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Il coraggio di difendersi con le parole e non con i coltelli

 

Un ragazzo di diciannove anni è stato di recente accoltellato, a Roma, da un altro ragazzo di poco più giovane, qualche giorno dopo un padre di famiglia è stato ammazzato con una coltellata in una lite per un parcheggio. A Varese un diciassettenne è stato massacrato a coltellate e poi finito a colpi di piccone. In carcere, purtroppo, di persone, provenienti da famiglie “perbene”, finite dentro per aver ucciso qualcuno in una rissa o per una vendetta, ce ne sono tante, straniere e italiane. Le loro testimonianze possono servire a far riflettere su quanta devastazione può portare l’abitudine a girare con un coltello per sentirsi più forti, più sicuri. Forse c’è davvero bisogno, come ha scritto Miriam Mafai, di “una cultura della mitezza, della pazienza, persino delle buone maniere”.

Ignoranza e prepotenza spingono ragazzi a girare con un’arma

 

di Maurizio Bertani

 

Le rivalità di oggi fra le giovani generazioni assomigliano molto alle rivalità di un tempo, quando si abitava in un paese, e si era in guerra con i paesi confinanti, certo anche allora non era uno scherzo, ricordo che usavamo archi fatti con le canne piegate e tenute curve da un filo da pesca di nailon, robustissimo, su cui innestavamo delle frecce d’acciaio, ricavate dalle stecche di vecchi ombrelli. Con questo arco artigianale ci si giocava il tutto per tutto in una guerra senza fine, e il pericolo di fare del male esisteva, tanto che più di un ragazzo in quella dissennata età adolescenziale ha perso un occhio in uno stupido gioco di ragazzini prepotenti, che non volevano neanche sentir parlar di avere un dialogo con chi ritenevano un nemico.

Eravamo negli anni 60 e dall’Inghilterra arrivavano le notizie di giovani bande che si fronteggiavano, a colpi di catene e coltelli, così noi, emuli dei nostri allora lontanissimi amici inglesi, ci fronteggiavamo allo stesso modo nelle sagre di paese. Dapprima tagliando le gomme dei motorini dei nostri cosiddetti nemici, poi più audaci spingendoci fino alla ricerca della rissa che fatalmente finiva a colpi di spranghe di ferro o catene, e arrivava anche all’uso dei coltelli, che lasciavano ferite e danni a volte molto seri in chi veniva colpito.

Ricordo ancora chiaramente quando una sera un ragazzo della nostra compagnia, mio amico, che aveva compiuto da poco 15 anni, nel prendere un pugno in pieno volto cadde all’indietro su una di quelle spranghe di ferro che fatalmente si era conficcata in terra e morì all’istante, il suo aggressore fu arrestato e condannato a sei anni di carcere da un tribunale minorile. Se li fece tutti, ricordo che uscì molto segnato e pieno di rimorsi per quella esperienza.

Ma noi continuavamo imperterriti con le risse che diventavano sempre più frequenti e più violente, come se non fosse successo niente, e così si andava ancora in giro per le sagre di paese con spranghe, catene e coltelli. Molti per fortuna crescendo hanno smesso e hanno trovato il loro posto nella società, chi lavorando, chi studiando, qualcuno è arrivato fino alla laurea, e da allora ha sempre condotto una vita normale. Qualcun altro però ha smesso con le spranghe, catene e coltelli, per spingersi ancora più in là, parecchi sono finiti in carcere per la loro esuberanza, o meglio per la loro stupidità, personalmente avevo smesso dopo aver visto morire quel ragazzino di 15 anni per niente, e ho cominciato a lavorare, ma poi anch’io sono finito in carcere 10 anni dopo, quando di anni ne avevo 25.

Ora quando leggo dei giovani d’oggi, che girano con il coltello in tasca pronti a usarlo al primo accenno di diverbio o di rissa, rivivo le mie stupidità adolescenziali, e rivedo quel ragazzo di 15 anni, e i suoi genitori piangere al suo funerale, e sento un brivido lungo la spina dorsale.

E allora mi chiedo: era proprio necessaria la stupidità della mia generazione di ieri? E ancora, è mai possibile che le giovani generazioni non abbiano imparato niente da quelle passate? È possibile che non si trovi in questo mondo il modo di risolvere i conflitti giovanili con l’intelligenza e non con l’ignoranza e la prepotenza?

Non avrei mai pensato di arrivare ad uccidere qualcuno

 

di Rachid Salem

 

Sono un ragazzo tunisino e, all’età di 17 anni, quando frequentavo la scuola al mio Paese, ho cominciato per la prima volta a portarmi un coltello in tasca. Non saprei spiegare il perché, forse per dimostrare di essere importante e per farmi rispettare.

Un giorno mi è capitato di litigare con alcune persone davanti alla scuola e ho avuto paura di essere picchiato davanti ai miei compagni, così ho tirato fuori il coltello per difendermi, e questi ragazzi, quando lo hanno visto, sono scappati via. Quel giorno mi sono sentito forte e coraggioso, pur non avendolo usato, e credevo di aver avuto successo davanti ai miei amici, ma non pensavo ancora alle conseguenze che sarebbero derivate da quel gesto, e dal fatto che da quel momento ho preso l’abitudine di portarmi sempre un coltello in tasca.

Anche quando sono arrivato in Italia, mi è rimasta questa pessima abitudine, e quando mi capitava di litigare anche per motivi banali, subito lo tiravo fuori, e cominciavo ad usarlo contro altri ragazzi. Non sono mai stato arrestato, né denunciato, solo perché sono stato fortunato! Ma fino a quando la mia cattiveria avrebbe fatto così paura da evitarmi una denuncia? Fino a quando le cose sarebbero potute andar sempre bene, sempre “lisce”?

Un giorno è successo che mi sono scontrato con un ragazzo tunisino come me, che aveva la mia stessa abitudine: entrambi non sapevamo risolvere i problemi in modo ragionevole, ma solo in maniera aggressiva con l’utilizzo del coltello, non curandoci delle possibili conseguenze. Questa volta sapevo benissimo che se gli facevo del male o era lui a farmene, la faida non sarebbe più finita. Per questo, dopo quella lite, ho pensato di usare un coltello più grande, portandolo con me tutti i giorni, nel timore di incontrare questa persona e non potermi difendere. E purtroppo è capitato che ci siamo di nuovo scontrati e nella colluttazione l’ho ferito in modo grave. Dopo tre giorni sono venuto a sapere che questo ragazzo era morto.

Non avrei mai pensato di arrivare ad uccidere qualcuno, ma quando si punta un’arma contro un’altra persona non si può illudersi che non succederà niente di irreparabile. Certo la mia intenzione non era quella di uccidere, io volevo solo dare una punizione, questo era quello che pensavo: ma il mio era un modo sbagliato di ragionare, perché ho tolto la vita a un’altra persona, rovinando due famiglie, quella della vittima e la mia, e ora mi trovo a scontare una pena di sedici anni di reclusione.

Portando un coltello in tasca diventi un candidato alla galera

 

di Elton Kalica

 

Da sempre, qui in carcere i “vecchi” narrano storie in cui il coltello ha un ruolo centrale nella vita di molti uomini, e anche nella morte. Sono storie terribili, molto simili a quella del diciannovenne accoltellato pochi giorni fa a Roma, o di quel diciassettenne massacrato a coltellate a Varese. Il filo rosso che le unisce è l’assurda violenza degli uomini. Ma anch’io, che tanto vecchio non sono, osservando le scene proposte dalle notizie di cronaca, ho la sensazione di averle già viste circa quindici anni fa, quando frequentavo il Liceo “I. Qemali” di Tirana, in Albania.

C’era appena stato il crollo del comunismo e le politiche di ristrutturazione economica avevano portato alla chiusura di tutte le attività statali. Così, la maggior parte dei disoccupati si era lanciata nel piccolo commercio, e ricordo che c’erano bancarelle a ogni angolo di strada. Il Paese non produceva più nulla da vendere, però qualcuno imparò subito che la Cina esportava merci anche per gli albanesi “confusi dalla libertà”, e così cominciarono ad arrivare i camion pieni di capi di abbigliamento, elettrodomestici e anche magnifici oggetti da regalo, tra i quali molti coltelli.

Se i coltelli a serramanico li avevamo visti solo nei film western, il libero mercato provvide a fare arrivare una lunga bancarella piena di armi da taglio a solo cento metri dalla scuola. D’altronde, la transizione all’economia di mercato e la povertà avevano portato nella nostra città migliaia di persone scappate dalle zone di montagna, provocando in noi una strana sensazione di insicurezza. Molti giovani, provenienti da quelle zone in cerca di lavoro, finivano per gironzolare intorno alla scuola e noi eravamo convinti che dessero fastidio alle ragazze, il che ci aveva legittimati a comperarci dei coltelli.

Alle compagne di classe dicevamo che le lame servivano per difendere loro dai montanari rozzi e aggressivi, invece nel giro di poco tempo il coltello diventò l’unico modo per risolvere i litigi tra noi studenti, ragazzi per bene, figli di intellettuali e di ex-dirigenti del partito. Certo, la regola non scritta era che si colpiva soltanto dai glutei in giù, ma quello stile di vita ci ha segnati per sempre. Ci ha modificato il comportamento e deviato la ragione: se è vero che soltanto pochi ragazzi della mia scuola sono arrivati a darsi realmente le coltellate, è altrettanto vero che, finito il liceo, molti hanno continuato a usare la violenza e parecchi hanno finito per uccidere davvero o per essere uccisi. Ma della mia classe c’è anche chi come me, senza uccidere, è arrivato comunque in carcere perché anche solo portare in tasca un’arma ti scombussola tutti i valori, e quando accetti l’idea che puoi anche uccidere, ogni altro crimine diventa tollerabile.

Non so se sia un diffuso sentimento di insicurezza che porta oggi molti ragazzi italiani a tenere un coltello in tasca, oppure se sia una questione di moda. Tuttavia, la galera è la prova che quando si esce di casa armati, per difesa o per attacco, spesso si finisce per fare male a qualcuno, rovinando vite e famiglie che non hanno colpe.

L’esuberanza, l’emulazione, di certi comportamenti trasgressivi

 

di Sandro Calderoni

 

Mi sono sempre chiesto perché un coltello possa, in chi lo porta con sé, creare un senso di potenza e audacia, e come mai incuta più terrore di qualsiasi altra arma in chi se lo trova puntato contro. Queste domande me le sono poste fin da ragazzo, quando l’avere in tasca una lama mi dava una sensazione di sicurezza e di incosciente spavalderia, e l’esibirne il possesso verso i miei amici e i ragazzi che ritenevo ostili nei miei confronti, mi dava una sorta di potenza e tanto coraggio in più; e viceversa quando mi è stata puntata contro devo dire che la sensazione che ho provato è stata veramente forte, la voce mi si è strozzata in gola, e l’immagine che mi è balenata nella mente in quel momento è stata quella di una lama fredda e silenziosa che penetrava nelle mie carni senza che io riuscissi a opporre la minima resistenza.

Forse è proprio il fatto che un coltello, a differenza di un’arma da fuoco, non emette nessun tipo di suono, e il terrore che emerge nella mente è proprio dettato da quel silenzio cupo e sordo, quello di un serpente velenoso che colpisce velocemente senza fare rumore. Sono riflessioni che a distanza di tempo mi sono tornate alla mente sentendo le notizie di fatti di cronaca, riguardanti episodi di sangue che hanno come denominatore comune le risse con coltelli.

Ricordo che l’esuberanza, l’emulazione, l’esaltazione di certi comportamenti trasgressivi facevano parte della mia vita, portare un coltello mi permetteva di distinguermi e di prevalere sugli altri, e se c’era un diverbio o un conflitto da regolare, era quasi certo che il coltello spuntava fuori. Fortunatamente quelle volte che è successo i miei avversari hanno sempre avuto il buon senso di non voler andare oltre, perché se fosse successo il contrario non posso dire con certezza come sarebbe andata a finire, anche se a mente lucida giuravo sempre che non avrei mai usato quel coltello. Pensandoci ora e rivedendo il ragazzo che ero, posso solo dire quanto incosciente e stupido sono stato, perché quando si è coinvolti in situazioni violente, in cui la ragione viene a cadere e prevalgono l’istinto, la rabbia, quella furia che non ti permette di essere lucido e razionale, tutto si fa confuso, la cattiveria e l’aggressività in quei momenti sono più forti di tutto, e qualsiasi cosa trovi a portata di mano, sei pronto ad usarla contro un altro, che in quei momenti probabilmente ha i tuoi stessi sentimenti.

Ma quando poi la situazione si è capovolta e mi sono trovato con una lama puntata contro, perché quasi inevitabilmente se sei portato a fare certe cose, prima o poi ti trovi anche a subirle, proprio io che pensavo di essere tanto furbo, mi sono reso conto improvvisamente di quanto banale e stupido sia questo “gioco”. Tutte le mie presunzioni, le sicurezze che un coltello mi poteva dare mi si sono rivoltate contro, costringendomi a rendermi conto che quell’oggetto ti dà solo una parvenza di sicurezza, e alla fine comunque le conseguenze, sia se il danno lo procuri che se lo subisci, sono sempre drammatiche.

Quel coltellino gli è costato pochi soldi e ventidue anni di galera

 

di Maher Gdoura

 

Leggere sul giornale la storia di un giovane padre di famiglia che è stato ucciso con una coltellata in una banale lite per un parcheggio mi ha fatto ricordare la drammatica storia di un mio amico, che a 23 anni ha comperato un coltello che costava diecimila lire, ma che in realtà ha pagato con 21 anni di galera. Perché a volte si frequentano delle compagnie sbagliate e si ritiene “normale” avere un coltellino magari con il portachiavi, per sentirsi “figo”, alla moda, senza rendersi conto delle conseguenze che possono nascere dal fatto di possedere un’arma.

Stando in cella insieme, lui mi ha raccontato la storia che l’ha portato in carcere. In pratica, un giorno un suo amico aveva avuto uno scontro per stupidi motivi con delle persone, che era degenerato in una rissa. In questa rissa un ragazzo gli aveva fatto un taglio profondo sul viso, un vero sfregio, e da allora lui non pensava ad altro che a vendicarsi e a restituire il taglio ricevuto. Così aveva deciso di chiedere al mio compagno di cella di aiutarlo a dare una lezione a chi l’aveva ferito e gli aveva deturpato la faccia. Sono andati allora in un negozio di ferramenta, hanno comprato due coltelli da poche migliaia di lire l’uno e sono partiti per fare la loro vendetta.

Però il ragazzo che volevano punire apparteneva ad una banda, e quando lo trovarono non era solo ma con altri amici che, guarda caso, erano tutti armati di coltelli. Ci fu una violenta rissa con calci, pugni e coltellate, con una tale confusione che nessuno era riuscito neppure a capire chi aveva colpito e da chi era stato colpito. Alla fine, tutti sono scappati, ma un ragazzo è rimasto a terra. Il mio compagno di cella mi ha raccontato di essere andato a farsi medicare senza nemmeno immaginare di essere stato lui ad aver ucciso uno di loro, e solo dopo molte ore la notizia uscì su un giornale e lui si rese conto della tragedia. Seguì ben presto l’arresto, il carcere, e poi il processo conclusosi con una condanna a 21 anni di carcere. Ora sono 12 anni che è in galera, da quell’episodio non è più riuscito a riprendersi e continua a dirsi che, senza quel maledetto coltello a portata di mano, non sarebbe mai giunto a togliere la vita ad un altro essere umano. Ma se giri con un coltello, non puoi fingere di pensare che lo userai solo per minacciare, o al massimo per “dare una lezione” ai tuoi avversari. Prima o poi, succede sempre qualcosa che va oltre le tue intenzioni, e poi non si può più tornare indietro.

 

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