SOS Sovraffollamento

 

Il carcere ai tempi del sovraffollamento

Ci sono esseri umani che vivono in spazi più ristretti di quelli di un canile

 

Vorremmo non dover essere noiosi, e non parlare così spesso di condizioni di vita indecenti nelle carceri, ma la situazione sta precipitando anche in un carcere, fino a poco tempo fa considerato migliore di tanti altri, come la Casa di reclusione di Padova. La terza branda che stanno aggiungendo in celle singole, già usate come doppie, rende lo spazio così invivibile, che il dirigente sanitario si è rifiutato di firmare l’abitabilità di quelle che, elegantemente, vengono chiamate “stanze di pernottamento”. Purtroppo, mai come ora è stata attuale la vecchia idea di Voltaire che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”.

 

 

I numeri che non tornano. Le carceri che non ci sono

 

di Maurizio Bertani

 

Nel gioco del poker il bluff è quell’escamotage per cui il giocatore simula di avere in mano carte migliori di quelle reali. Succede lo stesso con i numeri dei posti nelle carceri, la cui capienza regolamentare nel Veneto è di 1910 posti, ma per le quali si parla anche di una capienza “tollerabile” che pare crescere a colpi di bacchetta magica. Essendo io in carcere da parecchio tempo, ho spesso assistito a questi fenomeni, ricordo che tra la fine degli anni 70 e la fine degli 80, è stato aperto in Italia più di un centinaio di nuove carceri, tutte rigorosamente con celle singole, monolocali con servizi, pari a 11 mq. circa (bagno compreso), in tutte poi negli anni i posti sono raddoppiati, ovvero due posti per ogni cella, così in un carcere predisposto per 350 i posti sono diventati 700: 5,5 mq. a detenuto. Però nella nostra regione siamo arrivati a più di 3100 detenuti, e abbiamo superato anche la capienza tollerabile, che è di 2900, e quindi anche per il Ministero, evidentemente, un essere umano non può più tollerare questa situazione.

In molti istituti ci sono già tre detenuti per ogni cella, le attrezzature però (cucine, docce, scuole, spazi dedicati ad attività lavorative) che allora erano state calcolate per 350 persone, oggi devono fornire un servizio per il doppio delle loro possibilità.

Ora ci dicono che costruiranno nuove carceri, ma dove? All’interno di quelle già esistenti, perché così si risparmia, non solo sull’acquisto dei terreni, ma anche sulle attrezzature, togliendo ovviamente ulteriore spazio alla rieducazione e alla risocializzazione del detenuto. Ma in fondo a cosa servono questi spazi, se esiste fin d’ora una carenza cronica del personale che dovrebbe occuparsi proprio della nostra “rieducazione”?

Il SAPPE, uno dei più importanti sindacati di Polizia penitenziaria, lamenta la mancata applicazione delle misure alternative per i reati minori, che davvero ridurrebbero il sovraffollamento. Ma lamenta soprattutto di non essere stato consultato per i problemi che riguardano l’emergenza delle carceri, con il risultato che già oggi i detenuti sono oltre la soglia delle 63mila presenze e si stima che, con il ritmo attuale, si arriverà a 70mila entro la fine del 2009, ma con quali risultati? Che sempre più carceri aggiungeranno una branda alle loro celle già raddoppiate, il personale sarà sempre più carente, sottoposto a turni massacranti, il lavoro da parte degli educatori e degli assistenti sociali verrà vanificato, i detenuti verranno posti nella condizione di vivere sempre più compressi in spazi invivibili, in attesa della costruzione di questi nuovi padiglioni negli spazi delle carceri esistenti.

In questo contesto auguro a tutti buona fortuna, annunciando che gira voce che qualcuno dal suo cilindro stia estraendo il sistema per trasformarci in lillipuziani, così in una cella riusciremo a stare comodamente in 4 e lo spazio per le attività sociali sarà addirittura abbondante.

 

 

Cosa significa un po’ di intimità

 

di Paola Marchetti

 

Il carcere bavarese dove sono stata è duro. Segue la filosofia secondo cui la pena è punizione e ripensamento. E per questo fa sì che il detenuto abbia uno spazio tutto suo dove “poter pensare al male fatto”. Il proprio spazio fisico dà la possibilità di avere anche un proprio spazio mentale. Se però lo spazio fisico manca, se si è ammassati come spazzatura in una discarica, diviene molto difficile trovare un luogo dove mantenere un equilibrio, dove riflettere su quello che si è fatto nella vita. Tutti gli esseri umani hanno un momento in cui ripensano a quello che hanno vissuto durante il giorno e, molto spesso, quel momento coincide con il tempo in cui si rimane soli. Ma quasi nessuno è in grado di ritrovarsi solo con se stesso, di concentrarsi su se stesso e su quello che vive, stando in mezzo alla folla.

Voglio allora parlare della mia esperienza di carcere: due anni e cinque mesi in una cella singola in Germania, poi per essere vicina ai miei ho chiesto il trasferimento in Italia e i seguenti 5 anni li ho passati in uno stanzone dove siamo state da un minimo di 8 a un massimo di 12, con continuo arrivare e andarsene di donne di tutte le nazionalità, di tutti i caratteri, di tutte le abitudini. Convivenza forzata dove anche la cella, unico posto dove una persona dovrebbe trovare un po’ di privacy, diviene “luogo pubblico”.

Più di una volta ho chiesto di andare in isolamento, ma mi è stato risposto che in isolamento ci vanno solo quelle che meritano una punizione per qualche comportamento fuori dalle regole, che però prevede anche la perdita della liberazione anticipata (45 giorni di sconto di pena a semestre!).

Coriacea e un po’ fortunata, mi sono allora ritagliata uno spazio di solitudine nelle aule scolastiche dove avevo accesso “per motivi di studio”: unico modo per non scoppiare, per non perdere completamente l’equilibrio, per riuscire a “rivisitare il mio reato”. Nella mia esperienza, nessuna delle donne costrette a vivere 24 ore su 24 in mezzo alle altre è riuscita a mettersi in discussione. Anzi. Si sono convinte di essere delle vittime invece che delle “carnefici”, perché a questo risultato porta l’essere costretti a vivere senza neppure il rispetto degli spazi vitali.

Nel mio letto a castello a Venezia, avevo imparato a isolarmi dalle altre 8, 9, 10, 11 compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire. Alienante! Ma qualcuno pensa davvero che una persona possa diventare migliore in queste condizioni? È questa la soluzione per aumentare la sicurezza e diminuire i reati?

 

 

Vivere cercando di non calpestarsi a vicenda

 

di Andrea Andriotto

 

Otto metri quadrati. Tre persone che ci devono vivere dentro con tre letti, un tavolo di 80 centimetri per 60, tre sgabelli, tre armadietti. Ma questi otto metri quadrati erano pensati per far vivere una sola persona. Oggi però anche nella Casa di reclusione di Padova la situazione è cambiata, e quelle celle che all’inizio dovevano ospitare un detenuto, ne ospitano tre.

Ho vissuto per anni in una di quelle celle, che già da molto tempo non erano più occupate da una persona, ma da due. Sì, da anni infatti anche a Padova non esistevano più celle singole, per cui pure le persone con pene lunghe e lunghissime si sono trovate a dover condividere quegli spazi cercando di sopravvivere, e di mantenere giorno dopo giorno un livello di vivibilità meno indecente possibile. Insomma, credo non sia difficile capire che cosa significhi stare chiusi in così poco spazio e costretti a condividere quella misera superficie e tutto ciò che la riempie, con una persona che nemmeno si conosce, a volte con una persona che ha cultura, usanze e religione differenti, con una persona che in altre situazioni magari non avresti neanche mai avvicinato. Be’, non è certo facile, ma in linea di massima tra due persone si riesce, anche se non sempre, a trovare un punto d’incontro e a condividere tutto cercando di non calpestarsi a vicenda, e io, come altre migliaia di detenuti, ci sono riuscito. Ma oggi che quello stesso spazio deve essere diviso per tre, temo non si riuscirà a trovare un modo per sopravvivere con qualche dignità. Dividere quei metri quadrati per tre significa che, per esempio, può stare in piedi una sola persona alla volta. Significa che il già limitato spazio vitale di una persona si deve ulteriormente ridurre di un terzo. Significa che in una cella nasceranno più conflitti, perché sappiamo tutti quanto sia difficile far ragionare tre teste chiuse insieme in spazi ristretti, ma se queste teste arrivano una dal nord Africa, l’altra dalla Cina e la terza dall’Italia?

Io credo che questa situazione prima o poi sia destinata ad esplodere, perché per quanto si dica che l’uomo alla fine si abitua a qualsiasi condizione di vita, in questo caso credo non ci sia da fare i conti solo con lo spirito di adattamento dell’essere umano, che potrebbe anche abituarsi a vivere in un metro quadrato, ma con un sistema di esecuzione delle pene già di per sé in piena crisi.

Mi limito a fare delle considerazioni pratiche, senza stare ad analizzare grosse questioni: una sezione della Casa di reclusione di Padova è stata studiata per far sì che ci potessero convivere venticinque persone, per cui in ogni sezione ci sono venticinque celle, cinque docce, uno spazio comune e un’area passeggi, pensati appunto per farci star dentro venticinque persone, come potranno mai viverci settantacinque persone in quello stesso spazio?

 

 

Conseguenze “a cascata” del sovraffollamento

Portavitto: un lavoro che non vuole fare più nessuno

Tempo di sovraffollamento e miseria in carcere, tutti si sfamano dal carrello e anche il cibo scarseggia. La gente protesta e chi subisce minacce e addirittura aggressioni fisiche alla fine è sempre lui, il portavitto

 

di Vanni Lonardi

 

Quando sono stato arrestato ho atteso il processo nel carcere circondariale, ovvero nella struttura dove i “presunti innocenti” aspettano di conoscere quale sarà la loro sorte. Si vive in minute celle di contenimento, in quattro o anche più persone, spesso di nazionalità e cultura diverse, con un alto tasso di “ricambio”: nel senso che molte di queste persone usciranno assolte, altre verranno trasferite, altre ancora condannate e dirottate in un carcere penale. Trovare un equilibrio stabile non mi è mai stato completamente possibile, perché almeno ogni mese cambiava qualche compagno di cella, e dovevo ogni volta ripartire daccapo per instaurare un rapporto di civile convivenza. “Sopportavo” perché la permanenza sarebbe stata breve, ma soprattutto perché il peso del reato mi impediva di reclamare i miei diritti.

Subita la condanna sono stato finalmente tradotto alla Casa di reclusione di Padova con la speranza di trascorrere umanamente le lunghe giornate e di potermi inserire in qualche attività di tipo scolastico o lavorativo, per dare un senso alla mia pena. Ma questa speranza si sta lentamente spegnendo, perché il sovraffollamento non risparmia più nessuno e la funzionalità del carcere sta scendendo al di sotto della soglia di tollerabilità.

La collocazione della terza branda nelle celle sta generando una catena di conseguenze inarrestabili; tre persone si ritrovano a dividere undici metri quadri di locale, nei quali ovviamente sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno con water e lavabo: ecco che lo spazio calpestabile fa incarognire tutti riducendoli alla pari di animali rinchiusi in gabbia. Tutti sappiamo cos’è lo spazio vitale, quel niente di cui abbiamo bisogno tra noi stessi e gli altri. Andare sotto questo minimo fa saltare i nervi, e questa situazione deve persistere per anni. E non voglio nemmeno mettermi nei panni di chi ha una condanna all’ergastolo, quasi avessi paura di vedere che qui si può rischiare di impazzire.

Per fronteggiare la grave situazione che c’è un po’ ovunque, la direzione del carcere di Trieste ha addirittura creato “un registro per la rotazione dei materassi a terra”: un librone in cui si annota ogni giorno chi ha dormito per terra e che consente a tutti di coricarsi su una branda almeno per un paio di notti a settimana.

Qui a Padova, talmente ristretto è lo spazio, che il dirigente sanitario non ha nemmeno firmato il nullaosta per l’allocazione della terza branda. Se la cella fosse usata solo come dormitorio allora la cosa potrebbe anche passare: il problema è che ci si deve VIVERE per lunghi anni. Perché per molti le uniche uscite sono quelle per i passeggi, la famosa camminata nella vasca di cemento a cielo aperto, al massimo quattro ore giornaliere. Ma oramai, si sta intasando anche questo spazio, che assomiglia sempre più a un container merci. Tra l’altro difficilmente si possono sfruttare interamente le quattro ore, poiché solo negli stessi orari è concessa la doccia giornaliera.

Anche lavarsi sta diventando una pratica laboriosa, in quanto mediamente sono funzionanti tre docce per sezione: concepite inizialmente per 25 detenuti, sono diventate “sufficienti” anche per 50 e, ora, con il terzo detenuto, dovrebbero far fronte alle necessità di 75 persone.

La cosa tragica è che i fondi sono stati tagliati, e di certo non aumenteranno in proporzione ai nuovi posti branda. Non ci sono soldi nemmeno per i prodotti di pulizia, per la carta igienica o per i sacchetti dell’immondizia. In diverse carceri il direttore ha fatto appello alla comunità locale per poter recuperare prodotti di prima necessità, come stracci, detersivi, spugnette abrasive, deodoranti, dentifrici, spazzolini, bagnoschiuma, in modo da consentire ai detenuti di potersi lavare. C’è un serio pericolo di possibili epidemie, l’igiene personale non è più garantita; a Padova non è raro vedere file di scarafaggi rendere ancora più sovraffollate le celle. Nel carcere di Venezia “ci sono casi di infestazioni di scabbia e di infezioni virali”.

 

La società per prima infrange le proprie regole

 

La carenza di fondi influisce anche sui cosiddetti detenuti lavoranti, cioè gli addetti alle pulizie, alle manutenzioni ordinarie e alla consegna del vitto. Gli orari sono stati drasticamente ridotti: per fare lo stesso lavoro degli anni scorsi è concessa, e pagata, la metà del tempo. La sporcizia e lo squallore generale sono la logica conseguenza, soprattutto nelle sezioni, le zone “lontane dagli occhi” dei visitatori esterni.

Il lavoro del portavitto è diventato molto scomodo. Se prima era “solo” una questione di qualità, ora il problema è la quantità: sono le lamentele contro il portavitto per le modeste porzioni di cibo che vengono servite, come fosse una colpa sua. Nelle sezioni dove sono presenti molti extracomunitari, e quindi dove pochi hanno la possibilità di comprare qualcosa, il lavoro del portavitto non lo vuole fare più nessuno: tutti si sfamano dal carrello e il cibo scarseggia. La gente protesta e chi subisce minacce e addirittura aggressioni fisiche alla fine è sempre lui.

Il sovraffollamento crea ulteriori conseguenze negative: i detenuti aumentano ma lo stesso non si può dire né per gli agenti penitenziari preposti alla sicurezza generale, né per le figure essenziali abilitate alla rieducazione. Non vedo come i tre educatori presenti alla reclusione di Padova, più due nuovi che ancora si devono ambientare, possano lavorare seriamente sulla riabilitazione della persona quando tutto si riduce a un unico colloquio annuo (se va bene) di dieci minuti. Dovrebbero essere in dodici. Fra poco ci ritroveremo con 300 detenuti in più e gli stessi educatori di prima, naturalmente.

E, se l’osservazione del detenuto sta scomparendo, allora la sintesi, ovvero la valutazione sul percorso dell’individuo, non sarà mai disponibile o mai davvero approfondita ed efficace. Il che impedisce successivamente al Magistrato di Sorveglianza di capire se la persona abbia compiuto o meno un cammino positivo nell’assunzione delle proprie responsabilità e se sia veramente pronta ad un possibile reinserimento nella società.

Da quello che vedo la galera si sta riducendo a una mera punizione dell’individuo, il che per me è sbagliato e inutile, ma per chi sta fuori potrebbe anche essere giusto. Però non è questo il punto: il punto è che il l’Ordinamento penitenziario garantisce al detenuto condizioni di vita umane. E l’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Il paradosso è che la società mi chiede di pagare il mio debito e mi prescrive le indicazioni su come farlo, ma poi è la stessa che per prima infrange le proprie regole.

Il fatto che un’alta percentuale di detenuti che scontano la pena in carcere fino all’ultimo giorno, torni poi a delinquere, dimostra, ma nessuno sembra accorgersene, che i penitenziari non sono luoghi ove si apprende a compiere scelte più rispettose della legge di quelle compiute in passato.

 

 

Sovraffollamento: è tutto più stretto, più sporco, più insopportabile

Schiacciati dalle difficoltà della vita quotidiana

Si può davvero fare una carcerazione riflettendo sugli errori del proprio passato, se il presente ti impone di occuparti solo della lotta per la sopravvivenza?

 

di Serghei Vitali

 

Comincio a convincermi che stiamo andando verso tempi molti rigidi, all’interno delle carceri italiane. Come detenuto mi sto accorgendo che giorno dopo giorno le difficoltà aumentano, aumentano i problemi, aumentano i detenuti e di contro diminuiscono gli spazi.

Ho passato molti anni e ne dovrò ancora trascorrere parecchi in carcere e, sebbene la carcerazione non possa certo considerarsi una passeggiata, mi rendo conto anche, però, che questa esperienza carceraria mi permette, o meglio mi permetteva, di recuperare la mia personalità, di riconsiderare la mia vita, e di prendere coscienza dei miei errori.

Ma le condizioni in cui oggi mi ritrovo a dover scontare la mia pena condizionano inevitabilmente anche il mio processo di cambiamento.

È da qualche mese che anche le condizioni di questo istituto peggiorano giorno dopo giorno: era un pezzo che si era iniziato a parlare anche di aumento di posti, per cui si sentiva dire che da due brande per cella saremmo passati a tre. Nella situazione di due persone per cella il sistema bene o male aveva retto, nonostante tutti gli spazi in comune fossero progettati e prospettati per un numero diverso. Ma da quando è cominciata l’aggiunta della terza branda è cambiato tutto, perché dividere una cella con questo piccolo spazio in tre persone, ognuna con personalità, abitudini e pretese diverse non è certo facile. La routine quotidiana è stravolta.

Essendo sempre stato abituato in cella a fare sport e a studiare, mi vedo costretto a rivedere queste mie abitudini per non disturbare i compagni di cella, e per loro è la stessa cosa, perché i pochi spazi che prima a fatica si riusciva a dividere in due adesso bisogna dividerli in tre. Quando uno si mette a scrivere non ci riesce perché l’altro sta guardando la televisione con il volume alto e quell’altro ancora parla, e anche quando uno vuole dormire non ci riesce per gli stessi motivi. Insomma, è difficile mettere d’accordo tre teste, che oltretutto sono le teste di persone che devono scontare 10, 15, 20 anni di galera.

Gli spazi in comune per tutti i detenuti si sono completamente stravolti, i passeggi che originariamente erano stati progettati per 25 persone ne hanno dovuto sopportare nel tempo 50, e ora si pretende di farli funzionare con 75 persone, cosi pure gli spazi dedicati all’igiene. Insomma tutto si complica, tanto che se venisse in visita al carcere l’Usl, dovrebbe lottare con se stessa per riuscire a giustificare una simile situazione, fosse anche per un periodo emergenziale limitato nel tempo. Nel frattempo, calano anche le possibilità di lavoro per i detenuti, vengono ridotte le ore dei lavoranti, e quindi degli addetti alle pulizie, perché non ci sono soldi, e le condizioni igieniche quindi vanno ulteriormente deteriorandosi, è tutto più stretto, più sporco, più insopportabile.

Non so proprio come si possa pretendere che una persona detenuta in queste condizioni possa fare una carcerazione utile, proficua per se stessa e per la società. Quando sei costretto a lottare per la sopravvivenza, le difficoltà quotidiane assorbono tutte le tue energie e non ti permettono di pensare ad altro. Né al tuo passato, su cui invece avresti bisogno di riflettere per non ritrovarti, all’uscita dalla galera, gli stessi problemi che avevi quando ci sei finito dentro, né al tuo futuro, perché sei interamente assorbito da un presente che non ti dà tregua.

 

 

Una emergenza che intasa ancora di più le celle

Le celle sono invase da simpatici e innocenti scarafaggi

Spuntano dappertutto e stanno diventando sempre di più, come se volessero promuovere una competizione demografica con i detenuti

 

di Gentian Germani

 

Il sovraffollamento, che ultimamente sta peggiorando di molto le condizioni di vita dei detenuti, ha messo in difficoltà anche l’amministrazione della Casa di Reclusione di Padova, che già prima di quest’ultima crisi, vista la carenza di personale e i tagli di risorse, faticava davvero a mandare avanti la baracca. L’elenco dei problemi aggravati dalla situazione di sovraffollamento sarebbe molto lungo, e come se non bastasse, ci si sono messi di mezzo anche gli scarafaggi. Spuntano dappertutto e stanno diventando sempre di più, come se volessero promuovere una competizione demografica con i detenuti.

Le celle, previste per una persona, già non concedevano lo spazio di movimento a due detenuti, mentre ora sono state riempite di un terzo ospite che dovrà per venti ore al giorno “rubare” un po’ di spazio da quello degli altri due coinquilini. In queste condizioni per muoversi si deve scendere dal letto a turni. Turni anche per andare in bagno o semplicemente per fare le pulizie della cella.

Le condizioni d’igiene e il caldo, già arrivato nella sua soffocante potenza, sono un invito a nozze per gli scarafaggi che, a differenza dei detenuti, hanno la liberta di muoversi indisturbati all’interno del carcere. Quando cala la notte e finalmente la quiete scende su questa “tomba vivente”, il silenzio viene disturbato dai rumori strani degli animaletti che in fila per uno, come in un film dell’orrore, invadono le celle.

Un giorno, mentre stavo per mettermi le scarpe, vedo degli scarafaggi scappare via velocemente. Si trattava probabilmente di una famigliola, vista la grandezza a scala dei diversi componenti. Ne ho beccato uno che dalla misura sembrava uno dei più giovani, e lì per lì ho pensato di schiacciarlo. Ma poi ci ho ripensato. Così, preso da un attacco di magnanimità, ho represso il desiderio di vendetta e l’ho messo in un bicchiere di carta che ho coperto con un cartoncino sul quale ho realizzato un piccolo foro per far entrare l’aria. Avevo il mio prigioniero ed ogni volta che l’agente passava a fare la conta di noi detenuti, io controllavo il bicchiere per vedere che lo scarafaggio non scappasse.

Comunque, a un certo punto successe qualcosa che animò il rapporto tra me e il nuovo inquilino della cella. Mentre lo guardavo dall’alto mi è sembrato di sentire una voce provenire dal fondo del bicchiere, che diceva “Ehi, perché mi tratti in questo modo? Non hai una scatola più grande e più dignitosa? Lo so che sono un animale fastidioso e ti faccio schifo, ma anch’io cerco di sopravvivere e ho bisogno di un po’ di spazio come te. Sono brutto e fastidioso, ma sono pur sempre un animale come tutti gli altri animali domestici che stanno nelle vostre case con i vostri figli!”. Non volevo credere alle mie orecchie. Era vero. Sono anni che noi detenuti soffriamo dalle ristrettezze degli ambienti in cui scontiamo la pena, e io, adesso che tenevo un prigioniero, mi disinteressavo delle sue condizioni. Preso dai sensi di colpa istintivamente ho afferrato una scatola di cartone, usata per tenere le scarpe, e ho trasferito il giovane scarafaggio in un posto più grande, spazioso e pulito. Il simpatico animaletto mi ha ringraziato del nuovo spazio concesso e ha iniziato a farmi un discorso sulle ragioni della sua detenzione. Infatti, a ben pensarci, la sua colpa era che aveva solo dormito una notte nella mia scarpa e solo perché non aveva un posto dove stare. In quel momento ho pensato ai posti più strani in cui dormono centinaia di persone che ogni giorno scappano da guerra e fame e a quanto assurde siano le leggi, che condannano e mettono in galera chi ha l’unica colpa della clandestinità. Mi sono sentito male e ho liberato subito l’innocente scarafaggio, che è corso fuori dalla cella, forse alla ricerca della sua famigliola.

 

 

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