Dopo tanto silenzio, finalmente il racconto di sé

 

A cura di Angelo Ferrarini, responsabile con Donatella Erlati

del laboratorio di scrittura di Ristretti al Due Palazzi

 

Giovedì 20 marzo, primavera secondo Google. Arrivano due lettere al Gruppo, due narrazioni di sé. La prima presentata a parte (di Giorgio Fontana), la secondo qui. È di Mentor, rimasto in silenzio per tanto tempo e ora uscito all’aperto. Per il caffè si usa la parola “espresso”: si dice del caffè veloce, fatto al momento, con la macchina. Ma “espresso” si usa anche per la parola (penso alla parole “espressione”. Oppure alla maestra che mi diceva “esprimiti meglio!”). Oggi diremo: “Mentor, dopo tanto silenzio, si è espresso”. È un passo importante. Il silenzio a volte è apprezzabile, a volte invece non è quantificabile, misurabile, valutabile: non si sa cosa la persona pensi, voglia. Mentor è uscito, si è espresso. Adesso i suoi pensieri sono qui, più chiari, esplicitati, espressi… Caro Giorgio, caro Mentor, vi rispondo da qui. Il vostro testo ce l’avete consegnato qualche giorno fa e ora viene letto al e in Gruppo reso noto a tutti, pubblicato. Quanto tempo passa tra una scrittura e la sua pubblicazione! E prima ancora di scrivere? Altro tempo, pensieri, parole, giorni, notti. E prima di tutto c’è la vita: Mentor e Giorgio prima hanno vissuto e poi hanno scritto. In mezzo ci sono state riflessioni, pentimenti, delusioni…

Senza quella vita non avrebbero scritto queste parole. Grazie alla vita, allora? Forse sì. Vi ringrazio di queste confidenze che consegnate alla scrittura e che rendete pubbliche. Voi arricchite il Gruppo, i vostri pensieri diventano nostri per mezzo delle parole scritte. Forse una risposta verrà o è già nel vento (blowin’n the wind), non perché smarrita, ma in arrivo. Cerchiamo assieme, anche con la lettura e la scrittura.

In un libro recente uscito a Natale 2013, Curarsi con i libri (a cura di due studentesse amanti dei libri, Ella Berthoud e Susan Elderkin, edizioni Sellerio), il curatore scrive: “Ogni libro è un richiamo, un’immunizzazione, e agisce su di noi allo stesso modo delle campagne di prevenzione contro il vaiolo o la poliomielite. Analogamente, ogni libro vero e veramente letto (e riletto, ndr) ci lascia nella memoria una cicatrice invisibile, un segno permanente, che dura tutta la vita” (Fabio Stassi). Qualche cosa del genere funziona anche con i nostri racconti o narrazioni, affidate magari a una lettera.

Alla fine della lettura, Lorenzo, venuto ad ascoltare dalla redazione di Ristretti, commenta: “Le persone qui scrivono perché vogliono farlo. Se l’istituzione venisse qui ora, vedrebbe persone diverse e ci vedrebbe in modo diverso. Da una parte libertà di raccontarsi, dall’altra disponibilità all’ascolto”.

 

 

Credevo di avere tanti “amici”, ma adesso mi rendo conto che era solo “convenienza”

 

di Mentor

 

Mi chiamo Mentor, sono nato in Albania il 26 settembre 1985. Come la maggior parte dei miei concittadini, sono cresciuto un po‘ troppo in fretta, poiché, come ben si sa, nel mio Paese delle persone, o comunque una buona parte, desideravano farsi una vita in un’altra nazione, cercando di dimenticare i problemi che il nostro Paese si portava dietro dopo gli anni del Comunismo e dopo la guerra.

Per quanto mi riguarda, ho iniziato a cullare l’idea di andare via dall’Albania quando ero ancora un ragazzino, vedendo partire gli altri ragazzi del mio Paese: ho così deciso un bel giorno di cercare una vita migliore in Italia. Ho provato più di una volta, però senza successo, salendo su una nave che da Durazzo salpava per raggiungere l’Italia: appena arrivato, venivo rispedito indietro dalle autorità, perché ero troppo piccolo e sprovvisto di documenti. Fin quando, insieme a due miei amici, restando nascosto in un camion, riesco ad eludere i controlli e ad arrivare.

I miei primi pensieri andavano alla mia Famiglia, che ignara di tutto mi cercava, senza sapere che io ero scappato in Italia. Così poi ho chiamato un mio parente che mi ha aiutato con i documenti e a trovarmi un lavoro onesto. Ed è così che volevo fosse la mia vita, con un lavoro decente, in modo da poter aiutare me stesso, ma soprattutto  la mia Famiglia.

Andava tutto bene, riuscivo a lavorare e qualche volta anche a divertirmi. Sembrava davvero che la mia vita stesse cambiando, fino a quando ho iniziato a frequentare locali, a far tardi la notte, bevendo alcool e cominciando a fare uso di cocaina, trovandomi a un certo punto senza più lavoro! la droga, come tutti sanno, le prime volte sembra renderti onnipotente: credevo di poter riuscire a far tutto senza bisogno di lavorare… - cominciai infatti a spacciare.

Spacciavo, ma soprattutto ne facevo uso, un uso così sproporzionato che mi portava pian piano ad allontanarmi dalla vita reale e dai miei principi, senza curarmi più di niente e di nessuno: mi sentivo grande ma era l’inizio della fine! Avevo tanti “amici”: ho usatole virgolette per far capire che quando ti trovi in certe situazioni è facile avere persone vicino, ma adesso mi rendo conto che quella non era amicizia, era solo “convenienza”. Infatti, quando mi hanno arrestato, mi sono trovato solo e tutte le persone che prima mi circondavano perché avevo coca e soldi, non mi hanno scritto nemmeno una lettera per sapere come stavo.

Adesso sto scontando la mia pena con la consapevolezza di quanto ho sbagliato. Spero con tutto me stesso di riprendere la mia vita per mano e rimetterla sulla retta via per poter così un giorno tornare ad abbracciare la mia famiglia che non vedo da dieci anni.

Un pensiero voglio rivolgerlo a questo gruppo del quale faccio parte e grazie al quale riesco adesso a relazionarmi meglio con le persone.

Un saluto a tutti!

 

 

 

 

Una lettera al gruppo

Abbiamo ancora credibilità?

 

a cura di Angelo Ferrarini

 

Al Gruppo di Scrittura esce la vita, la vita prima del carcere e soprattutto il famoso deragliamento di cui si parla nell’altra ala di Ristretti, il Gruppo di Discussione. Qualcuno comincia a rompere il ghiaccio: si parla esplicitamente delle scelte che han portato in carcere.

Ci sono due ordini di discorsi o di ammissioni: 1) mi sono fatto trascinare dall’ambiente, 2) ho voluto delinquere. Ma entrambi accettano all’inizio di tutto una scelta precisa di volontà: voglio fare qualche cosa di diverso. Perché questo è ancora un mistero. Non si arriva ancora alla risposta.

Scrivere significa anche cercarla, assieme. Così i racconti proposti diventano lettere al Gruppo di Scrittura. Riflessioni diverse sulla propria vita passata, narrazioni più che racconti in senso proprio e modi diversi di raccontare e di riflettere. Esperienze diversissime, eppure confluenti. Hanno meditato, scritto, portato i testi. E ora

 

 

 

Essere creduti dalle istituzioni, dopo aver sbagliato più volte, è ancor possibile?

 

di Giorgio

 

Sarebbe stato bello nascere già grandi e nell’ultima parte della vita tornare giovani: non avrei sofferto a causa delle scelte di vita sbagliate.

Una di queste sicuramente è l’aver interrotto gli studi troppo giovane: solo ora, confrontandomi con il mio passato, capisco quale importanza avrebbe avuto nella mia vita.

E la grande sofferenza della mia fantastica compagna, che mi è stata vicina per 30 anni e che tutt’ora crede ancora al mio cambiamento. E i miei due figli, privati per anni della figura del padre.

Sarebbe stato meraviglioso nascere già grande: tutte queste sofferenza molto probabilmente non sarei qui a raccontarle.

Fin da giovane il mio sogno era la famiglia, avere dei figli, una compagna, che avrei amato tutta la vita. I miei genitori mi avevano insegnato a essere educato e umile verso gli altri. Ricordo volentieri una frase che mio padre mi diceva spesso: “una persona diventa inutile se non conosce l’umiltà”.

Credo di aver avuto un buon padre. Parlava pochissimo, mai a vanvera, pesava tutto. Mia madre era una persona più semplice, ma aveva un cuore grande. Si sono amati per tutta la vita. Mi ritengo una persona fortunata di aver avuto due genitori fantastici.

Vivevo in una famiglia benestante, non avevo certo bisogno di fare rapine per vivere. Mi sono chiesto per tanti anni perché non ho potuto essere una persona come tante altre. Non sono mai riuscito ad arrivare a nessuna risposta, se non quella di nascere già grande per non commettere gli errori che si fanno da giovani.

E oggi così, se qualcuno mi chiedesse perché facevo rapine, gli risponderei che non lo so.

Non ho mai dato la colpa di tutto questo alle solite chiacchiere che si sentono anche in carcere: il posto dove sei nato, l’amico che ti ha chiesto, le disgrazie in famiglia e tante altre balle! Non è così: gli esseri umani (me compreso) sono perfettamente in grado di capire intellettualmente dove si trovano il bene e il male, sia per loro che per gli altri, ma ad un certo punto cominciano e poi continuano a commettere gli stessi errori. È difficile da accettare, ma è così. Nessuno mi ha puntato un’arma in testa per farmi compiere dei reati: ho sempre deciso con piena coscienza. Sicuramente, data allora la mia giovane età, quando ho commesso il mio primo reato non immaginavo il rischio cui andavo incontro, e tutte le conseguenze negative future che mi attendevano. Dalla vita avevo tutto quello che mi serviva.

Una cosa rimpiango molto e la ripeto: non aver continuato gli studi. Forse, dico forse, non avrei intrapreso la strada da rapinatore.

Certo, fino all’età di 18 anni fare il rapinatore non era quello che desideravo. Avevo vissuto una bellissima infanzia. La mia meta sin da piccolo era quella di entrare alla grande nel mondo dell’edilizia, mio fratello aveva una ditta edile, mio padre svolgeva anche lui questa attività: non vedevo l’ora di compiere 14 anni per poter cominciare a lavorare. Mi son voluti 30 anni per rendermi conto che la vita è un dono meraviglioso.

Il mio sogno era cominciato nel 1976, anno del libretto di lavoro: lavoravo sodo ma mi piaceva, lavorare non mi pesava, anzi, era per me una grossa soddisfazione. Ma ecco, dopo cinque anni, la mia vita cambiò totalmente: nel gennaio 1981 varco le porte del carcere per la prima volta, avevo 18 anni. Per i miei genitori è stato un durissimo colpo, pensavo a mio padre che mi aveva sempre insegnato l’onestà.

In quegli anni il sistema carcerario non era certo quello di adesso, sia per il modo di scontare la pena, sia per il tipo di persone allora detenute. La Legge Gozzini era allora un sogno ancora nel cassetto, ti sbattevano da un carcere all’altro e le proteste dei detenuti erano l’ordine del giorno, non avevamo nulla da perdere a farlo.

Il mio primo impatto con il carcere direi che è stato abbastanza crudele: nel giro di 6 mesi mi hanno fatto girare 5 carceri, con il piacere finale di essere trasferito definitivamente nel carcere dell’Asinara, sicuramente, allora, un posto non adatto per una persona che per la prima volta in vita provava il carcere. Erano gli anni degli omicidi in carcere, delle proteste molto dure, in certe carceri c’era pure un codice da rispettare altrimenti non avevi scampo di sopravvivenza.

Non potrò mai dimenticare il primo giorno che arrivai a L’Asinara. Prima di farmi entrare in diramazione (sezione) il comandante mi fece l’interrogatorio: mi chiese a chi appartenessi. Non riuscivo a capire a cosa si stava riferendo. Mi chiese se appartenevo a qualche famiglia. Capii allora a cosa alludeva e sorridendo gli risposi: Sì, appartengo alla famiglia dei polentoni. Si mise a ridere. Non erano anni simpatici: nelle carceri esistevano vere e proprie guerre. All’Asinara ci feci 2 anni e mezzo. Nell’agosto 1983 il Magistrato di Sorveglianza mi concede la liberazione condizionale. Giurai a me stesso che non avrei mai più varcato la porta di un carcere, dimenticandomi purtroppo che quando si è giovani, e così stupidi, si continua a commettere gli stessi errori.

Una volta fuori, iniziai nuovamente a lavorare. Fortunatamente la mia grande soddisfazione era il lavoro. Mi trovo una compagna, cerco di dimenticare gli anni di carcere. Nel 1988 ho già due figli, non mi manca nulla, sono innamoratissimo della mia famiglia, il lavoro va a gonfie vele, insomma tutto funziona a meraviglia.

Ancora oggi mi chiedo come una persona possa tornare a delinquere dopo aver avuto tutto quello che desiderava. Lo dico perché questo è accaduto: nel 1991 torno a commettere una rapina, in territorio austriaco. Vengo arrestato lo stesso giorno. Ho pensato subito alla mia compagna e ai miei due figli: ero riuscito a distruggere un sogno meraviglioso.

La condanna fu pesantissima: 10 anni. Per mia fortuna, la mia compagna mi è sempre vicina, portandomi a colloquio i figli due volte al mese. Il carcere austriaco in quegli anni era durissimo. Nel 1994, dopo quasi 4 anni, riesco ad ottenere il trasferimento in Italia per scontare il resto della pena e vengo trasferito al carcere di Padova. Nel 1996 comincio ad uscire in permesso premio. Ero riuscito a salvare la mia famiglia – e la mia famiglia non mi aveva abbandonato: questo mi dava fiducia ancora una volta per il mio futuro. Nel carcere di Padova mi trovo bene. Prima faccio un periodo come volontario bibliotecario; alcuni mesi dopo come volontario per assistere pazienti colpiti da distrofia muscolare; nel 1997 usufruisco della semilibertà, lavoro sempre nel campo dell’edilizia; nel 1998 mi viene concesso l’affidamento in prova ai Servizi Sociali; nel 1999 termino di scontare la pena e torno libero.

Mi dedico anima e corpo al mondo del lavoro e alla mia famiglia. Nel 2002 vengo assunto da una grossa ditta di costruzioni con mansione di responsabile di cantiere, la paga è alta, mi dà modo di vivere bene, lavoro in varie zone del nord Italia, il lavoro va bene ed il mio rapporto con la mia famiglia è tornato alle stelle, ma… ma la tentazione di commettere altre rapine era nell’aria.

Il 2005 è stato l’anno decisivo per rendermi conto che non avevo più spazio né motivo per commettere altri reati: durante una rapina muore un mio amico. Giurai a me stesso che non avrei mai più commesso un reato. Ero arrivato al famoso bivio!

La giustizia nel febbraio 2006 viene a bussare alle porte di casa per un reato commesso nel 1991. Mi arrestano. Farò solo un mese, in quanto il tribunale del riesame mi scarcera perché si tratta di un reato di 15 anni addietro e non c’è più la pericolosità di reiterare il reato.

Nel frattempo svolgo sempre il mio lavoro, fino al 2010 quando la sentenza per questo reato diventa

irrevocabile. Nell’aprile 2010 quindi mi costituisco in carcere: non volevo avere nessun debito con la giustizia. Avevo già preso la mia saggia decisione, dopo la morte del mio amico. Nell’ottobre 2010 mi verrà concessa la semilibertà, continuo il mio lavoro. A dicembre, sempre 2010, finisco di scontare la pena.

Avevo ancora un debito con la giustizia in merito alla rapina in cui aveva perso la vita il mio amico.

Così, nel 2011, vengo condannato in primo grado, nel 2012 in appello. Nel frattempo continuo a lavorare, finché nel maggio 2013 la Cassazione conferma la condanna: ero già preparato e convinto di poter saldare l’ultimo mio debito.

Mi costituisco di nuovo presso il Carcere di Padova per concludere definitivamente con un passato che non mi appartiene più. Peccato che per capirlo ci son voluti 30 anni.

In questi mesi di carcere mi sono chiesto più volte quale sia l’interesse a dimostrare a qualcuno del mondo esterno che una volta fuori non commetterò più reati: me lo chiedo perché so per certo che non sarò mai creduto. Purtroppo, non conosco neanche il modo per poterlo fare.

Mi faccio anche un’altra domanda: con quale diritto io chiedo aiuto alle Istituzioni, dopo aver tradito la loro fiducia più volte. Siamo così sicuri che l’art. 27 della Costituzione sia un diritto acquisito, per sempre, da persone che per tanti anni hanno commesso reati e mentito alle Istituzioni?

Il pianeta carcere non appartiene al mondo esterno. È un mondo separato. Il mio passato ha fatto sì che la società esterna si dimenticasse dei miei diritti. Del resto, spesso e volentieri io stesso li ho calpestati, prima con i reati e poi con un rapporto ottuso, demagogico ed egoista, contrario al dialogo. Finché in passato continuavo a mentire alle istituzioni, mi era impossibile dimostrare la buona volontà di volermi reinserire.

Detto ciò, continuo a farmi quella domanda, senza però riuscire a trovare risposta: persone che come me per tanti anni hanno commesso reati, hanno mentito alle Istituzioni (e queste mi abbiano dato più di una possibilità) come possono essere credute?

Persone che, arrivate al famoso bivio, decidono definitivamente di chiudere con un passato negativo estremo, stanche di mentire, in quale modo possono dare garanzie di credibilità al mondo esterno?

Chi pensa di conoscere una qualche risposta si faccia avanti!

 

 

 

 

L’ultima volta / il fato

 

di Sofiane Madsiss

 

Come diceva l’uomo sabbia in Spiderman 3: io non sono cattivo, ma il mio fato lo è. Sembra una scusa da scaricare sul destino, ma non è così, perché tante volte, uno si trova coinvolto in una situazione che non ha mai programmato o pensato. Se ci pensiamo bene la vita è tutta buio, anche se c’è la luce del giorno, e cerchiamo di programmare il nostro futuro, e il futuro non è mai certo, perché basta un ritardo di 5 minuti, e tutto il percorso della vita cambierà, come ad esempio quello che è successo a me.

 

Era il lontano 1995, vivevo a Firenze, con tanti miei paesani, spacciavamo droga. Era un giorno d’estate, faceva caldo, io abitavo in una roulotte dentro un campo di zingari italiani. Verso le 6 di sera sono uscito con la bici a fare un giro. Dopo 30 minuti sono tornato al campo, all’entrata mi ha fermato la squadra antidroga, mettendomi le manette e portandomi in caserma, senza un motivo. Dopo quasi tre ore mi sono trovato in carcere senza sapere il perché. Dopo due giorni di angoscia (era il mio primo arresto) incontro il GIP che mi interroga. Accusa: vendita di un pezzo di droga a un tossicodipendente.

Non era vero, ma alla fine sono stato condannato a sei mesi di reclusione, perché come sempre i poliziotti hanno ragione. Alla fine chi sono davanti a loro? Un semplice clandestino.

Fatti i sei mesi, sono stato scarcerato. All’inizio ho cominciato a cercare casa, ma senza esito: non era facile per un clandestino trovarla. Ho continuato a dormire in una casa abbandonata, con dei paesani.

Un giorno, era la primavera 1996, ero con amici in un parco a festeggiare la scarcerazione di un nostro paesano. Abbiamo cominciato a bere e a scherzare. A un certo momento abbiamo cominciato a parlare di un nostro rivale, e abbiamo deciso di dargli una lezione punitiva, così non picchia più nessuno del nostro clan. Ma qui entra una nostra brutta abitudine, di armarci di coltelli, non per uccidere, ma solo per sfregiarlo o fargli paura.

È andata diversamente, perché lui s’è difeso, era un ragazzo alto e robusto. Lo abbiamo fatto cadere ed abbiamo cominciato a infierire su di lui con i coltelli. Alla fine lo abbiamo lasciato a terra morente, in un lago di sangue e siamo scappati.

Due giorni dopo sento al telegiornale la notizia della sua morte. A quel punto ho deciso di andar via dall’Italia, e mi sono rifugiato in Francia.

Dopo due anni sono tornato con documenti falsi. Nel frattempo hanno arrestato i miei amici, mentre io ho continuato a vivere a Padova senza problemi, fino al mio arresto per spaccio. In quel momento ho pensato: sono ricercato per omicidio. Me lo comunicano dopo un anno e due mesi di galera e 10 mesi di arresto domiciliare. Ma non mi hanno detto niente al momento e quindi ho pensato che non ero ricercato per omicidio. Non sapevo di essere stato invece condannato a 18 anni di galera, perché non pensavo che c’è la condanna in contumacia.

Comunque ho continuato la mia vita convivendo con una donna senza dirle niente del mio passato. Passano 10 anni, fino al 2010. Un giorno d’estate, mi sveglio alla solita ora, faccio colazione, accendo il mio PC per vedere se ci sono messaggi, ma il PC ha cominciato a dare i numeri, perché era stato infettato da tanti virus. Allora mi son messo a fare pulizia per eliminarli. Verso le 17.30 sono uscito di casa con il motorino, passando per la casa di mio cugino, dove sono rimasto fino alle 18, perché dovevo andare a prendere la macchina dalla mia donna, che lavora nel centro storico. Per strada mi sono ricordato che dovevo pagare la luce. Torno a casa a prendere la bolletta.

E qui entra il fato, perché ho dovuto perdere del tempo, tornando indietro, quasi 10 minuti, sono andato alla posta, fatto tutto, riprendo il motorino e vado verso il centro. A metà strada vedo un amico che spaccia fumo, mi fermo e gliene chiedo un po’. Me lo dà, arrivo al primo semaforo, mi ferma la polizia, e mi chiede dov’è il fumo, dove l’ho preso, e poi i documenti. Glieli do, ma naturalmente sono falsi.

Hanno cominciato a sospettare e mi hanno portato in Questura, e lì dopo quasi quattro ore mi hanno notificato un definitivo di 18 anni per l’omicidio commesso a Firenze nel 1996...

Come ho detto all’inizio non voglio scaricare tutto sul fato, perché sicuramente la colpa è mia: ho accettato di andare con loro a punire il ragazzo, che poi è morto, senza pensare alle conseguenze. So di avere sbagliato e me ne rendo conto. Sto pagando per questo. Quello che volevo dire con questa storia è che tante volte il fato fa i suoi brutti scherzi. La vita è fatta così, con delle sorprese belle e brutte e dobbiamo accettarla.

 

 

 

Dietro molte scelte difficili c’è una situazione di miseria, degrado, mortificazione, violenza – ma anche una scelta di volontà

 

Che dirà il povero ragazzo uscito nel parco e visitato dai suoi ex amici e colleghi di spaccio, arrivati armati di cattive intenzioni e soprattutto di coltelli? “La vita mi ha giocato proprio un brutto scherzo”, - avrà pensato vedendo il prato girarsi. Chiamalo fato, questo scherzo con nomi precisi e intenzioni via via più definite, decisive, fatali.

Il racconto di Sofiane (racconto con una cornice di commenti) adotta un meccanismo che si chiama straniamento, e ha come scopo quello di deformare l’abituale visione delle cose.

Qui non si tratta del livello linguistico – ricorso a parole fuori dalla norma, o a un genere letterario strano, ma di come si percepisce la realtà, spostando l’accento su un fenomeno neutro – il destino – e dedicando minimo spazio al fatto più tragico che di quel destino è una conseguenza, la morte di un personaggio, di second’ordine nel racconto, un ragazzo entrato nella storia e subito estromesso, ma che per gli occhi umani del lettore rimane senza riscatto né giustizia.

Con lo straniamento anche il lettore è portato a stare dalla parte del male, compatendo il povero protagonista braccato, e non seguendo i pensieri che gli si sono aperti leggendo del ragazzo ucciso. E alla fine, portato dal racconto, gli sembra normale lasciarlo là. In questo modo, però, riflettendo, il lettore si fa delle domande e il racconto, a una prima parvenza diseducativo, diventa morale, alla rovescia. E tu ti ribelli al destino narrato.

Destino uno se lo fa. La parola fato significa “cosa detta”, come quando uno nasce e la mamma fuori dall’ospedale trova un amico che le dice: - Che bel bambino, ha la faccia da genio! Ecco il destino, dicevano gli antichi, si configura come “fato”, cosa detta, quindi parola definitoria, e andavano da un prete o da un indovino o da un vecchio per sentirsi dire una parola che decidesse la vita. A volte il nome personale sembra diventare un “fato”.

Ma il destino uno se lo fa, altrimenti non ci sarebbero le leggi, quando per esempio si decide di scegliere una via di guadagno invece di un’altra. Destino è anche quello di scegliere la droga, di vivere in Italia da clandestino. Dietro molte scelte difficili c’è una situazione di miseria, degrado, mortificazione, violenza – ma anche una scelta di volontà. Quando ti è capitato di fare questa scelta? Quando hai deciso? La prima volta della tua illegalità… o, questa di Sofiane, l’ultima volta, quella che ha deciso la via del carcere.

Tutto destino?

 

Angelo Ferrarini, dal Gruppo di

scrittura del 22.5.14