Piccoli passi per riportare un po’ di civiltà in carceri sempre più incivili

 

È arrivata nelle carceri la scorsa primavera una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, volta a “contenere il disagio esistenziale dei soggetti privati della libertà personale, e a prevenire il compimento di atti autolesivi”. La circolare dispone alcune misure per portare un po’ di civiltà in galere, rese ormai sempre più incivili dal sovraffollamento, misure che da mesi, anche dalle pagine di questo giornale, chiedevamo venissero attuate. Si tratta di alcune aperture, comunque significative, come la possibilità di chiamare i famigliari che non abbiano un telefono fisso anche a un cellulare, l’opportunità per il volontariato di fare attività con orari più ampi, il potenziamento dei colloqui con i parenti e delle telefonate, alcune indicazioni per migliorare l’assistenza sanitaria. Sono in ogni caso segnali importanti che qualcosa si deve fare subito, prima che la situazione precipiti, che i suicidi aumentino ulteriormente, che gli atti autodistruttivi vengano vissuti come l’unico modo per far sentire la propria voce.

In particolare, sottolineiamo le nuove regole per l’ingresso dei volontari, fondamentali perché quanto più un carcere è aperto alla società esterna, tanto più ci sono garanzie di trasparenza e di umanità, e un carcere più umano ci rende tutti più sicuri.

 

 

Chiamare dal carcere su telefoni cellulari è solo un passo di civiltà

 

di Elton Kalica

 

In questo clima pesante che si vive oggi nelle carceri, da Roma è arrivato quello che molti detenuti si aspettavano: un po’ di umanità. È difficile dire se si tratti dell’inizio di una fase nuova di umanizzazione delle carceri, ma molti hanno tirato un sospiro di sollievo nel leggere l’ultima circolare con cui si invitano i direttori di tutte le carceri a intervenire per ridurre quei disagi, derivanti soprattutto dalle prime fasi della detenzione, che a volte innescano autolesionismi e suicidi.

Si tratta di un elenco contenente accorgimenti minimi per migliorare le condizioni di vita, come l’obbligo di informare la persona detenuta sui diritti di cui può fruire e sulle regole di vita nell’istituto penitenziario e di agevolare i contatti con il difensore; in questo senso, è stato invitato anche il personale penitenziario a farsi parte attiva nel recepire segnalazioni circa la sussistenza di eventuali problemi che affliggono la persona appena entrata in carcere, dato che a volte anche un disguido di tipo organizzativo o burocratico può comportare disagi gravi.

Ma il documento contiene anche delle straordinarie novità, come la possibilità di telefonare a telefoni cellulari. Anzi, io credo che questa attenzione dedicata all’esigenza di facilitare i contatti telefonici con i nostri familiari sia la cosa più preziosa, perché riconosce alle nostre famiglie il diritto di sentire la nostra voce, di sapere se stiamo bene o male, e di aggiornarci su ciò che succede a casa; e per far rispettare questo diritto, l’amministrazione concede l’utilizzo di qualsiasi mezzo che i nostri famigliari abbiano a disposizione.

Infatti, noi avevamo finora il diritto di telefonare ai famigliari per dieci minuti a settimana, a condizione però che essi fossero titolari di una linea di telefonia fissa. Questo in concreto significa che solo chi ha un numero fisso può godere del diritto alla telefonata, mentre ci sono sempre più spesso situazioni in cui i famigliari del detenuto non dispongono di un telefono a linea fissa, e allora si può rimanere anche per tutta la durata della condanna in carcere senza mai telefonare a casa. Da questa privazione sono colpiti soprattutto gli stranieri provenienti da zone sprovviste di rete telefonica fissa.

Questa circolare invece invita le direzioni ad essere più disponibili rispetto alle istanze provenienti dagli stranieri. E da oggi, il detenuto che entra in carcere e non può avere contatti di altro tipo con i propri familiari, potrà indicare il numero di cellulare dei propri congiunti e fornire copia del contratto intestato al famigliare. Per quel che riguarda invece chi è già in carcere, può richiedere di telefonare a un cellulare di un famigliare chi non ha fruito di colloqui visivi e telefonici per almeno quindici giorni.

Al giorno d’oggi, la comunicazione è uno dei settori più sviluppati e viene fatta attraverso diverse tecnologie avanzate. Qualsiasi persona “normale” può comunicare in qualsiasi momento con i propri cari – controllare i figli adolescenti, sentire i genitori anziani, comunicare un bisogno o chiedere aiuto – e nessuno lo considera più un lusso, bensì una necessità, e anche un diritto, se si dovesse mettere in discussione la libertà di farlo. Mentre qui dentro, dove siamo stati reclusi perché condannati alla privazione della libertà, la comunicazione è sempre stata considerata un lusso, una concessione compassionevole dello stato. In realtà, questo provvedimento, autorizzandoci a chiamare su numeri cellulari, compie un passo enorme di civiltà poiché riconosce anche a noi detenuti il diritto di conservare l’unità famigliare, e questo restituisce dignità alle nostre famiglie, che non si sentono più considerate famiglie di serie B. Forse per molti di noi la galera continuerà ad essere quella di sempre, ma il gesto è importante perché segna un cambio di rotta, che si allontana dalla politica del carcere duro, per allinearsi a quel processo di civilizzazione e umanizzazione dei luoghi di detenzione, intrapreso dal resto dell’Unione europea.

 

 

Migliorare i colloqui con le famiglie ci aiuta a mantenere un equilibrio mentale

 

di Pietro Pollizzi

 

Dopo anni di richieste ed eventi tragici che hanno funestato l’esistenza di numerose famiglie con un loro caro all’interno delle carceri della Repubblica Italiana, le istanze di molti detenuti e di numerose associazioni sono state ascoltate: finalmente i colloqui visivi dei detenuti con i propri familiari potrebbero essere resi più umani, specialmente per quei nuclei con figli minori di dieci anni, fase della vita in cui la personalità dei più piccoli ha bisogno della presenza costante di entrambi i genitori.

Dico “potrebbe” perché il condizionale è d’obbligo. Dopo anni di lotta da parte di operatori che conoscono la drammatica situazione in cui versano le prigioni italiane, il DAP ha emanato una circolare che raccomanda, tra l’altro, ai direttori di tutte le strutture detentive italiane di potenziare quegli strumenti indispensabili per la continuazione dei rapporti dei reclusi coi propri familiari, quali telefonate e colloqui visivi. Secondo me, proprio questi ultimi sono di vitale importanza per mantenere un rapporto stabile con le nostre famiglie. La stessa circolare riconosce che la mancanza di uno spazio idoneo da dedicare ai colloqui con i propri cari è causa molto spesso dello sgretolamento degli stessi nuclei familiari. Le cui conseguenze possono portare anche a decisioni tragiche, come purtroppo testimonia la triste sequela di suicidi che avvengono nelle nostre carceri.

Non dimentichiamoci che la famiglia è anche l’unico ponte col mondo esterno e, in quanto tale, permette ai detenuti di sentirsi ancora legati ai parenti, agli amici, a tutte le persone care che sono là fuori. Ecco perché migliorare i colloqui con le famiglie significa aiutarci a mantenere un equilibrio mentale che si riversa su tutto il mondo carcerario, attuando un vero e proprio circolo virtuoso, che genera maggiore vivibilità e attenuazione delle tensioni nell’intera struttura detentiva.

Mantenere dei legami saldi e duraturi con le proprie famiglie è anche un deterrente dal commettere nuovamente reati: chi non ha più nulla è un individuo che non ha più niente da perdere, una mina vagante, che può innescarsi in un qualsiasi momento.

Adesso ci si augura che le direzioni di tutte le carceri attuino nel modo più veloce possibile la circolare emanata dal DAP e che rendano più vivibile la vita all’interno delle carceri. Un approccio più umano alla detenzione può spingere le persone a un cambiamento molto più di quanto possa farlo qualsiasi punizione esemplare.

Forse questo è un piccolo passo verso la vera riabilitazione che, come previsto dalla Carta costituzionale all’articolo 27, non può “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

 

 

I detenuti sanno l’importanza del ruolo che ricopre il volontariato nelle carceri

Un ruolo che a fatica le istituzioni e la società capiscono, riconoscono, valorizzano

 

di Maurizio Bertani

 

“Si raccomanda, pertanto, alle direzioni di compiere ogni sforzo per consentire la massima estensione degli orari di accesso agli istituti per i volontari e per i rappresentanti della comunità esterna, in particolare evitando, nei limiti del possibile, che le attività di costoro cessino in coincidenza con la fine del turno della mattina. L’ideale sarebbe consentire che si protraggano almeno fino alle 18:00” (Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, 24 aprile 2010).

Io come detenuto non posso non essere convinto dell’importanza del volontariato all’interno delle carceri, volontariato che individuo in due filoni estremamente rilevanti. Il primo lo colloco nel volontariato “che fa assistenza”, cioè tutto quel filone che di fatto supplisce alle carenze di un’Amministrazione penitenziaria, e quindi dello Stato, che non riesce a soddisfare le necessità di base “esistenziali”, come indumenti, prodotti per la pulizia personale, anche un semplice francobollo per mantenere o cercare di mantenere un minimo di rapporto con la famiglia d’origine, di quella massa di detenuti ristretti nelle carceri italiane, massa di popolazione sempre più indigente.

Perché sempre più le carceri vengono riempite di persone che possiamo ritenere gli emarginati della nostra società “civile”, basti pensare agli ultimi decreti legge che puniscono oltre ogni misura gli immigrati clandestini, spesso colpevoli solo di essere presenti irregolarmente sul nostro territorio.

Il secondo filone del volontariato lo colloco nel volontariato impegnato in attività “di servizio”, cioè quel volontariato che all’interno delle carceri italiane investe in attività culturali, formative e soprattutto di confronto. Pensiamo alla Casa di reclusione di Padova, dove ci sono alcune attività gestite dal volontariato di estrema importanza, penso naturalmente alla redazione di Ristretti Orizzonti, dove in forma di volontariato lavorano persone esterne, ma anche più di trenta detenuti, redazione in cui si produce una rivista bimestrale, che oggi è riconosciuta da tutti gli addetti ai lavori, e non solo.

Penso al gruppo della Rassegna Stampa, che occupa diversi detenuti che svolgono un intenso lavoro di catalogazione di documenti, penso al TG2Palazzi, e allo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, che offre a tutti i detenuti un servizio prezioso di ascolto, e soluzione di tanti problemi, e anche lì a “lavorare” sono volontari con una professionalità precisa, avvocati, esperti di problemi previdenziali, ma anche detenuti.

Penso a tutti quei volontari che gravitano attorno al Polo universitario e che supportano una trentina di detenuti iscritti all’Università di Padova, con una attività intensa che fa da ponte fra i detenuti studenti e le varie facoltà universitarie. Penso ai gruppi di ascolto che dialogano con i detenuti in difficoltà e offrono una sorta di supporto psicologico, che aiuta a mantenere vivo il contatto con la realtà esterna delle persone private della libertà personale.

Insomma, persone che impegnano il loro tempo gratuitamente, svolgendo una funzione sociale di elevatissima importanza, non perché “buoni o buonisti”, come sempre più spesso si sente dire da chi giudica il volontariato una perdita di tempo, ma perché convinti che ogni detenuto che riesce a reinserirsi e a integrarsi nella società sarà una persona in meno che domani tornerà a delinquere.

Non è facile, i volontari non sono molto compresi, spesso sono osteggiati, anche da quella stessa parte di società, cioè Amministrazioni e Stato, a cui loro “vanno in soccorso” supplendo alle loro carenze. Intendiamoci, sono consapevole che una parte delle istituzioni vede il volontariato come una risorsa utile, anzi indispensabile, credo però che sia una minoranza ad apprezzare proprio il volontariato in carcere, quello fatto per “i cattivi”.

 

Il sovraffollamento non può essere un “alibi” per non cambiare nulla

 

Ma ecco che in tutta questa complessa realtà entrano in gioco delle novità non di poco conto. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, riconoscendo l’immensa importanza del volontariato e del lavoro che lo stesso svolge all’interno delle carceri, decide di sostenerlo in modo più chiaro e concreto del solito.

Alla fine di aprile di quest’anno invia una circolare a tutte le carceri, dove invita a prendere atto che “pur nella consapevolezza della gravità dell’attuale situazione degli istituti penitenziari, caratterizzata dal crescente sovraffollamento, occorre profondere ogni sforzo affinché il processo di costante miglioramento della normativa interna, e la conseguente riduzione del disagio della popolazione detenuta, non vengano rinviati ai futuri prossimi risultati della realizzazione del “piano carceri”, e quindi, rilevando l’importanza del volontariato nelle carceri, auspica che le direzioni degli istituti promuovano e attivino la possibilità di ingresso e permanenza dei volontari negli istituti di pena almeno fino alle ore 18, e non solo fino alle 15, 15,30, che è l’orario tipico di cessazione delle attività in gran parte delle carceri.

Ma che cosa è successo? Veramente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rileva che il volontariato e i volontari nelle carceri italiane hanno un ruolo fondamentale e quindi questo ruolo va potenziato e valorizzato? Personalmente ritengo che dovrebbe essere cosi e questo sinceramente è quello che auspico. Come detenuto però sono poco incline a credere a tanta generosità, quindi tengo conto che questo favorire le attività di volontariato avviene quando è stato dichiarato lo stato di “emergenza” nelle carceri, dovuto all’esagerato numero di detenuti stipato al loro interno. I dati oggi infatti ci indicano che di 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa l’Italia si trova al terzo posto, dopo Cipro e Bulgaria, quanto a sovraffollamento carcerario, cioè rapporto fra numero di detenuti e “posti cella”.

Immagino si possa pensare che la maggior apertura ai volontari sia solo un escamotage per supplire alle continue promesse, ad oggi non mantenute, di pacchetti in tema di nuova edilizia carceraria e in tema di nuove assunzione di personale di Polizia penitenziaria, amministrativo e dell’area pedagogica degli istituti di pena. Ma anche se cosi fosse poco importa, come detenuto il fatto che si sia allargata la possibilità di ingresso al volontariato e ai volontari può farmi solo piacere, per me il dialogo con l’esterno è di estrema importanza per non fossilizzarmi su stereotipi, luoghi comuni, irrigidimenti tipici di un posto chiuso come il carcere.

E poi comunque, qualsiasi sia il fine ultimo di questa apertura, si tratta di una possibilità in più per i volontari di dimostrare anche a quella parte che osteggia la loro presenza, e che a volte penso sia la maggioranza dell’istituzione carcere, che il loro lavoro è importante e va potenziato e migliorato, perché costituisce, anche se in pochi lo vogliono ammettere, una reale prospettiva di contribuire a creare una società migliore, ma anche più sicura, due concetti che forse non sono così in antitesi come si vorrebbe.

 

 

Una “cura” vera contro il sovraffollamento

Una campagna di verità sulla pena e sul carcere

Bisogna spezzare questo clima culturale, che vuole il carcere come unica risposta ad ogni tipo di devianza

 

di Paolo Canevelli, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia

 

Parlare oggi di carcere implica secondo me un approfondimento sul tema della giustizia che non possiamo non fare. Oggi assistiamo ad un consistente aumento delle pene medie inflitte, che è frutto di scelte normative degli anni scorsi. Ecco, questo noi dobbiamo dirlo subito, dobbiamo prendere atto che oggi, a livello di pene irrogate dai tribunali della Repubblica, si assiste ad un incremento costante di pene inflitte per reati che fino all’altro ieri erano puniti con pene molto basse.

Penso ad esempio a dei casi che trattiamo quotidianamente nella nostra attività di Tribunale di Sorveglianza, abbiamo un detenuto a Terni che ha avuto una condanna a quattro anni per la cessione di una modica quantità di hashish, quattro anni di reclusione solo perché recidivo reiterato, recidiva reiterata che non può essere comparata con l’attenuante dell’articolo 73, quinto comma della Legge sugli stupefacenti, quindi grazie al giudizio abbreviato ha avuto quattro anni di pena, perché altrimenti ne prendeva sei.

Furti aggravati che mediamente erano puniti con 9-10 mesi, oggi hanno pene di tre anni, tre anni e quattro mesi, è sempre anche questo un effetto della recidiva reiterata che non può essere comparata con certe circostanze attenuanti.

Ecco, dalla osservazione concreta della realtà ci rendiamo conto come una legge come l’ex Cirielli stia devastando il panorama penale, più che carcerario, poi sicuramente devasta anche il carcere, però è proprio il piano penale che viene devastato, perché non c’è più proporzione, è stata alterata completamente la proporzione della pena rispetto alla gravità del reato.

Quindi gli effetti della recidiva reiterata sono stati disastrosi sul sistema penale, ma il sistema penale vive anche delle incredibili disparità di trattamento che ci sono nella fase di avvio dell’esecuzione penale, chiunque di noi sappia un po’ come funziona l’esecuzione delle pene si rende conto che la norma chiave è l’articolo 656 del Codice di procedura penale.

Devo dire che gli interventi che nel corso degli anni sono stati fatti per irrigidire la norma, per renderla sempre più chiusa, per ricomprendere nelle esclusioni oggettive una serie di reati, anche, diciamo, non particolarmente gravi, hanno avuto di nuovo un effetto sull’aumento della popolazione detenuta. Basti pensare che tutti i reati della criminalità economica non sono ricompresi nel 656 a livello ostativo, quindi una persona che ha una condanna per bancarotta a tre anni va tranquillamente in sospensione dell’esecuzione e aspetta da libera la decisione del Tribunale di Sorveglianza. Chi ha invece un furto pluriaggravato, anche con l’articolo 625 n° 2 e 7, quindi il furto classico dello stereo dell’autovettura, va dritto in carcere, a prescindere dall’entità della pena.

Allora questo sistema, questo doppio meccanismo, recidiva reiterata da un lato, sospensione dell’esecuzione vietata in alcuni casi particolari, ha reso oggi la situazione della pena, e quindi poi ovviamente come conseguenza del carcere, drammatica così come la vediamo, ma quello che preoccupa di più è proprio quella disparità di trattamento che si sta creando, perché in carcere continuano ad arrivarci sempre le stesse persone. Nel senso che non è che oggi ci sono dei processi per rendere effettive le pene per reati di criminalità economica, la criminalità economica continua a vivere sull’onda di possibili aperture di crepe nel sistema penitenziario-penale, per cui autori di quei reati in carcere non li troviamo quasi mai.

La verità è che il ruolo della pena detentiva nel nostro sistema è rimasto centrale, nonostante tutte le belle parole che ci siamo detti nel corso degli anni, da quando il Presidente della Repubblica disse “Il carcere è l’extrema ratio”, in realtà non è successo assolutamente nulla di significativo, anzi il carcere è diventato sempre più presente nelle sanzioni quotidiane.

 

Serve l’abolizione delle pene detentive brevi

 

Io credo che a livello di pena bisognerebbe rilanciare sicuramente la riforma del Codice penale, però credo che oggi ripartire con una riforma articolata del Codice penale potrebbe essere di difficile attuazione, forse si potrebbe cominciare a proporre anche delle soluzioni immediate, come l’abolizione delle pene detentive brevi.

Insomma, oggi dovremmo eliminare come sanzione carceraria tutte quelle pene che non sono superiori a tre anni di reclusione, perché non ha senso che un giudice infligga una pena di un anno e sei mesi di carcere, perché oggi con la custodia cautelare, in alcuni casi resa sempre più vincolante, con l’impossibilità di sospendere la pena attraverso la legge Simeone-Saraceni, sostanzialmente se prendiamo la pena di un anno e sei mesi per furto aggravato, si comincia con la custodia cautelare e si finisce se mai con la liberazione anticipata, mentre ben difficilmente si andrà in misura alternativa, perché non c’è tempo. Allora queste condanne di un anno, un anno e sei mesi, due anni nella maggior parte dei casi vengono espiate interamente in carcere.

Paradossalmente le condanne a pene più lunghe possono ricevere i benefici, perché c’è l’osservazione penitenziaria, perché c’è il tempo di osservare l’evoluzione della personalità.

Allora perché non usare per esempio una provocazione? cominciamo a dire che il reato di furto aggravato non è più punito con il carcere, possiamo provare a fare una proposta del genere, è punito con il risarcimento del danno e con lavori di pubblica utilità, ma non con il carcere, ma non più con il carcere. Perché altrimenti noi sempre su quelle persone andiamo a finire, sempre per loro prevediamo il carcere, furto aggravato e detenzione ai fini di spaccio di stupefacente. Ma anche per gli stupefacenti, vogliamo dire che si possono immaginare pene diverse? ma da subito dovremmo farlo, servono forse un po’ di coraggio e di inventiva, perché se aspettiamo una riforma che non arriverà mai del Codice penale, io credo che continueremo a vedere tempi bui e carceri sovraffollate.

Quindi io credo che bisogna attaccare il principio della pena detentiva breve, non ha senso nella nostra situazione emettere condanne a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale, come non ha senso una custodia cautelare per una resistenza a pubblico ufficiale, eppure vediamo che normalmente nei nostri tribunali questo avviene.

Sul versante della pena credo che queste potrebbero costituire delle forme di anticipazione di quella che potrebbe essere una riforma del Codice penale: provare ad inserire oggi, già subito in questo sistema, delle pene diverse che evitino che i tribunali della Repubblica pronuncino sentenze del genere di quelle che ho appena indicato.

Sul fronte carcerario invece credo che bisogna prendere una iniziativa forte sulla custodia cautelare, perché ritengo che oggi il versante della custodia cautelare sia un punto debole del nostro sistema.

La custodia cautelare infatti sempre più viene gestita come anticipazione di pena e non c’è dubbio che moltissimi magistrati ritengono che la custodia cautelare sia oggi l’unica pena che certi condannati espiano, e continuano con questo atteggiamento a mantenere custodie cautelari in carcere che non hanno più senso.

Bisognerebbe individuare un tetto massimo di custodia cautelare, ma un tetto massimo che è un tetto minimo per me, nel senso che superati i tre mesi, per un reato di media gravità, la custodia in carcere non ha più nessun significato, si possono tranquillamente adottare provvedimenti del tipo di quello di cui si è parlato per i tifosi, l’obbligo di presentarsi anche quotidianamente, anche due volte al giorno, tre volte al giorno alle forze di polizia, ma evitare il carcere cautelare, se non per fatti veramente gravi, di criminalità organizzata.

Quindi bisognerebbe inventare se mai delle misure diverse dalla custodia cautelare, istituti diversi, non si può ancora continuare a gestire una popolazione detenuta che è formata a metà da detenuti in attesa di giudizio o in custodia cautelare e a metà da detenuti definitivi, perché poi tutta questa commistione di gestioni diverse finisce in qualche modo per ostacolare anche le attività trattamentali e rieducative per i detenuti.

 

Dobbiamo invertire la tendenza che pensa di anticipare la pena con la custodia cautelare

 

Noi abbiamo ancora detenuti che stanno in cella ventidue ore al giorno, e guarda caso spesso sono proprio i detenuti in attesa di giudizio, perché ci dicono le direzioni che sono i più difficili da gestire e quindi li tengono chiusi, ma io credo che questa sia una cosa che non può andare d’accordo con il principio di presunzione di non colpevolezza, dobbiamo invertire questa tendenza che pensa di anticipare una pena con la custodia cautelare, perché ha paura che poi la pena non arriverà.

C’è infatti questo discorso della certezza della pena che aleggia su ogni provvedimento che viene emanato e su ogni decisione del giudice, quasi poi che la pena non arrivi mai. La pena statene certi alla fine arriva, se qualcosa si può addebitare al nostro Stato non è quello di non avere certezza della pena. Il problema è che la pena arriva dopo 10, 15, 20 anni, perché i tempi del processo sono lunghi, perché i tempi delle decisioni poi anche eventualmente dei Tribunali di Sorveglianza sono lunghi e quindi la pena concretamente diventa eseguibile dopo tanti anni rispetto al fatto.

Agire sulla custodia cautelare consentirebbe di ridurre di molto la popolazione detenuta e quindi di gestire la stessa popolazione detenuta per reati definitivi senza costruire nuove carceri, perché non serve costruire oggi nuovi istituti, se mai andrebbero riqualificati, nel senso di ampliare gli spazi disponibili per attività culturali, per attività da svolgere insieme, quindi ridurre un po’ quell’aspetto dell’ozio in carcere che rappresenta oggi l’unica forma di esecuzione della pena.

Rilanciare quindi spazi lavorativi, spazi trattamentali: gli istituti ce li abbiamo, cerchiamo semmai di attrezzarli in maniera diversa, così come potremo recuperare tutta quell’area rieducativa che oggi è costretta a lavorare sul detenuto “nuovo giunto”, come se il nuovo giunto rappresentasse l’emergenza. È vero che il nuovo giunto per il rischio di suicidio oggi viene vissuto dalle direzioni delle carceri come un problema, ma anche qui, se tanta gente evitassimo di farla entrare in carcere per pochi giorni, noi potremmo destinare tutte quelle risorse educative trattamentali a fare altro, a fare quello che l’Ordinamento penitenziario obbliga l’amministrazione a fare, per l’osservazione e il trattamento, ma che invece è l’attività che per i detenuti definitivi si fa con grandissima difficoltà.

Sul versante delle misure alternative invece occorre superare le preclusioni, perché un sistema che continua a ritenere che un reato di rapina aggravata non consenta certe misure alternative o, se le consente, le ammette solo dopo l’espiazione di una quota di pena molto significativa, io credo che non sia un sistema razionale e ragionevole. Perché oggi ci sono rapine e rapine, la rapina aggravata può essere quella commessa da tre persone che danno una spinta a qualcuno per impossessarsi di un portafoglio, per carità è un reato, c’è il carcere, però arrivare a dire che quella persona non potrà avere benefici come la detenzione domiciliare mi sembra sinceramente qualcosa di troppo forte.

Credo che anche su questo versante una iniziativa per ridurre queste limitazioni vada presa, così come invece serve rafforzare la discrezionalità della magistratura di Sorveglianza, che è vero che ne ha già abbastanza, però l’Ordinamento penitenziario in realtà vincola molto l’attività della magistratura di Sorveglianza a quelle che sono poi le attività dell’amministrazione penitenziaria.

Se l’amministrazione penitenziaria non funziona, se quel carcere non produce attività di osservazione e trattamento, la magistratura di Sorveglianza ha ben poco da leggere le carte, che spesso non portano nessun elemento concreto di valutazione.

Per finire, e qui mi allaccio ai progetti di riforma del Codice penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche una riflessione sull’ergastolo forse bisognerà pure farla, perché l’ergastolo, è vero che ha all’interno dell’Ordinamento dei correttivi possibili, con le misure come la liberazione condizionale ed altro, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo, tutti per reati ostativi, e sono praticamente persone condannate a morire in carcere.

Anche su questo, forse, una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa, perché non possiamo, in un sistema costituzionale che prevede la rieducazione, che prevede il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, lasciare questa pena perpetua, che per certe categorie di autori di reato è assolutamente certa, nel senso che non ci sono spazi possibili per diverse vie di uscita.

Ecco, io credo che quindi dovremmo tornare su entrambi i termini, sulla pena e sul carcere, anche facendo piccoli passi in avanti con piccole proposte, che però spezzino questo clima culturale, che vuole il carcere come unica risposta ad ogni tipo di devianza, risposte che invece già da oggi potrebbero essere diverse.

Anche lo stesso terreno che il disegno di legge del governo ci ha proposto, quello ad esempio dei lavori di pubblica utilità, riprendiamolo noi, facciamolo nostro, rilanciamolo come pena principale e non come pena alternativa da vedere domani, chissà quando. Come pena principale con la quale gestire tutta una serie dì reati che non sembra che necessitino assolutamente del carcere, soprattutto quando si possa lavorare anche sul risarcimento del danno.

L’obiettivo però è anche quello di fare una campagna di verità sulla pena e sul carcere e non restar fermi a quelli che ci dicono che servono più carceri, perché invece non credo che sia così.

 

(Roma 28 maggio 2010, intervento al Convegno Carceri 2010: il limite penale ed il senso di umanità)

 

 

Dalle carceri oggi rischiano di uscire persone ciniche e piene di odio verso il mondo intero

Come si esce dal carcere?

Se uno vede che la legge non viene rispettata dentro il carcere, come si può pretendere che lui a sua volta la rispetti fuori?

 

di Antonio Floris

 

L’estate è alle porte, le carceri sono sempre più affollate, il malessere dilaga e non solo tra i detenuti, ma anche tra gli operatori. Spesso si parla di suicidi di detenuti, talmente spesso che si è fatta così tanto l’abitudine che sembra una cosa normale. Non si parla quasi per niente invece, e chissà perché, dei suicidi che avvengono tra gli agenti. Solo nel mese di aprile ben quattro di loro si sono tolti la vita, indice evidente questo di un disagio sociale più volte lamentato, ma poco ascoltato da parte di chi ha il potere di intervenire e non lo fa.

È stato detto e scritto che quella delle carceri è un’autentica emergenza alla quale bisogna trovare una soluzione urgente, ma l’unica soluzione prospettata finora è quella di costruire nuovi edifici, come se fosse una cosettina da niente che si può fare dall’oggi al domani o nel giro di qualche mese e soprattutto con poca spesa. Si trascura di parlare, se non in qualche programma televisivo tipo “Striscia la notizia “ e di sfuggita, che ci sono in Italia alcuni istituti pronti all’uso ma di fatto inutilizzabili per mancanza di agenti, educatori, psicologi, assistenti sociali, e che già nelle carceri esistenti questi operatori sono sotto organico (ben 6000 sono gli agenti che mancano, 600 gli educatori, 535 gli assistenti sociali, 265 tra psicologi e altre figure professionali.

Costruire nuove carceri, senza assumere il personale necessario per gestirle, sarebbe come costruire cattedrali nel deserto (perché questo sono strutture grigie e fredde in luoghi lontani dalla vista) destinate a restare disabitate. Causerebbe solo spese immense ai contribuenti, ma senza alcuna utilità, l’unica categoria che ci guadagnerebbe, anzi che si arricchirebbe, è quella dei costruttori.

Un’altra soluzione che è stata ipotizzata, ma ancora in alto mare, è quella di far uscire dal carcere quei detenuti a cui resta da scontare meno di un anno. Tanti (politici, giornalisti) si sono scandalizzati solo a sentirla, questa proposta. Qualcuno ha gridato che sarebbe una soluzione peggiore dell’indulto, qualcuno ha gridato che sarebbe un indulto mascherato e qualcun altro ha gridato che così ci ritroveremo le strade piene di ladri, stupratori, violentatori e assassini vari.

Queste persone che gridano così, forse non sanno, e dico “forse” perché per lo più lo sanno ma fanno finta di non saperlo, che quelli che dovrebbero uscire non andrebbero per le strade a fare danni ma andrebbero in detenzione domiciliare, il che vale a dire che si deve stare chiusi in casa giorno e notte per 24 ore. Peggio, da certi punti di vista, di stare chiusi in cella insomma, perché dalla cella si può uscire per qualche ora al giorno. Si può uscire per andare ai passeggi, per andare al campo sportivo o in palestra, qualcuno che lavora può uscire dalla cella per andare a lavorare, e qualcuno che va a scuola o a seguire qualche corso può uscire per andare nelle aree scolastiche del carcere. Senza contare poi che chi sta in detenzione domiciliare non grava sulle spalle dello Stato e fa anche risparmiare parte di quei circa 150 euro al giorno che sono il costo di ogni detenuto delle carceri italiane.

Non si capisce perché tanti guardino inorriditi a questa proposta. Si tratta secondo me di pura e semplice demagogia per apparire agli occhi dell’opinione pubblica duri e puri, difensori della sicurezza, della certezza della pena e via dicendo. Non si tiene conto di una elementare verità, che chi ha da scontare meno di un anno, tra meno di un anno uscirà lo stesso, e uscirà LIBERO! Nessuno si scandalizzerà quando questo avverrà, così come non ci si scandalizza per quel centinaio circa di persone che tutti i giorni vengono scarcerate a fine pena e che nell’arco di un anno ammontano a qualche decina di migliaia. È molto, molto strano che questo particolare passi del tutto inosservato!

 

I cittadini “onesti” devono accettare che prima o poi dal carcere si esce

 

Se ci riflettiamo appena, in ogni giorno del calendario, ci sono centinaia di “criminali” che escono dal carcere liberi e girano per le strade liberi, senza nessun controllo. Liberi di fare quello che vogliono e questo non crea nessun allarme sociale.

Se non crea allarme chi gira per le strade libero (perché ha finito la pena) e non è più soggetto a nessun controllo, come lo potrebbe creare chi è costretto a stare chiuso in casa agli arresti domiciliari, soggetto a mille controlli sia di giorno che di notte?

I cittadini “onesti” si devono rendere conto di questo, e inoltre devono accettare che prima o poi dal carcere si esce. Qualsiasi condanna, per grande che essa sia, prima o poi arriva a una fine, e prima o poi quelli che ora stanno in carcere diventeranno pure loro cittadini liberi. Il problema che i governanti e la società stessa devono affrontare non è quello se un detenuto esce un anno prima o un anno dopo, ma è un altro, molto più serio, ed è come si esce dal carcere. Si esce migliori o peggiori di quando si è entrati? Questo è il vero problema.

La funzione del carcere, così come dice la Costituzione, è quella di rieducare il reo. Il carcere deve servire in pratica a restituire alla società cittadini migliori di quando sono entrati. Ma, oggi come oggi, il carcere sta assolvendo a questo compito? La risposta è NO. Non lo sta facendo, se non in minima, minimissima parte.

Nelle condizioni in cui si è costretti a vivere nelle carceri attualmente (e questo si che costituisce motivo di preoccupazione) quelli che escono a fine pena nella stragrande maggioranza dei casi non escono migliori o “rieducati” così come dice la Costituzione, ma escono come prima se non peggiori di prima. Sovraffollamento, sofferenze sia morali che fisiche, mancanza di educatori, condizioni sanitarie pietose, povertà e abbandono senza concessione di benefici di sorta, non fanno diventare le persone più buone, semmai le fanno diventare ciniche, cattive e piene di odio verso il mondo intero. Quando queste persone escono, in tante non si faranno scrupoli a tornare a delinquere. Il carcere ha insegnato loro che non si deve avere rispetto di nessuno, che la legalità è una cosa puramente teo­rica. Se uno vede che la legge non viene rispettata dentro il carcere, come si può pretendere che lui a sua volta la rispetti fuori? La violenza porta altra violenza, il disprezzo altro disprezzo. Chi esce dal carcere in questa condizione torna a delinquere, diventa quel che si dice “recidivo”. Ma è questa la sicurezza tanto auspicata? Forse è il caso che chi ha costruito la sua fortuna politica sventolando la bandiera della tolleranza zero, della certezza della pena e soprattutto della sicurezza, cominci a riflettere un po’.