Incontri con le scuole prevenzione al bullismo

 

Alla ricerca delle domande tradite

 

di Juri Angelo Aparo

 

Un paio d’anni fa eravamo a San Vittore per un convegno/concerto: Le domande abortite del bullo. Accanto ai detenuti, partecipavano all’incontro adolescenti e insegnanti provenienti da scuole dove il bullismo dilaga. Obiettivo della giornata era promuovere, fra detenuti con un passato fallimentare, insegnanti in difficoltà e allievi in cerca di riscatto, delle alleanze e degli strumenti utili a recuperare, appunto, le domande franate sotto quel senso d’impotenza che è alla base di ogni atto di bullismo.

Fra una canzone e l’altra di Fabrizio de André, tutte le persone intervenute avevano cercato di decifrare le domande dimenticate degli adolescenti di ieri (i detenuti) per ascoltare meglio quelle degli adolescenti di oggi. Ecco una sintesi delle risposte più frequenti alla domanda che faceva da filo conduttore alla giornata: Cosa cerca chi si comporta da bullo? Egli:

  1. copre la sensazione e la pau­ra di essere fragile e impotente, simulando di essere già forte e sicuro;

  2. ricorre all’abuso sul debole per negare la propria debolezza e proiettarla sul malcapitato di turno;

  3. si nasconde dietro la masche­ra di un’adultità posticcia per la paura di non poter crescere e di non poter mai diventare l’adulto delle proprie prime fantasie;

  4. sostituisce la guida che gli manca o che gli chiederebbe uno sforzo per migliorarsi con una banda che lo sostiene nell’illusio­ne di essere già grande e che gli chiede solo di simulare forza;

  5. cerca di surrogare il conteni­tore che gli manca per sentirsi protetto attraverso la forza della banda e la conferma che ciascun membro della banda riceve dagli altri;

  6. ricorre all’eccitazione che deri­va dall’uso di droghe e dall’eser­cizio del potere come strumento privilegiato per provare piacere e gratificazione perché teme di non avere risorse e capacità per raggiungere altre gratificazioni;

  7. copre il lutto conseguente alla sfiducia negli adulti che avrebbe­ro dovuto fungere per lui da gui­da con il rancore contro il mondo;

  8. proietta la propria condizione di orfano o, attraverso un abuso di potere analogo a quello che egli sente di aver subito, cerca di ridurre le sue vittime alla sua stessa condizione.

 

 

17 ANNI

Tutti a scuola parlavano di me con paura e così feci le mie prime amicizie

 

di Ivano Moccia, Gruppo della Trasgressione

 

Sono cresciuto in un quartiere molto piccolo dove regnavano l’omertà e la delinquenza. Quando avevo 13 anni mio padre decise con mia madre di trasferirsi in un quartiere molto grande e dispersivo. Lì non conoscevo nessuno. Frequentavo una nuova scuola e nuovi compagni e mi accorsi che, arrivando da un quartiere particolare, con gli studi ero molto indietro rispetto ai miei coetanei.

di Ivano Moccia, Gruppo della Trasgressione

L’unico modo che avevo imparato per comunicare era la forza fisica e così iniziavano piccoli scontri con i miei nuovi compagni. Tutti a scuola parlavano di me con paura e così feci le mie prime amicizie.

Ricordo che indossavamo dei giubbotti di pelle e, senza nemmeno dircelo, avevamo creato un nostro gruppetto. Per sentirci alla moda rompevamo gli stemmi della Mercedes e li indossavamo sulla spalla della giacca. Iniziammo a frequentare il centro commerciale della zona, cercavamo con gli sguardi lo scontro con altri ragazzi più grandi di noi per sentirci più grandi e apprezzati.

A un certo punto mi allontanai dai miei coetanei per frequentare ragazzi più grandi di me anche di 10 anni, iniziai a frequentare un gruppo chiamato “Skinhead”, con i capelli rasati, anfibi e come giubbotto portavamo i bomber. La caratteristica era quella di picchiare altre persone, specialmente quelle con i capelli colorati i famosi leoncavallini “pancabbestia”. Ricordo che con me portavo sempre un tirapugni di ferro, mi sentivo più sicuro data la mia età, ero molto giovane e già bevevo birra, ma solo per essere accettato dalla compagnia che frequentavo. Se mi tiravo indietro da una rissa, mi catalogavano come una persona che ha paura e non degna di stare sul gruppo.

Lasciai questo gruppo, iniziai a frequentare persone sempre più grandi di me, ma con altre caratteristiche, giubbotti di pelle e vestiti firmati per così far colpo sulle ragazze. Avevo 16/17 anni, iniziai ad avere relazioni con ragazze più grandi di me e per sentirmi più grande iniziai a rubare macchine per portare con me soprattutto la ragazza; iniziai a commettere reati per andare in discoteca e per avere soldi in tasca quando uscivo con le donne.

Solo oggi mi rendo conto che fare il bullo era la pedana di lancio nella vita di illegalità, commettendo gradualmente reati sempre più pesanti. Oggi mi trovo a fare i conti con il mio passato e tirando le somme: sono cresciuto all’interno di istituti penitenziari sin da quando avevo 17 anni, bruciando la mia vita da adolescente che nessuno mi può più ridare.

 

 

Ai bulli di Bollate

Dai loro racconti di vita emerge un grave senso di rancore verso la scuola che non li ha aiutati, ascoltati, che non ha dato loro l’occasione giusta per crescere

 

di Rita Oliverio, insegnante

 

Faccio questo “mestiere” già da tempo (sono insegnante in un Istituto Tecnico) e ancora, con una ritualità di cui non so fare a meno, preparo con cura le lezioni, sperando ogni volta di far emergere un aspetto nuovo del tema o del personaggio da presentare. Mi piace cercare documenti e citazioni da offrire nella speranza di trasmettere ai miei ragazzi qualcosa in più; mi piace l’idea di “stuzzicare” il loro interesse…

Inizia la lezione e questa volta si parla di Leopardi, il vecchio, caro, tormentato Leopardi. Leggo con enfasi alcuni versi, parlo di infelicità, di natura, di senso di vuoto, morte… tiro fuori dalla mia borsa di Rita Oliverio, insegnante tutto quello che ho meticolosamente raccolto e per un po’ m’illudo che mi stiano seguendo… poi il primo sbadiglio… le occhiate furtive al cellulare nascosto nella manica e qualcuno che alza la mano.

Chissà - mi dico - forse ora c’è la domanda giusta… “Prof, pensa che, se ai tempi di Leopardi ci fosse stato il Prozac, avremmo potuto risparmiarci tutte le sue paranoie…”

Rido alla battuta, in fondo non si può negare che sia divertente, ma mi sento sprofondare…

Con la disinvoltura maturata nel tempo, ripongo il caro Leopardi nel cassetto, mi do un po’ di contegno e, sforzandomi di camuffare la mia frustrazione, passo ad altro. Sono un’insegnante di letteratura italiana e storia (me lo ripeto per non dimenticarlo!)..

Poi incontro i Bulli di Bollate e dai loro racconti di vita emerge un grave senso di rancore verso la scuola che non li ha aiutati, ascoltati, che non ha dato loro l’occasione giusta per crescere… mi sono sentita peggio che riconoscere Leopardi depresso..

Cerco di ripercorrere a ritroso il mio lungo cammino nella scuola nell’intento assurdo di assicurarmi di non avere sbattuto in faccia la porta a qualcuno… ma penso che sia solo un patetico modo per sentirmi con la coscienza a posto.

Cosa posso dire ai “Bulli di Bollate”? Fare l’insegnante non è certo facile, oggi più che mai. Tutto viaggia ad una velocità sorprendente, mentre la scuola perde sempre più terreno e si scontra con una realtà in cui la crisi dei valori ormai è un dato di fatto: a complicare il tutto spesso l’assenza della famiglia che ci “consegna” i ragazzi come “pacchi postali”.

Ogni giorno con gli scarsi mezzi a disposizione (e con tanto volontariato) cerchiamo di rispondere alle mille domande, ai mille bisogni; mentre qualcuno dall’alto ci dice che siamo dei “fannulloni” che alimentiamo l’ignoranza, che non siamo al passo coi tempi.

Tra una lezione e l’altra ci sforziamo di far capire agli alunni l’importanza della cultura come veicolo di libertà, del dialogo, del sapersi mettere in gioco, dello scoprire e valorizzare le proprie qualità, ma può capitare che qualcuno non voglia ascoltare e magari è proprio quello che ne ha più bisogno perché è più solo degli altri. E’ così che, a volte, cominciano le brutte storie! Ma io continuo a credere nella scuola e sono stati proprio i Bulli di Bollate, con le loro accorate parole, a ricordarmi quanto sia importante il mio lavoro.

 

 

Ogni regola era per me  UN INVITO A VIOLARLA

Non so come e quando mi convinsi che la mia ribellione e la mia rabbia fossero parte naturale di me

 

di Antonio Catena, Gruppo della Trasgressione

 

Ero ancora un bambino quando assorbivo il malessere del mondo in cui vivevo. A poco a poco divenne mio quando fui indotto a pensare d’esserne io la causa; il dolore si trasformò in frustrazione e poi in rabbia. Manifestavo quello che mi affliggeva con comportamenti ribelli e talvolta aggressivi, ma questi venivano interpretati come quelli di un bambino solo un po’ vivace. Di conseguenza, al problema che mi portavo dentro non venne mai data l’attenzione che meritava; le risposte che ebbi ai miei atti di ribellione furono soltanto punizioni fisiche e psicologiche, che non fecero altro che nutrire la mia rabbia e aumentare i miei comportamenti instabili.

Non so come e quando mi convinsi che la mia ribellione e la mia rabbia fossero parte naturale di me. Ricordo solo che iniziai a racchiudere delusioni, frustrazioni e sofferenze in una nicchia per evitare che questo genere di emozioni potesse uscirne. Nella stanza buia vi era solo una finestra, per permettere ad altri dolori di entrare e di accumularsi su quelli precedenti.

Man mano che crescevo, il mio modo d’essere mutava, la mia aggressività si trasformò in violenza fisica e psicologica nei confronti di altri, il mio carattere ribelle divenne antisociale, ogni regola era per me un invito a violarla, trascorrevo le mie giornate con altri che avevano questi atteggiamenti, oggi definiti da bullo. Intuivo che i miei comportamenti mi avrebbero portato ad autodistruggermi, a togliermi il futuro, ma a me questo non importava; vivevo ogni giorno come se fosse l’unico, senza pensare alle conseguenze delle mie azioni e mi appagava l’essere riconosciuto e valorizzato dai miei compagni per quella facciata che mostravo.

Durante la mia crescita alla nicchia si aggiunse una sorta di crosta che mi rendeva insofferente verso ogni tipo di emozione positiva e amorevole. Per quello che ritenevo di avere scelto di essere, non c’era spazio per pensieri che potessero scuotere la mia coscienza e indebolirmi.

Inevitabilmente sono arrivati i giorni più bui della mia vita ed è lì, nella più piena confusione e perdizione, che ho incontrato delle persone che si riunivano e si confrontavano su vari temi. Alcuni di loro erano come me, altri diversi, ma nonostante le differenze, il confronto si rivelava costruttivo.

Mettendomi in gioco con queste persone, ho iniziato una riflessione che mi ha riportato in quella nicchia buia, colma del caos e delle sofferenze da me provate e causate. Mi sono ritrovato in mezzo alla stanza con una sedia per sedermi e un archivio per farvi ordine. Da lì ho iniziato a lavorarci con molta fatica e con la consapevolezza che solo mettendo in ordine la mia nicchia avrei trovato me stesso.

In alcuni momenti ho avuto la sensazione di cominciare a capirmi. In quello sfracello di caos e dolore, ho sentito a tratti un odore così forte che non potevo negarlo, era il rosmarino. Entrava dalla mia finestra portando il richiamo di una vita avuta e mai vissuta. Non mi era mai successo in libertà di fare attenzione alle sensazioni ed emozioni datemi dalla pioggia di fine settembre; mai ho apprezzato questo, mai come quella sera di fine settembre dalla finestra della mia cella, da dove non potevo toccarla con mano, ma ne sentii la vita.

 

 

Il mio progetto è TORNARE UN UOMO LIBERO

Noi siamo specialisti nel trovare scuse con riferimenti alla nostra infanzia, alla società, alle istituzioni, alla compagnia

 

di Giuseppe Liuni, Gruppo della Trasgressione

 

  Il mio nome è Giuseppe, il mio progetto è tornare un uomo libero.

Nei primi tempi in cui frequentavo il Gruppo della Trasgressione, mi colpì una poesia che venne letta durante un incontro con degli studenti. Già quella volta l’avevo sentita molto veritiera, si intitolava La scusa. Sì, amici miei, noi siamo specialisti nel trovare scuse con riferimenti alla nostra infanzia, alla società, alle istituzioni, alla compagnia… l’importante è che la colpa non ricada mai su di noi. Leggo degli scritti in cui nessuno si assume le vere responsabilità, o almeno, non integralmente.

Ultimamente vengono arrestate molte persone per spaccio di stupefacenti. Quasi tutti ricorrono alla stessa scusa: “lo facevo per drogarmi”. Altri affermano che rapinavano per lo stesso motivo. Chi vende droga si nasconde dietro la scusa che sarebbero i compratori a cercarla, senza nessuna costrizione.

Io ho 52 anni e quando iniziai a commettere reati lo feci per gioco; se qualcuno mi avesse mai detto che un giorno avrei venduto droga gli avrei riso in faccia. Col passare del tempo i reati aumentavano di gravità. Dai piccoli furti passai alle rapine alle banche e alle oreficerie

A quell’epoca si usavano armi vere, i conflitti a fuoco erano più numerosi di oggi e spesso qualcuno moriva. Ci sentivamo invincibili e nulla ci spaventava. Almeno così pensavamo. Quando qualcuno non ce la faceva, non era mai colpa nostra ma una fatalità. Non ci preoccupava se qualcuno soffriva o si creavano disagi agli altri.

Rapinare banche poi non diede più i frutti sperati. Ma dov’è il problema? Vendiamo cocaina! L’eroina no, perché nella nostra ignoranza solo l’eroina causava morte, inoltre vedevamo come si riducevano coloro che la usavano. Ma anche queste erano scuse. La vera ragione era che, avendo dei figli, non volevamo che loro pensassero che noi eravamo responsabili della morte di loro coetanei. Infatti a noi degli altri e delle loro sofferenze non interessava nulla.

In realtà sappiamo bene cosa provocano tutte le droghe e la cocaina non è certo migliore delle altre. Tante persone oggi si nascondono dietro ai reati che reputano meno gravi dello spaccio, ma chi ha il mio passato, nella maggioranza dei casi, vende droga. Nessuno pensa alle conseguenze che ne derivano, solo ad aumentare il proprio profitto e il proprio potere, perché sono i soldi a portare il potere. Come ulteriore scusa, ad avvalorare che la cocaina non faccia male, la maggioranza di chi vende ne è anche consumatore. Quindi… “se la uso io, non porta sicuramente alla morte”.

Se solo noi ci fermassimo a riflettere sui danni che qualsiasi tipo di sostanza causa, allora sì che non la useremmo. Ma la venderemmo ancora? Sì, il potere acquisito è da mantenere e non permette di fermarsi.

Solo se ci si rimette in gioco e se si pensa al male causato a sé e agli altri, abbandonando tutte le scuse e ritrovando i valori perduti, ci si può riguardare allo specchio e vedersi cambiati. Solo allora io potrò dire “ce l’ho fatta, adesso sono un uomo come tanti altri e non più quel “Dio” fasullo che credevo di essere”.

Solo così posso uscire da quel gioco crudele, ritornare alla realtà ed essere veramente un uomo libero.

 

 

Fabrizio De André e il Gruppo della Trasgressione

 

Cosa c’entra De André col Gruppo della Trasgressione?

Per Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia di splendore”

 

di Juri Angelo Aparo

 

Perché De André è così importante per il Gruppo della Trasgressione?

Ho ascoltato i primi dischi di De André nella seconda metà degli anni ’60. All’epoca, ancora adolescente, trovavo nelle sue canzoni un eccellente vaccino contro la banalità e gli stereotipi. L’album “Tutti morimmo a stento” fu per me l’invito di un fratello maggiore a riflettere sulla nefandezza della guerra, ma anche sulla fragilità dell’uomo che si lascia affascinare dal potere o che si dimette dalla vita. Un paio d’anni dopo venne “La buona novella” e il suo anelito a mantenere vivo il legame fra sacro e profano. Un giorno, in terza liceo, chiesi all’insegnante di religione di ascoltare il disco nella sua ora di lezione. Era il 1970. Ne parlammo insieme tutta la classe; il mio amore per Fabrizio De André si radicò definitivamente e le sue canzoni sono diventate parte significativa del prisma attraverso il quale mi guardo attorno.

Mentre lui, in viaggio sulla sua “cattiva strada”, rimescolava senza sosta le categorie del bene e del male, io giungevo alla laurea in psicologia, approdavo nel ’79 al lavoro in carcere e cominciavo a chiedermi quali stati d’animo vive chi spaccia, rapina, commette abusi di potere in genere.

De André, come egli stesso mi disse l’unica volta che ci siamo incontrati di persona, il carcere lo fece per qualche tempo da “privatista” nei pochi metri quadrati in cui furono costretti a vivere lui e Dori Ghezzi durante il sequestro. Ma lui continuò a interrogarsi per cercare l’uomo anche dopo quella esperienza; anzi, lì, all’Hotel Supramonte, poté toccare con mano quello che, nel “Testamento di Tito” e poi con l’”Antologia di Spoon River” e con “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, aveva già più volte riconosciuto e cioè che quando ci si sente senza diritti, spesso si ricorre all’abuso verso gli altri o verso se stessi o, come accadrà in seguito a Pasquale Cafiero, si diventa conniventi col potere.

Dai tempi del sequestro, passano quasi due decenni, fino ad arrivare al ’97. La lista dei suoi personaggi imperfetti, fragili, sospesi, vitali si è allungata. Ai già noti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, il suonatore Jones, si aggiungono Andrea, il servo pastore, Princesa. De André ne canta le aspirazioni, le incertezze, continua a raccogliere la ricchezza umana delle loro difficoltà, ma valorizza anche la loro dichiarata incapacità di inamidarsi dietro le maschere del successo, del potere, delle certezze.

Accetta l’errore e l’inganno che l’uomo produce verso se stesso, ma combatte il potere che dell’inPer Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia di splendore” Cosa c’entra De André col Gruppo della Trasgressione?

ganno fa strumento per perpetuarsi. Nelle persone che mancano il bersaglio pesca le nostre aspirazioni più durature, le raccoglie e le accudisce. Non crede a nulla di assoluto, procede, anzi, fra illusioni sfiorite, ma ogni volta ritrova nella speranza zoppa un’amica più sincera del trionfo della vanità (“La ballata dell’amore cieco”). Le sue rare canzoni d’amore parlano di frammenti di eternità (“Le passanti, amore che vieni amore che vai”), un ossimoro che si accompagna alle atmosfere di tante canzoni dove vivono insieme sacro e profano (Il sogno di Maria).

Ma il suo approccio alla vita è tutt’altro che dimissionario o minimalista. Direi, piuttosto, che Fabrizio De André assegna a se stesso il compito impegnativo di vivere nella giocosa e vitale coscienza della sua fragilità. Nel frattempo io lavoro nel carcere di San Vittore a Milano per 18 anni, ma mi rendo conto che non riesco nemmeno a sfiorare i detenuti dei quali dovrei pronosticare il futuro nelle mie relazioni.

Nel ’97 lui giunge alle “Anime Salve”, l’imperfetto e prezioso gruppo dei suoi compagni di viaggio; io, dopo anni di diagnosi e prognosi piuttosto sterili commissionate dal Ministero della Giustizia, individuo nei detenuti dei buoni compagni di ricerca e nasce, appunto, il “Gruppo della Trasgressione”. Con loro comincio a scoprire i fondali del rancore e a toccare con mano i sogni abortiti o congelati di chi vive con la pistola in mano o con lo scettro sulla scrivania. (…)

Avrebbe dovuto essere lui il nostro primo ospite. Al gruppo non lo aspettavamo perché i detenuti si sentissero parte degli ultimi. Nei miei desideri c’era che lui venisse a raccontare la ricchezza della imperfezione, la bellezza della fragilità, che venisse a cantarci o a parlarci di quanto può essere eccitante vedere “Nina Volare”, mentre qualcuno mastica e sputa da una parte la cera e dall’altra il miele.

Ma pochi mesi dopo il nostro invito si ammalò e non venne mai. Venne la sua morte e il lutto e, dopo qualche anno, la voglia di tenerlo vivo dentro e, da lì, le tante iniziative del gruppo a lui collegate. La principale è costituita dal mescolare le sue canzoni ai nostri testi e portare l’impasto nelle scuole medie superiori nell’ottica della prevenzione di bullismo e tossicodipendenza. Con gli adolescenti, strano a dirsi, i detenuti riescono ad essere efficacissimi quando raccontano della riscoperta delle loro antiche paure mentre ricostruiscono il percorso delle loro scelte (Trsg.readings).

Per Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia di splendore” che, dalla “Ballata del Miché” all’ultima “Smisurata preghiera”, egli trova in ognuno dei suoi personaggi imperfetti. Da “Via del campo” alle “Anime Salve” egli ci ha offerto per 40 anni decine di inviti a cercare l’uomo non solo e non tanto quando vola vittorioso verso il traguardo, ma soprattutto quando manca il bersaglio o ne coglie uno lungo una strada di periferia. Il Dio al quale egli chiede, a 56 anni compiuti, di ricordare chi viaggia in direzione contraria è lo stesso al quale, circa 30 anni prima, aveva rivolto la “preghiera in gennaio” per chiedergli di accogliere il suo amico Luigi Tenco.

Per il Gruppo della Trasgressione, l’eredità di De André è soprattutto il piacere di rintracciare nella propria e altrui imperfezione le tessere con cui giocare la partita della vita.