza è scritta, lui te la dà, la leggi, io che la leggo non capisco niente, però l’interpretazione che viene data dal CSM, dalla Corte Costituzionale, dalla Cassazione, si chiama diritto vivente, allora quella singola parola che per me non ha significato per loro ha tutta un’interpretazione.

 

Michele Cortelazzo: Però lei ha detto una cosa importante, “per loro”, è questa la parola chiave.

 

Ornella Favero: Sì, “loro” sono i giudici, certi magistrati che creano una distanza abissale tra loro e “il resto del mondo”. Ma anche un certo linguaggio usato nel percorso rieducativo del detenuto è interessante. Per noi in realtà una scuola straordinaria di comunicazione, ma per tutti intendo, i detenuti, i volontari, le persone come me, sono gli incontri con gli studenti. E io qualche volta sento le persone detenute che parlano di “sintesi, ipotesi trattamentale” immaginando che lo studente capisca, perché ormai anche loro hanno interiorizzato queste mostruosità. La sintesi, si chiama proprio così, “la sintesi, l’educatrice mi deve fare la sintesi”, è la relazione che fanno gli operatori sul comportamento, sul percorso della persona detenuta, e poi c’è “l’ipotesi trattamentale”, il trattamento è questa cosa che non si capisce cosa sia, per cui il detenuto deve venire: “trattato” per poi essere riammesso nella società.

Già la parola “trattamento” è abbastanza mostruosa, perché noi discutevamo che anche il percorso di risocializzazione deve essere un percorso di scambio con la società in cui il cambiamento avviene perché ti confronti con il mondo esterno, non perché qualcuno ti prende, ti tratta come i rifiuti da riciclare e ti trasforma in qualcosa di diverso. Quindi è complicato questo mondo, perché anche rispetto al linguaggio giuridico-carcerario ci sarebbero veramente da dire tantissime cose.

 

Michele Cortelazzo: Io qui ho parlato del linguaggio degli operatori del diritto perché ovviamente mi è stato chiesto ed è anche il luogo adatto per parlare di questo, ma io sono assolutamente cosciente che per i medici è la stessa cosa, per gli ingegneri è la stessa cosa, gli operatori ecologici la stessa cosa, però qual è la differenza tra l’operatore ecologico e il giudice?

Se l’operatore ecologico deve parlare del trattamento dei rifiuti, userà dei termini tecnici ma inseriti in un discorso che è lo stesso, in una costruzione del discorso, che è la stessa che useremmo oggi per dire, che ne so?, che fa caldo. Mentre il problema di fondo è che i termini tecnici, i termini necessari del diritto vengono inseriti in un tessuto sintattico, fatto di frasi lunghe e complicate, confuse, che non è quello della lingua di tutti i giorni. Allora uno può dire: ma sono solo i giudici, gli avvocati che fanno questo? Tenete presente che io non distinguo tra professore di diritto, giudice, avvocato, commissario di polizia, perché provengono tutti dalla stessa formazione iniziale, ed è li che si gioca questa cosa. Io non so se avete un’idea dell’assurdità, forse necessaria, della prova di scrittura più tipica in Italia che è l’esame di maturità, allora l’esame di maturità adesso è un po’ cambiato negli ultimi anni, ma nella sua struttura di base in che cosa consiste? Si prende una frase di un genio che in quattro righe ha detto delle verità bellissime e si chiede ad alcune migliaia di ragazzi di 19 anni sotto stress di scrivere quattro o cinque pagine. Ma se si vuole vedere se lo studente sa usare bene la grammatica, perché si chiede questo attraverso un esercizio di amplificazione, invece di chiedere un riassunto, di chiedere una sintesi, appunto? Questa è un po’ l’idea che la cultura italiana da secoli ha, di che cosa vuol dire scrivere bene, scrivere bene vuole dire scrivere tanto e complicato. Allora è chiaro che, da un certo punto di vista, chi scrive di diritto realizza nel modo migliore da questa prospettiva questa idea dell’amplificazione, allora se io facessi un corso di scrittura per giuristi la prima cosa che gli proporrei è di esercitarsi a togliere moltissimo, a togliere, loro sono abituati ad aggiungere, a dire tante parole per esprimere un concetto, io li condannerei, se mi permettete questa metafora, avete scritto quattro pagine? io scommetto che la stessa cosa riuscite a scriverla in due pagine garantendo la stessa mancanza di equivoci.

Poi c’è un’altra cosa sempre a questo proposito: chi è il padrone della lingua? La lingua non è proprietà di un settore, ma è proprietà dell’intera comunità dei parlanti, e quindi se una parola ha un determinato significato o in ambito tecnico viene espressamente definita, per esempio quando si parla di incidente probatorio, un incidente probatorio è un elemento del processo che viene svolto in queste determinate circostanze con queste determinate caratteristiche, ma se non c’è questo, i padroni della lingua sono quelli che stanno fuori, non fuori da qui, fuori dai tribunali, perché non c’è niente più della lingua che sia un bene collettivo, come l’aria stessa.

Quindi cosa voglio dire? O abbiamo dei processi di definizione espressi nei testi di legge e quindi vuole dire che quella parola è diventata un termine tecnico, se no gli operatori del diritto devono soggiacere alle regole di tutti perché non hanno potere sulla lingua, hanno il potere su altre cose ma non hanno potere sulla lingua. Molti, quando affronto queste questioni, mi hanno detto: “Non creda di cambiare il mondo con questa idea della semplificazione del linguaggio”, io ho risposto che non sono disposto a scommettere niente che poi questo avrà effetto immediato, però se permette di iniziare a far venire fuori una consapevolezza di queste cose, io lo ritengo già un risultato. Effettivamente, voi avete insistito molto su questa questione del potere, che poi è diventata del ruolo, che poi è diventata del dominio, che è diventata della casta, che sono tutti in parte sinonimi, parole che vogliono indicare la stessa cosa, quello che a me pare importante è che se c’è questa casta, non è una casta professionale, nel senso di una professione, ma di un intero mondo nel quale ci sono persone che giocano in ruoli diversi, ma che sono fatte tutte con lo stampino, tanto è vero che un magistrato se si stanca di fare il magistrato che cosa fa? Dà le dimissioni e poi fa l’avvocato, ne abbiamo molti casi, in America molti di più lì è proprio la normalità, il che vuol dire che è la stessa funzione svolta in ruoli diversi. Io so benissimo che questa idea di non riuscire a trovare il tono giusto rispetto alla situazione comunicativa e agli interlocutori che si hanno davanti è una cosa che spesso molti di noi abbiamo, però devo dire i professori di giurisprudenza più di tutti. Adesso vi racconto un piccolo fatto: quando è venuto a Padova all’Università Gianrico Carofiglio, ha fatto una lezione da me e una lezione dai colleghi di giurisprudenza, io l’ho accompagnato per cortesia e appena è entrato gli studenti si sono alzati in piedi. Ora che entri il professore in un corso di giurisprudenza e gli studenti si alzano in piedi, è una cosa che, io ho insegnato in altri Paesi oltre l’Italia, non mi è mai, mai capitata, quando succede un fatto del genere uno ha una chiave di lettura per molte altre cose. Allora è chiara una cosa, che i giuristi non sono capaci di scrivere in maniera semplice perché nessuno glielo ha mai insegnato, nessuno ci ha mai provato, io resto dell’idea che la provocazione più grande è quella di cercare di far vedere che si possono scrivere testi che dal punto di vista giuridico sono inappuntabili, che hanno un livello stilistico comunque alto, ma facendolo attraverso frasi brevi, attraverso capoversi che sono fatti di più frasi. Sarà difficile cambiare? Io credo che sarà lungo cambiare, forse sarà meno difficile quanto più si sviluppa lo spazio giuridico europeo.

La mia idea è che comunque in uno stato democratico del ventunesimo secolo non è ammissibile che un settore fondamentale della cultura di quel Paese usi una lingua che non è usata nel resto del Paese, e che questa lingua diversa serva solo in minima parte a garantire esattezza e univocità.