Il reinserimento è una scalata con tante difficoltà e pochi appigli

Chi esce dal carcere ha un marchio indelebile e non può fare nulla per nasconderlo, e questa “marchiatura” preclude spesso ogni possibilità di svolgere un’attività lavorativa in cui siano richieste fiducia e responsabilità

 

di Enos Malin

 

Quando un detenuto lascia il carcere è come se si cimentasse in una arrampicata con un elevato grado di difficoltà per raggiungere l’alta vetta del reinserimento, e molti non riescono nell’impresa.

Non voglio analizzare in generale i motivi che possono causare l’insuccesso, perché, oltre ad essere molteplici, sono soggettivi e quindi forse la mia analisi sarebbe generica e sterile. Per questo racconterò semplicemente le mie esperienze personali, che sono la prova delle difficoltà che si incontrano nel voler rientrare nella società dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia.

Dicendo questo non voglio manifestare delle pretese particolari o cercare delle giustificazioni, ma semplicemente spiegare che chi esce dal carcere ha un marchio indelebile e non può fare nulla per nasconderlo. Questa “marchiatura” preclude spesso ogni possibilità di svolgere un’attività lavorativa in cui sono richieste fiducia e responsabilità, quindi non si tratta semplicemente di affrontare delle difficoltà, bensì di rientrare nell’ordine di idee che si dovrà svolgere un lavoro scarsamente qualificato, e quasi sempre anche poco remunerato. Perciò è solo una illusione quella di avere saldato il debito alla società.

Circa vent’anni orsono ero in libertà ed attendevo che una condanna ad una pena di due anni divenisse definitiva. A seguito di innumerevoli sacrifici ero riuscito a raccogliere la prima somma necessaria per poter stipulare il contratto preliminare d’acquisto di un bar, erano circa 30 milioni, molti dei quali avuti in eredità dopo la morte di mio padre; per la somma rimanente avevo concordato il pagamento di un milione di lire al mese per cinque anni. Il bar si trovava nel centro di un grosso paese, inoltre era situato dirimpetto alla Questura, quindi qualsiasi poliziotto poteva affacciarsi alla finestra ed osservarmi al lavoro.

A quella attività dedicavo tutto me stesso, aprivo il locale alle sette del mattino, in quanto nelle vicinanze c’erano alcune scuole superiori e molti uffici, quindi le colazioni erano numerose. Nel bar lavoravo quasi sempre da solo, avevo l’aiuto di una ragazza per alcune ore verso sera in quanto ero riuscito ad acquisire una numerosa clientela. Chiudevo all’una di notte, dedicavo un’altra ora alle pulizie e poi stanchissimo mi coricavo su una brandina all’interno del bar, regalandomi cinque meritate ore di sonno. Non potevo permettermi di fare il pendolare, andare e tornare dalla mia abitazione mi avrebbe privato di tempo prezioso che invece era indispensabile riservare al sonno. Il giorno di chiusura lo dedicavo agli acquisti presso grossi magazzini per avere prezzi vantaggiosi che non avrei avuto con le consegne a domicilio, il resto della giornata lo trascorrevo nel locale a sistemare e pulire.

L’attività andava bene, era sfibrante, ma ero contento, anche perché riuscivo ad onorare le varie scadenze. Sapevo che m’attendevano molti sacrifici, ma con un po’ di fortuna avrei potuto mettere una pietra sopra il mio passato. Mentre avevo questa illusione nel cuore, dopo un anno e mezzo dall’apertura del bar giunse il definitivo di quella condanna.

Presentai domanda al Tribunale di Sorveglianza per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, cioè richiesi l’applicazione di un beneficio che mi desse la possibilità di espiare la condanna svolgendo il lavoro presso il mio locale per il tempo che avrebbe stabilito il Magistrato ed il resto della giornata chiuso in casa; per agevolare tale concessione avevo preso in affitto un’abitazione nelle vicinanze del bar e versato le tre mensilità anticipate.

La relazione dei carabinieri fu negativa ed il Tribunale non mi concesse il beneficio invocato, e così entrai in carcere. Perdetti il bar ed i soldi fino ad allora versati, ebbi delle conseguenze finanziarie con l’INPS e dei problemi con il fornitore del caffè, ma il dolore maggiore fu vedere vanificato tutto il lavoro svolto e tutte le mie speranze naufragate.

 

Il mercato del lavoro offre molto poco ad un pregiudicato

 

Uscii dal carcere senza alcuna prospettiva, demoralizzato e senza possibilità economiche. Il mercato del lavoro offriva molto poco ad un ultraquarantenne pregiudicato, mi adattai a qualche lavoretto e la perseveranza mi premiò; infatti mi si presentò la possibilità di dedicarmi a una attività di pronta consegna, perché una grossa fetta di clientela era ancora disponibile, e non serviva molto capitale, ma solo tanta volontà ed un po’ di ingegno.

Con una agenzia pubblicitaria di Padova stipulai un contratto attraverso il quale sarebbe stata effettuata della pubblicità in quattro emittenti private per un valore di dieci milioni di lire, in cambio avrei svolto per loro del lavoro per lo stesso importo; inoltre attraverso la stessa agenzia mi fecero stipulare contratti di collaborazione lavorativa con quasi tutte le radio e TV locali ed anche diversi professionisti si avvalsero del mio servizio.

Grazie a tali contratti mi fu concesso un conto corrente in banca, dove depositavo anche i bonifici delle emittenti con cui operavo. Quando con il lavoro raggiunsi metà dell’importo stabilito iniziò la diffusione della pubblicità ed in quello stesso giorno mi arrestarono e fui rinchiuso nel carcere giudiziario di Padova; tutto il mio lavoro andò a rotoli, ebbi dei problemi per i contratti di lavoro, fui protestato per un assegno che avevo dato a garanzia, feci 40 giorni di sciopero della fame, fui infettato dalla scabbia e dopo 6 mesi fui scarcerato per la maturazione della decorrenza dei termini. Dopo alcuni anni fui assolto per non aver commesso il fatto.

Cercai di fare buon viso a cattiva sorte e mi rimisi di buzzo buono per risollevarmi. Riuscii a organizzare un gruppo di ragazzi, acquistai un pulmino e gestivo la distribuzione di materiale pubblicitario per conto di note catene di supermercati ed altre aziende. Ero riuscito a trovare molte commesse, lavoravamo tutti i giorni, era un’attività alla quale bisognava dedicare molta energia e impegno, percorrevamo una infinità di chilometri, anch’io lavoravo quanto e forse più degli altri ed eravamo contenti perché a fine mese vedevamo ripagate le nostre fatiche.

Inseriti nel gruppo c’erano quattro ragazzi extracomunitari e dopo due anni che lavoravamo onestamente e tutti con gli stessi diritti, sono stato denunciato dai carabinieri per reati inerenti la clandestinità e il lavoro in nero. Quei ragazzi furono rimpatriati ed io dovetti smettere quell’attività.

Ho cercato altri lavori, ma ad un pregiudicato di ormai 50 anni non vengono concesse molte possibilità. Però nascondendo i miei precedenti penali riuscii a trovare una persona che mi diede la possibilità di lavorare in un club, però dovevo ricoprire la carica di presidente. Per lavorare accettai, ma non sapevo che non potevo ricoprire quella carica in quanto pregiudicato. Fui denunciato, in Tribunale spiegai le mie ragioni, il Pubblico Ministero chiese l’assoluzione, invece il Giudice mi ha condannato a due mesi.

Così dopo quasi 20 anni di tentativi per rientrare a testa alta nella società, ho rinunciato ed ora faccio parte dei recidivi, di quella moltitudine di persone che non è riuscita a scalare la parete del reinserimento.

Non voglio polemizzare, ma solamente sottolineare che per i 6 mesi espiati innocentemente in carcere e per tutti i danni subiti in quel frangente, non posso chiedere l’indennizzo perché, senza che ne fossi consapevole, è trascorso il limite di tempo entro il quale potevo richiedere il risarcimento. Oltre il danno anche la beffa, perché la giurisprudenza afferma che non è possibile defalcare dalla condanna attuale quei sei mesi espiati in quanto sono antecedenti a questa espiazione.