10 anni dentro

 

Matriarcato in carcere?

Ci sono donne capaci di mettere in riga anche i più duri

Noi detenuti siamo un po’ come un paese in guerra, che solo quando

ha mandato ormai tutti gli uomini al fronte, e nelle fabbriche e negli ospedali

vanno solo le donne, allora capisce che senza di loro si muore

 

di Elton Kalica

 

Credo sia abbastanza riconosciuto il maschilismo di molti detenuti, e anche il fatto che siamo pieni di noi, convinti di essere persone forti, pronti ad affrontare ogni pericolo a rischio anche della nostra stessa vita. Solo che momentaneamente abbiamo un piccolo problema: siamo un po’ costretti a stare in gabbia. D’altro canto, anche le persone libere hanno a volte di noi una immagine pressoché simile e ci credono uomini duri, abituati a imporci con la forza e sempre intolleranti ad ogni regola o restrizione. Forse è proprio così, e questa caratteristica dei detenuti non interessa solo l’Italia ma un po’ tutte le carceri del mondo; forse siamo finiti qui proprio per il nostro carattere ribelle ed orgoglioso. Di certo, se questa è la regola del detenuto “standard”, esiste anche una straordinaria eccezione che si trova proprio nella nostra redazione di Ristretti Orizzonti dove, da dieci anni, a comandare con coraggio e autorevolezza noi detenuti è una donna.

Qualcuno potrebbe pensare che, se ciò accade, è perché noi siamo un gruppo di detenuti particolari, dalla mentalità aperta, e che quindi siamo poco rappresentativi. Però, anche se cercare le ragioni nella tipologia dei detenuti redattori è comprensibile – basta pensare che ancora oggi sono molte le persone che guardano con sfiducia le capacità delle donne ai posti di comando, credendole tutte ugualmente inadeguate a occupare posizioni dove servono autorità e durezza – invece bisogna sapere che la nostra redazione è molto eterogenea. Ci sono persone provenienti da ogni parte del mondo, aderenti a diverse religioni, differenti culture e appartenenti a tutte le fasce d’età. Ma stranamente siamo tutti disposti a riconoscere l’intelligenza e la determinazione di una donna particolare.

Ornella non è solo il solito direttore di un giornale al quale importa assegnare compiti, controllare il rendimento o verificare i risultati. Se lei decide di usare la sua autorevolezza lo fa per costringere tutti noi a discutere. E questo ce lo impone con tutte le sue forze, perché sostiene sempre che è dal confronto che deve nascere ogni numero del giornale. Spesso si finisce anche per litigare poiché magari a qualcuno non va bene l’argomento, a volte gli animi si accendono e si sentono le urla fino alle celle del secondo piano, ma siamo convinti che questo sia il prezzo che dobbiamo pagare.

La cosa più importante è che Ornella e le volontarie che lavorano al giornale non si tirano mai indietro, di qualsiasi cosa si discuta, perché nessun argomento deve essere snobbato, o trascurato perché troppo complesso e delicato, ma va affrontato ragionando insieme: un imperativo, da cui non si scappa, è che bisogna ragionare collettivamente per riuscire a renderci conto di quello che ci è successo e continua a succedere intorno a noi, e solo così forse arriveremo anche ad assumere coscienza del nostro destino e delle nostre responsabilità.

Accade pure che questo chiodo fisso di volerci far aprire gli occhi non viene capito, succede che qualcuno si stringe nelle spalle consigliando di lasciar stare perché non vale la pena discutere, ma niente scoraggia mai queste donne che il giorno successivo ritornano ancora più cariche di argomenti e determinate a metterci in riga e farci cambiare idea, se necessario.

 

Volontarie coraggiose che costantemente presidiano la galera

 

Non so se nell’antichità ce ne sono state molte, di società basate sul matriarcato; non so se l’antica e assurda credenza, secondo cui le donne sono per natura inferiori agli uomini, sia da imputare del tutto alle religioni; certo c’è una grossa responsabilità di noi uomini, che storicamente abbiamo voluto avere il controllo assoluto sulle nostre donne, ma io di una cosa sono sicuro: le donne sono state le prime ad essere discriminate. Sono state umiliate e maltrattate molto prima degli schiavi, prima degli ebrei, prima dei rom e prima di noi immigrati. E allora noi che siamo i più emarginati dovremmo capire meglio di chiunque quanto hanno sofferto, e quanto rispetto invece meritano.

Se oggi nel carcere di Padova si sta un po’ meglio è proprio grazie a tutte queste volontarie coraggiose che costantemente presidiano la galera, pronte a dare battaglia per i nostri diritti. Posso affermare che basta questo per convincere chiunque che la perdita più grande dell’essere umano è stata quella di aver impedito per secoli alle donne di agire in libertà.

È triste però pensare che un uomo debba entrare in galera per capire l’importanza delle donne. Noi detenuti siamo un po’ come un paese in guerra, che solo quando ha mandato ormai tutti gli uomini al fronte, e nelle fabbriche, negli ospedali e a raccogliere le patate vanno le donne, allora capisce che senza di loro si muore. Anche noi, una volta finiti qui dentro siamo stati costretti a vedere come le nostre madri, le nostre sorelle e le nostre mogli sono andate a lavorare per portare la pagnotta a casa, e portarla, in un certo senso, anche a colloquio. E allora guardiamo Ornella e tutte le volontarie che entrano qui e ci rendiamo conto che, in fin dei conti, la nostra forza fisica non ci è stata tanto utile nella vita, e che loro, le donne, senza avere bisogno della nostra forza sono riuscite a vivere meglio di noi e sono in grado anche di prendersi cura di noi.

Persone “libere” in una redazione in galera

Ci sono carceri dove la vita detentiva è di una inutilità terrificante

Per questo sono fermamente convinto di aver fatto la “scelta” giusta,

quando ho deciso di farmi coinvolgere nella redazione di Ristretti Orizzonti

e nelle sue interminabili, infuocate discussioni

 

di Marino Occhipinti

 

Una delle prime cose che chiesi appena arrivato in questo carcere, nell’ormai lontano 2000, fu quella di partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti, rivista che avevo già conosciuto nel precedente carcere e che mi appassionava soprattutto per i toni sobri e mai lamentosi. Avevo avuto infatti da subito la sensazione, quando me ne era capitata tra le mani una copia, che leggendola si respirasse una voglia di non parlare solo agli addetti ai lavori, ma di far “assaggiare” la galera anche a chi sta fuori, arrivando alla radice dei pregiudizi e della cattiva informazione e cercando di dare a tutti gli strumenti per capire una realtà così complessa come quella della vita detentiva.

A causa dell’isolamento diurno (conseguente alla condanna all’ergastolo) al quale ero sottoposto nel 2000 non potei essere ammesso, e riuscii a far parte della redazione soltanto a partire dal marzo del 2002, ed oggi, che dopo oltre sei anni sono il più “vecchio” qui dentro, sono fermamente convinto, ora più di allora, di aver fatto la “scelta” giusta, sempre se di scelta si può parlare, visto che in carcere il potere decisionale dei detenuti è alquanto limitato.

Tutti quelli che frequentano attività nelle aule adiacenti alla nostra redazione si meravigliano sempre che, dopo anni, noi di Ristretti abbiamo ancora tante cose da dirci, quando stiamo lì seduti intorno a un tavolo a discutere con accanimento, a litigare, a preparare un nuovo numero del giornale. Ma a meravigliarsi spesso sono anche le persone che vengono da fuori, gli ospiti, i nuovi volontari, che scoprono così che in carcere esiste una specie di “laboratorio sociale” dove ancora le persone hanno il gusto di confrontarsi, magari anche di scontrarsi, di fare in qualche modo cultura. Quello che conta è che, alla fine di ogni riunione, anche quando gli argomenti dibattuti sono stati particolarmente spinosi e scottanti, e quando di conseguenza gli animi si sono particolarmente accesi perché ognuno è “libero”, almeno in questo, di esprimere le sue riserve e le sue titubanze, spesso si rientra in sezione con un modo di vedere le cose nuovo, mai preso in considerazione prima.

Ed è proprio grazie a questo percorso di condivisione e di confronto, e alle continue idee della vulcanica Ornella, che sono nate molte delle nostre iniziative. Penso al progetto carcere-scuole, che ogni anno vede lievitare l’adesione degli istituti e quindi degli incontri, un’iniziativa laboriosa e complessa che porta i detenuti in permesso nelle scuole e gli studenti in visita in carcere. Non allo zoo, ma in carcere, a parlare con chi i reati li ha commessi, e spesso in modo veramente grave e irreparabile, in un percorso di “scoperta” e di avvicinamento a qualcosa – la prigione, i reati e chi li ha compiuti – con cui quasi nessuno, nella sua vita, pensa di avere mai a che fare.

 

Dopo anni di ostinato silenzio sulle mie responsabilità sono stato “costretto” a parlare del mio passato

 

Spesso sento dire che gli incontri sono importanti per gli studenti, “che così imparano quanto a volte possa essere più facile di quel che si pensa finire in prigione”, e non so quanto di vero ci sia in questa considerazione, ma sono sicuro di quanto questo percorso sia invece importante per noi. Anche quest’anno siamo arrivati alla fine degli incontri, una trentina, completamente sfiniti, “svuotati”, perché ogni volta non è mai come quella precedente, ogni volta le domande sono inaspettate, diverse, e la tensione e le emozioni anche. Quattro anni fa, all’inizio del progetto, ogni volta che ci veniva chiesto cosa avessimo fatto, spaventato dal giudizio dei ragazzi, mi trinceravo nel silenzio. Ora mi sento comunque a disagio nel rispondere che sono in carcere per omicidio e che la mia condanna è l’ergastolo, e la paura che gli altri mi vedano “solo” come un assassino e non come persona non è scomparsa del tutto, ma è pian piano scemata; e mi sembra un bel passo in avanti che questi incontri siano serviti agli studenti, ma soprattutto a me stesso, che dopo tanti anni di ostinato silenzio sulle mie responsabilità sono stato “costretto” a parlare del mio passato, dei miei reati, e quindi a fare i conti con quella parte di me stesso che più mi fa male.

Alcuni giorni fa, durante una delle consuete discussioni in redazione, un mio compagno ha detto che lui preferirebbe un carcere senza attività ma con le celle aperte, e col campo e la palestra tutti i giorni. Io l’ho vissuta per sei anni, una detenzione come quella che vorrebbe lui, e la ricordo di una inutilità terrificante. Dal 1994 al 2000 sono stato in una galera completamente “impermeabile” alla società esterna, dove si viveva nell’ozio più totale. È vero che le celle erano aperte dalla mattina alla sera, così come la palestra, per cui giocavamo continuamente a calcetto oppure a tennis, e anche se fisicamente ero sicuramente più in forma di adesso, senza un filo di grasso e con i pettorali belli gonfi, non tornerei assolutamente indietro.

Ognuno vede la galera con i suoi occhi, ed ognuno ha bisogno di scontare la propria condanna con modalità che possono anche variare a seconda di quel che si è commesso. Tanto per intenderci, io che sono in carcere per omicidio, probabilmente avverto la necessità di impegnarmi in qualcosa di diverso rispetto a chi sta scontando una pena per furto, per rapina o per spaccio di stupefacenti. Non è quindi per spirito di contraddizione che non condivido il parere del mio compagno secondo il quale è meglio una galera senza attività ma “aperta” nel suo interno, evidentemente abbiamo soltanto delle necessità interiori diverse, che mi hanno portato, in questi sei anni, a non “perdere” nemmeno una volta la redazione in cambio di un’ora “d’aria” o di due ore di bicipiti e addominali, e la mia “scelta” è stata tutt’altro che un sacrificio.

Ristretti Orizzonti è diventato forte, consolidato, credibile, ed è soltanto questo che per noi conta, e che mi spinge a provare un senso d’orgoglio per il lavoro che siamo riusciti a fare tutti insieme, detenuti e volontari, senza mai lasciarci scoraggiare dalle difficoltà e dalle incomprensioni che naturalmente non sono mancate, come sempre accade nelle cose della vita. Oltre a rendermi la galera più sopportabile, Ristretti Orizzonti mi ha insegnato quanto importante sia il confronto con gli altri per facilitare lo sviluppo di una coscienza critica, ma anche per crescere culturalmente e umanamente. Considerazioni che si racchiudono perfettamente nel convegno di ascolto delle vittime di reato che abbiamo organizzato quest’anno, dove, nella palestra del carcere, a parlare con noi e con 600 persone venute da fuori, c’erano delle vittime di crimini pesantissimi: Olga D’Antona, Silvia Giralucci, Giuseppe Soffiantini, Manlio Milani e Andrea Casalegno.

È stata una vera lezione di vita per noi, ho visto miei compagni condannati per omicidio, considerati dei veri “duri”, piangere nell’ascoltare le loro testimonianze. È stata una giornata che ha lasciato un segno profondo in tutti i partecipanti, e l’abbraccio con Olga D’Antona, da solo, è bastato a “ripagare” di tutte le fatiche chi, in questi dieci anni, si è impegnato affinché Ristretti Orizzonti, e tutte le sue attività, diventassero una realtà davvero importante sia per chi le organizza e sia per chi, a qualsiasi titolo, vi partecipa.

Dal lavoro frenetico in redazione alla gestione del nostro altrettanto frenetico sito

Tanto lavoro “matto e disperatissimo”

L’impegno nella redazione in carcere è stato enorme,

ma soltanto fuori ho potuto maturare delle riflessioni sui miei reati

 

di Francesco Morelli

 

Dieci anni, accidenti! La prima metà dentro, la seconda dentro-fuori, proprio grazie ai “benefici” che adesso minacciano di togliere. Dieci anni di tanto lavoro, dentro “matto e disperatissimo” (sì, leopardiano), fuori mano a mano più lucido. Di dolore affogato e, allo stesso tempo, di pena alleviata, grazie al lavoro in redazione e alla possibilità di cominciare gradualmente ad uscire.

I giudici oggi possono scrivere “percorso positivo”, ma soprattutto io sto meglio, ho imparato a vedere e accettare i limiti (imposti dalla salute, oltre che dalla legge), sono diventato consapevole di portare addosso una “responsabilità morale” che durerà per sempre, anche quando quella penale sarà esaurita.

Attraverso il lavoro con Ristretti ho cominciato “presto” ad uscire dal carcere: dopo “appena” 10 anni, su 30 di pena. Qualcuno lo giudicherà un altro scandaloso esempio di “incertezza della pena”, eppure soltanto fuori ho potuto maturare delle riflessioni sui miei reati senza essere condizionato dal “ricatto” del sistema carcerario (se dimostri ravvedimento esci, sennò rimani dentro). Senza contare che da detenuto le privazioni sono tali e tante (dagli affetti, alla salute, alla mancanza di soldi e all’impossibilità di guadagnarne che ti costringe a dipendere dalla famiglia) che è forte il rischio di sentirsi “vittime”, di convincersi di pagare ogni giorno un prezzo eccessivo o comunque di “avere saldato” il proprio “debito” con gli anni di detenzione “sofferti”.

Dunque, dopo 3 anni di permessi, 2 di lavoro esterno, 2 di detenzione domiciliare, oggi ho ritrovato il cosiddetto “posto nella società”, cioè riesco a guadagnarmi da vivere (ma solo perché, occupandomi del sito internet di Ristretti, posso lavorare in casa... e mica tutti i detenuti domiciliari sono “furbetti”, o politici, o professionisti caduti in disgrazia, che di solito non corrono il rischio di morire di fame, e come dovrebbe campare chi è condannato a stare in casa 21 o 22 ore al giorno, magari per 5 anni di seguito?).

Per fortuna io tele-lavoro, passando costantemente al setaccio il web alla ricerca degli articoli che poi vanno a riempire il “Notiziario quotidiano dal carcere”: di media 20 notizie al giorno, 6 giorni la settimana, quindi circa 6.000 “pezzi” all’anno. Un servizio notevole, mi pare, e infatti – anche grazie al fatto che è a disposizione di tutti gratuitamente – in pochi anni gli utenti della newsletter si sono decuplicati.

Rispetto a quando ero redattore-detenuto scrivo molto di meno, sia perché avrei poco tempo per farlo, sia perché preferisco lo facciano i compagni rimasti “dentro”, che ovviamente riescono meglio di me a tradurre in parole quelle situazioni e quei sentimenti “carcerari” che io non sento più “nella pelle”, anche se emotivamente li condivido e li comprendo in tutte le loro sfumature. Posso datare con esattezza il momento in cui la galera mi è “uscita dalla pelle”: lo scorso autunno, quando ho smesso di soffrire “d’insonnia da libertà” (nei permessi-premio ho passato anche una settimana senza sonno, mentre in cella – pur sulla branda scomoda e con il rumore dei controlli notturni – dormivo a sufficienza).

Mentre ero in articolo 21 (lavoro esterno) non c’è stato questo passaggio, non avevo la percezione di vivere una “misura alternativa” vera e propria ma solo un “prolungamento” del carcere, che continuava ad esserci, fisicamente, prepotentemente, a condizionare pensieri e azioni. Oggi è più un fardello, ma per contropartita si è spostato nella parte inconscia, ha riempito i miei sogni di “perquise”, “matricole” e “concellini”. In carcere sognavo sempre la vita libera precedente alla detenzione, ma non i reati che mi ci avevano portato. Adesso sogno anche i reati, oltre al carcere, e questo naturalmente comporta il “pensarci”, il rifletterci da sveglio.

Per questo prima ho parlato di “responsabilità morale”, non so se un giorno mi sentirò un po’ sollevato anche da questa, ma per adesso c’è, la vivo e cerco di darle una risposta anche attraverso la passione per un lavoro utile a molta gente e che consente di essere presenti nella vita sociale “facendo passare”, discretamente, un certo messaggio: ogni giorno leggo 40-50 articoli e ne seleziono una ventina in base a un criterio soprattutto “estetico”, perché, come dice il poeta svedese Stig Dagerman “La potenza delle parole è temibile, ma chi costruisce prigioni si esprime sempre meno bene di chi costruisce libertà”.

Da Ristretti allo sportello di “Avvocato di Strada”

Ristretti: un sogno realizzato

Ci sono cose che forse possiamo raccontare solo noi,

che il carcere lo conosciamo veramente sin nelle sue viscere

 

di Nicola Sansonna

 

Riuscire a parlare alla gente di temi impegnativi, e di cui spesso non vuole neanche sentir parlare, con un taglio attento, preciso, ma anche aperto all’autoironia: questa era la scommessa che dieci anni fa abbiamo fatto, e penso che l’abbiamo anche vinta.

Ricordo sempre con gioia il primo incontro che ebbi con Ornella Favero, nell’affollatissima aula nel carcere di Padova, tra ragazzi di tutte le etnie intenti a ritagliare e selezionare articoli da pubblicare nella rassegna stampa, e poi i primi incontri, le prime discussioni. La considerazione che ci fece muovere fu proprio il fatto che, leggendo quegli articoli inerenti il carcere, ci rendevamo conto che la realtà veniva continuamente distorta, manomessa, adattata forse ai gusti dei lettori.

Sul carcere fanno notizia sangue e sesso. Scandali, notizie truculente. Non interessa ad un giornalista “normale” scrivere di un laboratorio di teatro di gran qualità, dei corsi che si tengono, dei sacrifici che fanno i detenuti per seguirli, spesso rinunciando alle ore all’aria aperta, dell’impegno degli agenti e degli operatori che gestiscono le attività, del grandissimo ed insostituibile lavoro del volontariato. Tutto questo pensavamo che avremmo potuto raccontarlo solo noi, che il carcere lo conosciamo veramente sin nelle sue viscere. Lo abbiamo fatto grazie alla fiducia che siamo riusciti a conquistarci, e abbiamo potuto così dare il nostro apporto alla conoscenza di un mondo sovente racchiuso in se stesso, con i suoi riti, le sue gerarchie, i suoi punti di debolezza e di forza. Lo abbiamo fatto, e credo bene, e non è un’autocelebrazione ma la constatazione di fatti precisi, chi ci legge sa dei convegni a livello nazionale che organizziamo ogni anno e dell’interesse che suscitano, sa dell’impegno che c’è nell’essere sempre sulla notizia con approfondimenti, con riscontri incrociati, pur dovendo operare, cercare le notizie, approfondirle, verificare le fonti stando dentro a una galera.

Un punto di forza del nostro lavoro sono poi le storie raccontate da uomini e donne detenuti, uno spaccato di vita dura, dolorosa, faticosa che ha fatto da sfondo, insieme alle nostre ricerche, come quella sui suicidi in carcere, ad un gran numero di tesi di laurea.

Io oggi, dopo trent’anni, ho chiuso con la “mia” galera, ma ancora mi occupo di quella degli altri: lavoro infatti allo Sportello di Avvocato di Strada, e siccome il travaso dal carcere alla strada è continuo, incontro tanti ex detenuti e li aiuto a cercare lavoro e a risolvere i problemi del “dopo carcere”, che sono davvero una marea. Perché il carcere, per quanto cerchi di scrollartelo di dosso, ti resta sempre lì, attaccato, e non te ne liberi mai del tutto.

Ristretti è ormai una macchina rodata, anche se abbiamo bisogno ora come allora, e anche di più, di essere sostenuti con abbonamenti e sottoscrizioni. I risultati comunque sono importanti, e si vede. Il sito di Ristretti è il più visitato sul tema del carcere e delle pene, la nostra rivista si è ormai faticosamente, millimetro per millimetro, conquistata uno spazio non da poco a livello nazionale nel campo carcerario.

Questo lo abbiamo potuto realizzare sì grazie al nostro impegno, ma soprattutto grazie ad Ornella e a quanti ci hanno sostenuto e hanno creduto in noi e in questo progetto. Personalmente sono orgoglioso di far parte “da sempre” della Redazione.  

Il punto di vista del nostro “vignettista per forza”

Fare in modo che il carcere, se ci deve essere, abbia un senso

Perché, così come è ora, il carcere genera esso stesso vittime,

ed è da questo dato di fatto che bisogna partire

 

di Graziano Scialpi

 

Sono passati dieci anni eppure ricordo la prima volta che ho avuto tra le mani Ristretti Orizzonti come fosse ieri. La memoria in carcere tende a comportarsi ancora più stranamente del solito. Forse saranno le giornate inesorabilmente uguali a far sì che ogni cosa che esce minimamente dall’ordinario, in assenza di qualsivoglia “concorrenza”, si fissi senza ostacoli negli archivi del nostro cervello… forse sarà qualcos’altro… fatto sta che quell’episodio si è tatuato indelebilmente nella mia mente.

Come dicevo era una qualsiasi mattina di galera, quando l’agente in servizio nella sezione mi disse che dovevo andare dall’educatrice. Non avevo chiesto io l’incontro, ma all’epoca (1998) il carcere non era ancora così sovraffollato e, anche se oggi pare impossibile, incontrare e parlare con gli educatori era una cosa normale e frequente. Il massimo che ho dovuto attendere tra la “domandina” di colloquio e l’incontro è stato una settimana. E a volte mi chiamavano loro, così… giusto per sapere come andava e se c’erano problemi. Per cui mi diressi verso l’ufficio senza patemi d’animo. Mi ero appena accomodato sulla sedia davanti alla scrivania, quando la mia educatrice, la dottoressa Bonuomo, mi porse un giornale e mi disse più o meno: “A Padova i detenuti hanno fatto questo giornale. Mi sembra una buona idea. Lo guardi, se lo studi. Lei è un giornalista e magari riusciamo a fare un giornale anche noi”. Quindi mi congedò e io me ne tornai in cella stringendo tra le mani il primo numero di Ristretti Orizzonti.

Se dicessi che ho letto avidamente tutti gli articoli e che me li ricordo benissimo mentirei. L’unica cosa che mi colpì è che uno dei redattori si chiamava Morelli. Lo ricordo perché anche uno dei capiservizio del giornale “regolare” per cui avevo lavorato si chiamava Morelli e mi chiedevo se per caso tra i due ci fosse una qualche parentela. Per il resto, lo ammetto, non ricordo niente, e ricordo pochissimo anche dei numeri successivi che l’educatrice ha continuato a passarmi con regolarità. Che posso dire? Ero “fresco” di galera. O meglio, ero dentro da più di un anno, ma il primo anno lo avevo passato in isolamento, una “dimensione” a sé stante. E solo da poco ero passato nella sezione “comuni”, cominciando a confrontarmi con la vera vita del carcere e le sue problematiche, tipo la convivenza con gli altri galeotti, per citarne solo una. Inoltre ero nel pieno dei processi e stavo facendo i conti con il mio reato e la nuova esistenza che mi si prospettava davanti. Diciamo che, all’epoca, avevo altro per la testa e che le problematiche trattate da detenuti definitivi con alle spalle parecchia galera, erano lontane dal mio ancora ristretto orizzonte.

Comunque ho continuato a leggerlo, così come è andata avanti l’ipotesi di fare un giornale anche nella Casa Circondariale di Trieste. Dopo circa un anno, venni incaricato dalla dottoressa Bonuomo di stendere un progetto da sottoporre al ministero. Il progetto venne approvato e furono stanziati i fondi necessari. Nell’estate del 2000, la direzione acquistò i computer, le stampanti e il software necessario alla grafica e all’impaginazione. Fu individuato un gruppo di detenuti che avrebbe costituito il nucleo della redazione e venne organizzata una serie di corsi di scrittura creativa, scrittura giornalistica, grafica e altri propedeutici alla realizzazione di un giornale. Venne escogitato anche il titolo provvisorio: “Captivi” e si cominciarono a scrivere i primi articoli d’esercitazione. Di questi ricordo bene i temi. Era l’estate del 2000 e il nuovo millennio aveva portato come regalo il sovraffollamento. Gli ospiti del carcere di Trieste, in poche settimane, passarono da 80 a oltre 200, sconvolgendo la vita dell’istituto. Si ricominciò a parlare di affettività e relative “celle a luci rosse”. Il Papa chiese al Parlamento un gesto di clemenza. E ricordo bene i politici che, a quelle parole, non applaudirono, ma girarono la faccia con la stessa aria disgustata che avrebbero rivolto a un lavavetri che avesse osato disturbarli al semaforo. E fu proprio a Trieste, quell’estate del 2000, che scoccò la scintilla della protesta che in pochi giorni si estese a gran parte delle galere italiane, con battiture delle sbarre, scioperi della fame e qualche incendio per fortuna senza conseguenze… Ed era su questi temi che scrivemmo i primi articoli di esercitazione. Avevamo persino trovato un bravo disegnatore che sarebbe stato in grado di tradurre graficamente l’idea per qualche vignetta. Insomma, quel primo numero di Ristretti aveva messo in moto un meccanismo incredibile, incredibile per la realtà di un piccolo carcere di periferia.

Era ormai tutto pronto, stavamo per partire con il primo numero, ma, invece del giornale a partire fui io. Era il 3 gennaio del 2001 (questo lo ricordo perché era il mio compleanno) quando preparai in fretta e furia armi e bagagli (be’, diciamo solo i bagagli) per un trasferimento urgente nel temutissimo Tolmezzo, che aveva una pessima fama di carcere punitivo. Un effetto del sovraffollamento. Avevo fatto il primo grado e l’appello. La Cassazione era a Roma, quindi ero tra quelli che si potevano spostare senza problemi.

 

Ricordo tutte le discussioni e tutte le litigate, e ricordo anche cosa è nato da quelle litigate

 

Durante l’anno trascorso a Tolmezzo (che alla prova dei fatti non era poi così terribile) ho fatto un po’ di tutto: ho seguito un bellissimo corso di ortofloricultura, ho ottenuto un diploma di allevatore di bachi da seta, per sfatare il mito che l’uomo bianco, e io in particolare, non ha senso del ritmo, avevo iniziato persino un corso da percussionista. Però non leggevo più Ristretti Orizzonti, perché non c’era un’educatrice a passarmelo e non avevo i soldi per abbonarmi (né sapevo che me lo avrebbero spedito anche gratis). In compenso fu il periodo in cui iniziai a riflettere in modo serio sulla vita in carcere e il suo senso.

Non appena la Cassazione confermò la condanna, chiesi e ottenni il trasferimento a Padova.

Ricordo bene anche il mio arrivo a Padova. Venni destinato al terzo piano e in pochi minuti scoprii che il mio vicino di cella era Nicola Sansonna, membro fondatore di Ristretti Orizzonti. La sera stessa parlai con lui, gli spiegai che da libero ero giornalista e che mi sarebbe piaciuto far parte della redazione di Ristretti. Con la sua “raccomandazione” saltai la solita trafila per entrare in redazione: domandina, mesi di attesa, colloquio con Ornella, altri mesi di attesa ed eventuale “assunzione”. Con la tipica faccia di bronzo di ogni raccomandato, in meno di un mese ero diventato redattore di Ristretti Orizzonti, uno dei “privilegiati”.

Non posso parlare dei 10 anni di Ristretti. Io ne faccio parte “solo” dal 2001. Né parlerò di come fui trasformato d’imperio (e contro la mia volontà) in vignettista. Però ricordo quanta gente, quanti compagni ho visto passare in quella redazione, persone di tutte le razze, di tutte le età, con tante storie diverse e simili alle spalle. Nel tempo alcuni sono stati trasferiti, altri hanno terminato la loro pena e sono tornati liberi, molti hanno ottenuto misure alternative al carcere. Parecchi hanno messo la testa a posto, qualcuno c’è ricascato, alcuni sono morti… Alcuni, purtroppo, sono ancora lì, che, nonostante il comportamento esemplare, aspettano da anni e anni l’occasione di mettere il naso fuori con un permesso premio.

Ricordo tutte le discussioni e tutte le litigate (quante litigate) e ricordo anche cosa è nato da quelle litigate. Per fare un solo esempio, il convegno sulle vittime dei reati del 23 maggio scorso è nato da una furibonda litigata circa quattro anni fa. Era appena arrivato in redazione un documento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che parlava di Giustizia riparativa nei confronti delle vittime e le reazioni furono tutt’altro che leggere. I primi commenti furono del tipo: “Ma che diavolo vogliono ancora da me queste vittime? Non gli bastano gli anni di galera che sto facendo? Non gli bastano le sofferenze che sto passando? E poi come dovrei riparare? Mi presento a casa della persona e le dico: mi scusi, le ho ammazzato il marito, le va bene se le falcio il giardino e le lavo la macchina?”. Cinismo? No, è solo il punto di partenza da cui dovrà iniziare chiunque voglia affrontare seriamente un argomento così complesso e delicato come il rapporto tra vittime e autori di reato. Chiunque voglia intraprendere un cammino del genere per prima cosa scoprirà che il carcere genera esso stesso vittime e che è da questo dato di fatto che bisogna partire. Da questo siamo partiti, su questo siamo tornati e ritornati, e abbiamo discusso, litigato e rilitigato. Grazie ad altri progetti, come quello con le scuole, abbiamo incontrato e ci siamo confrontati con le prime vittime. Poi siamo andati a cercarle e a pregarle di incontrarci in redazione. E alla fine siamo approdati al convegno con le vittime dei reati come protagonisti. Ora, a furia di discussioni e litigate, si tratterà di trasformare questo convegno nel punto di partenza di un progetto ancora più ampio e approfondito e, soprattutto, di non farlo rimanere un’eccezione locale, ma estenderlo a quanti più istituti di pena possibile, perché il carcere, se ci deve essere, abbia un senso. A Ristretti forse lo abbiamo scoperto prima di tutti gli altri e il successo del convegno “Sto imparando a non odiare” ne è la prova più evidente.

Ogni anno di vita di Ristretti aiuta a crescere anche me

Un giornale per vivere una detenzione che mi aiuti a cambiare

Anche in un ambiente costituito da persone che hanno vissuto al di fuori

della legge e del rispetto dei diritti altrui, si può creare uno spazio

da cui iniziare un percorso indirizzato ad un futuro di “buone azioni”

 

di Franco Garaffoni

Norberto Bobbio scriveva “Quando gli uomini cessano di credere alle buone azioni, comincia la violenza”. Io sono un detenuto, conosco bene la violenza, e posso dire che Bobbio aveva ragione. Ma questo mio scritto è dedicato a un compleanno, alla ricorrenza di un avvenimento che dimostra che esiste la possibilità di non cessare di credere che, anche in un ambiente costituito da persone che hanno vissuto al di fuori della legge e del rispetto dei diritti altrui, si possa creare uno spazio da cui iniziare un percorso indirizzato ad un futuro di “buone azioni”, o quantomeno di buone intenzioni.

Oggi festeggio il decimo compleanno della nascita del giornale Ristretti Orizzonti, io ne faccio parte da quasi tre anni, ho tralasciato di festeggiare i miei compleanni, è una antica usanza carceraria secondo cui porta male far festa per i compleanni in galera (come se stare in carcere portasse bene…), alla quale molti detenuti si adeguano, ma non posso esimermi da questo festeggiamento e da quello che rappresenta per me.

Durante la carcerazione il dolore, la delusione, la tristezza non spariscono, si trasformano, vengono assorbiti dal nulla che ti circonda, dalla non vita che sei chiamato a vivere, ed è facile che si evolvano in violenza, in non accettazione della pena, in vittimismo: non si riesce più a capire come dare un significato al momento che si sta vivendo, si cade nell’ozio fisico e nella noia, si aspetta che il lento passare del tempo assuma un valore diverso. Questa è la vita in carcere, così vivono la maggior parte dei quasi 55.000 detenuti presenti negli Istituti di detenzione italiani, e quello che mi fa più rabbia è che non possono festeggiare con me l’esperienza che sto vivendo, cioè una detenzione diversa, finalizzata a cambiarmi, perché questo è far parte della redazione di Ristretti Orizzonti. Frequentando la redazione del giornale, composta da detenuti-volontari che a vario titolo si occupano dello sviluppo del giornale, ho potuto apprezzare l’importanza del confronto diretto fra i componenti di nazioni diverse, sui vari temi che giornalmente si discutono. Ed è sorprendente, me ne sono reso conto personalmente, quali, e quanto notevoli progressi si riesca ad ottenere.

Gli scambi vivaci, a volte addirittura violenti, che ogni dibattito porta con sé, contribuiscono sensibilmente a raggiungere una brillantezza dialettica, una padronanza di linguaggio, una capacità di approfondimento che a volte è difficile riscontrare in un detenuto. Detenuti di lingua diversa, di religione, di costumi e culture così distanti interagiscono fra di loro per un fine comune, la pubblicazione del giornale.

Quello che non riesce in politica, quello che non riesce fra condomini (penso ai rapporti tra vicini di autentico scontro, come quelli che hanno portato alla strage di Erba), quello che non riesce fra le varie religioni che trasformano in conflitti tutto ciò che non è conforme al proprio pensiero personale, quello che non riesce neppure all’interno delle famiglie, dove il dialogo, il ragionamento, lo spirito educativo si trasformano a volte in aggressività e violenza, come dimostra l’aumento dei delitti commessi in ambito familiare, accade invece in un carcere, in una redazione. Quando si festeggia un compleanno, e mi piace davvero chiamare così questa ricorrenza, perché ogni anno mi aiuta a crescere davvero, è prassi portare un dono al festeggiato, il mio regalo è questo scritto, ma la mia speranza è che ogni detenuto, in ogni carcere italiano possa, il prossimo anno, festeggiare con me, che anche a loro sia data una opportunità. Facciamo in modo di credere alle buone azioni, a noi detenuti basta una occasione per non tornare alla violenza di cui parla Bobbio.

Un giornale dove si impara a dare peso e significato alle parole

“Ristrettamente” lungimirante

Una rivista che non guarda solo il suo “orticello”

di Sandro Calderoni

 

Parlare di un traguardo raggiunto è sempre una bella soddisfazione, anche per chi si è aggregato lungo il percorso. Se poi parliamo di un viaggio di ben dieci anni di un giornale, per giunta ideato e scritto in un carcere, questo è un evento quasi eccezionale.

La sua eccezionalità sta proprio nel fatto della durata, perché mantenere per così lungo tempo originalità e freschezza in una rivista prodotta in una galera non è cosa semplice. Lo dico con una certa cognizione di causa, perché nella mia lunga permanenza nelle patrie galere ho avuto modo di conoscere varie realtà di un circuito detentivo dove ogni istituto, a suo modo, aveva e ha tutt’ora una sua peculiarità, o per meglio dire un suo regolamento che lo governa, e dove all’interno di esso sono nati e si sono spesso dissolti una miriade di giornali e giornaletti, che avevano comunque caratteristiche simili: o guardavano solo il loro “orizzonte” limitato, proponendo dei contenuti e delle esperienze che non andavano oltre il “ristretto” confine di un carcere, racchiuso fisicamente dalle mura che ne condizionavano ogni articolo; oppure andavano talmente oltre le sbarre, che finivano per scegliere argomenti che non c’entravano proprio nulla con il contesto carcerario.

Il merito della nostra rivista sta proprio nel non voler guardare solo il suo “orticello”, ma nel voler allargare i temi del carcere e delle pene oltre questo “ristretto orizzonte” e renderli presenti anche nella società. Lo sforzo più grande è di cercare, attraverso le esperienze dirette di chi ci scrive, di portare all’esterno questo problema, di non ghettizzarlo come vorrebbero in tanti, ma di puntare a dare un’informazione, che permetta di far conoscere più da vicino una realtà, che riguarda tutti e con la quale bisogna convivere e farci i conti.

Sicuramente la qualità, la completezza delle notizie, la mancanza di condizionamenti di un giornale dal carcere dipendono da molti fattori, ma se la gestione di una rivista del genere è soggetta alla supervisione di un educatore o dello stesso direttore, è prevedibile che gli argomenti che si affrontano non possano essere trattati con quella completezza di approfondimento e quello sguardo critico, che sarebbero necessari per garantire di realizzare un giornale più “libero” possibile.

Qui, dieci anni fa, la fortuna è stata invece di trovare una persona, Ornella, che, con un gruppo di detenuti e volontari, ha deciso di uscire da questi schemi, assumendosi la responsabilità di gestire il giornale in prima persona, responsabilizzando, con questo gesto, anche tutti coloro che hanno partecipato e partecipano alla sua realizzazione, perché quando si sa di essere abbastanza liberi di scrivere, ma di dover rispondere di quello che si scrive, si impara a dare peso e significato alle parole.

Attraverso questa esperienza ho imparato molto, sia sul piano della capacità di sostenere le mie idee che su quello umano, perché sono finalmente riuscito a capire che vi sono diversi punti di vista su uno stesso problema e che non sempre il proprio è quello “giusto”.

L’augurio che faccio alla nostra rivista è che possa durare a lungo e che possa contribuire concretamente alla realizzazione di una federazione di tutte le realtà “giornalistiche” all’interno delle carceri, in modo da lavorare insieme per “correggere” all’esterno tutta la malainformazione dei giornali che scrivono di carcere e da avere degli obiettivi comuni, perché sarebbe veramente miope ritenere che il proprio orticello sia quello più bello.

Ma cosa spinge un semianalfabeta come me a frequentare Ristretti Orizzonti?

Ho imparato a confrontarmi, anche duramente, con gli altri

Una redazione dove si impara a discutere, a misurarsi

con le opinioni degli altri e a rimettersi in gioco

 

di Maurizio Bertani

 

In occasione dei dieci anni dalla fondazione e dall’uscita del primo numero di Ristretti Orizzonti, cerco di esprimere le sensazioni che provo rispetto a questa esperienza. Come detenuto ho già scontato circa trent’anni di carcere, ma solo da un anno e mezzo mi trovo inserito in questa redazione, come volontario, anche se conoscevo da tempo la rivista, perché ricevevo ogni numero già dal 2003.

Dal mio arrivo nel carcere di Padova, nell’ottobre del 2006, ho fatto il possibile per entrare nel gruppo della redazione, e quando ci sono riuscito, ne ero contento all’inizio, sicuramente lo sono ancor di più oggi. Ma cosa spinge un semianalfabeta come me a volere frequentare la redazione di un giornale come Ristretti Orizzonti?

Devo onestamente ammettere che il mio ingresso nella redazione di Ristretti Orizzonti aveva, come spinta iniziale, tre diverse motivazioni: la prima era l’opportunità di uscire da una cella di detenzione, che diventa giorno dopo giorno sempre più stretta, la seconda, fare qualcosa per avere una relazione di sintesi comportamentale favorevole, e come terzo motivo e non certo ultimo l’eventuale possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Del resto, considerate le mie condizioni di detenuto, non ritenevo per niente peregrine queste motivazioni.

Ricordo che, i primi giorni in redazione, al mattino facevo un po’ quello che volevo, ma preferibilmente, considerato che negli ultimi anni mi ero appassionato all’uso del computer, mi dilettavo a capirne ogni giorno una nuova funzione, e questo di per sé era gratificante; poi al pomeriggio si affrontavano le discussioni di redazione, discussioni che anche adesso portano poi a scrivere le proprie opinioni, e a tutti credo piaccia dare un senso ai propri pensieri e alle proprie azioni, e poi magari scriverli, questi pensieri.

Nelle riunioni pomeridiane, all’inizio mi sembravano tutti un po’ matti: si discuteva dei temi più diversi, come i problemi della giustizia, le vittime di reati e di comportamenti delinquenziali, le condizioni di vita in carcere, l’emergenza criminalità, tutti quegli argomenti che di volta in volta trovavano risalto sugli organi di informazione, e che noi volevamo approfondire a modo nostro, e ognuno diceva la propria opinione, che spesso non collimava con le mie. Ma ogni pomeriggio, finita la discussione, dovevo tornare in cella, e non ci tornavo mai da solo, perché portavo con me pensieri di altre persone, detenuti e volontari, e questi pensieri mi ponevano davanti ad una scelta. O non interessarmene più di tanto, oppure iniziare un confronto dove riuscire a capire, a ragionare sulle affermazioni degli altri, e questo è quello che ho fatto, e che mi ha portato, piano, piano, a modificare il mio modo di pensare.

In passato non avevo nemmeno mai considerato le mie vittime, ritenendo a torto che le vittime fossero solo quelle legate a fatti di sangue. Finché in un incontro con i ragazzi delle scuole che partecipavano al progetto “Il carcere entra a scuola”, una insegnante ci ha parlato del dramma che ha vissuto quando è stata presa in ostaggio durante una rapina in banca, reato che mi tocca personalmente, essendo io in carcere proprio per questo. A dire la verità non avevo mai nemmeno pensato di poter essere un omicida mancato, certo giuridicamente non mi si può accusare di questo, ma avendo nella mia vita spesso usato armi, o comunque portato con me armi, moralmente devo considerarmi proprio uno che avrebbe potuto uccidere, e tutte queste riflessioni, in modo naturale, mi hanno portato ad una presa di coscienza e a una riconsiderazione di tanti momenti della mia vita.

 

Discussioni feroci, ma con grande rispetto reciproco

 

Un altro aspetto che mi ha impressionato subito fin dai primi giorni è stato il fatto che, durante gli incontri pomeridiani in redazione, ognuno poteva esprimere il suo parere, e arrivare anche a discussioni feroci e violente dal punto di vista verbale, ma un secondo dopo la fine delle discussioni, era come se non fosse successo assolutamente nulla, e le persone presenti erano disponibili verso gli altri come prima.

Questo per me, che ho un carattere scontroso e permaloso, appariva fuori dalla norma, poiché se trovo da ridire qualcosa anche di banale, con una persona che magari stimo e ritengo un amico, in ogni caso quasi sicuramente non gli parlo per una settimana, e quindi non riuscivo a rendermi conto del perché le cose in redazione andassero in modo diverso, eppure avveniva, e tuttora avviene, che il confronto, anche duro, si ferma lì e non ha strascichi. Questo mi ha spinto ad una analisi attenta sia del mio modo di pensare a volte radicale, che delle difficoltà che incontro spesso nel confrontarmi con gli altri. Credo così di avere imparato ad accettare di discutere con un gruppo, cosa che non avrei mai fatto solo pochi anni fa, e di aver cominciato a cambiare radicalmente il mio modo di pensare.

Certo sarei stupido se dicessi che le motivazioni iniziali non hanno più senso, ce l’hanno eccome, ma oggi ci sono anche altre cose che hanno valore, tra queste elencherei l’importanza di lavorare e ragionare all’interno di un gruppo, e di accettare, pur discutendone, le opinioni degli altri, a volte spesso smussando gli angoli del mio radicalismo, per arrivare a condividere opinioni non mie, perché le ritengo giuste.

L’ultimo punto che mi ha veramente colpito è quello che ho sentito dire da una volontaria, che è anche direttore del nostro giornale, e che suona più o meno così: “A me non interessa né sapere il reato della persona, né le motivazioni che la spingono a frequentare Ristretti Orizzonti, capisco benissimo che molti vengono qui perché magari pensano di uscire in permesso prima, o per altre motivazioni simili, ma a me va bene lo stesso, perché sono convinta che a forza di discutere e di riflettere sulle cose, magari anche a forza di fingere di voler rimettere in discussione il proprio passato, qualcosa alla fine rimane in testa, ed alla lunga le persone sono obbligate a ragionare su se stesse e sui propri errori”. Io credo che questo concetto non solo risponda profondamente al vero, ma sicuramente vada anche oltre le sue aspettative.

Tutto questo l’ho trovato in questa redazione, che quest’anno festeggia i suoi dieci anni, e mi piace pensare che, come ogni anniversario, venga festeggiato al meglio. Da parte mia posso solo portare in dono queste due righe di considerazione di come vivo io questa esperienza, e certo non posso esimermi dal ringraziare tutti quelli che mi hanno preceduto, detenuti e volontari, che hanno fatto in modo, sacrificando il proprio tempo, che tutto questo diventasse un’importante realtà.

Rispetto all’esperienza che sto vivendo come detenuto all’interno della redazione di Ristretti Orizzonti, oggi posso affermare di avere un solo e grande rammarico: che questa attività non sia allargata anche ad altre realtà, perché vorrei che quello che ha dato a me, fosse dato al più alto numero di detenuti possibile. Felice compleanno a tutta la redazione, detenuti e volontari, a tutti quelli chi mi hanno preceduto e a coloro che “purtroppo” mi seguiranno.

L’importanza di sentirsi tutti parte di un gruppo

Qualcosa dentro di me si è liberato…

Il sistema della vita carceraria dopo qualche anno ti congela il cervello,

serve una attività che ci aiuti ad aprirci e a rimetterci in gioco

 

di Maher Gdoura

 

La mia prima osservazione su Ristretti Orizzonti e sul lavoro che è stato fatto dai miei compagni nell’arco di dieci anni, anche se faccio parte di questa redazione solo da sette mesi, è che il confronto tra carcerati, i dibattiti, sentire le storie diverse e i punti di vista anche opposti ti fa crescere, perché ad un certo punto impari finalmente a rispettare le opinioni dell’altro, anche se non le condividi, però appunto le accetti. Mi rendo conto che questi tipi di attività sono fondamentali per un detenuto, perché il sistema della vita carceraria dopo qualche anno ti congela il cervello, e questo un domani, quando usciremo di galera, si rispecchierà anche sulla società negativamente. Invece con questo tipo di attività qualcosa dentro di me si è liberato…

Soprattutto quando ci confrontiamo con gli studenti, e magari, come è successo quest’anno, con alcuni dei loro genitori, vedo i miei compagni, me compreso, raccontare le proprie esperienze negative, che ci hanno portato in carcere, con la speranza di aiutarli a capire, proprio mettendo in gioco noi stessi in questo confronto, e ogni volta leggo nei volti degli studenti che, quando se ne vanno, hanno portato qualcosa con sé. E pure noi ci portiamo dietro qualcosa…

Quando ho cominciato a far parte di questa realtà sinceramente ero un po’ in dubbio, temevo di non farcela a inserirmi, di non sentirmi abbastanza “adeguato”, ma poi ho cercato sempre di ascoltare e di capire, e dopo un po’, vedendo la sincerità dei miei compagni nei loro racconti, mi sono sentito coinvolto, “contagiato” anche. Quello che subito ho notato è stato il senso del lavorare in gruppo, l’importanza di sentirsi tutti parte di un gruppo: mi ricordo, in particolare, quello che è successo quando è morto un ragazzo, che era stato a lungo in redazione ed era uscito dal carcere da un paio di anni. Io non l’ho conosciuto, Stefano, ma mi ha colpito molto vedere la solidarietà e il dispiacere del gruppo e anche dei volontari per questa persona.

Ma il senso di questa esperienza è anche far riflettere la società sul fatto che, siccome prima o poi torneremo tutti in libertà, è importante fare in modo che i detenuti possano uscire con la testa cambiata, con punti di vista diversi sulla vita, con la voglia di trovare finalmente un proprio posto nella società.

Sono convinto che in ogni carcere dovrebbe esserci una redazione, è fondamentale per il detenuto e anche per la società.

Quegli incredibili incontri tra tante classi e noi detenuti

La parola d’ordine è migliorarsi sempre

Che forza devono avere avuto quelli prima di me, che forza hanno quelli

che ho incontrato quando sono arrivato, che forza dovremo mettere

tutti insieme per andare avanti, per andare oltre!

 

di Bruno De Matteis

 

Credo di essere uno degli ultimi entrati a far parte della “famiglia” di Ristretti Orizzonti. Dovrei forse iniziare esprimendo gratitudine verso qualcuno, così potrei sempre contare, un domani, su una buona parola, una piccola raccomandazione, visto che in Italia nel bene e nel male funziona così, ma, in questo caso, non lo farò perché qui ho trovato qualcosa di particolare, qualcosa di molto diverso: uno spirito che mai avevo trovato e provato prima in altre carceri (e ne ho visto parecchie purtroppo). E poi, parliamoci chiaro, se dovessi farmi “raccomandare” dopo 30 anni di carcere vorrebbe dire essere ridotto davvero male.

Invece quello di cui voglio parlare è il clima, le persone con cui mi viene consentito quotidianamente di lavorare, la sincerità e leale amicizia che per primo mi sento di dare da quando sono in questa redazione.

Non è la prima volta che mi trovo a lavorare con giornalisti “creati” in carcere, ma qui ho incontrato un mondo tutto nuovo. Un modo di collaborare, di confrontarsi (a volte anche duramente) che fa capire che tipo di sforzo debba essere stato compiuto in questi dieci anni per arrivare a questo livello. Questo posso dirlo proprio confrontando le mie passate esperienze con quella attuale. Qui la parola d’ordine è migliorarsi sempre, andare avanti anche contro tutto e nonostante la condizione di detenzione. Proprio questa condizione è stata tramutata in energia aggiunta che permette di trascinarsi dietro qualsiasi peso, ogni fardello, senza arrendersi o farsi condizionare. Tutto nel segno del massimo rispetto tra tutte le diverse componenti della redazione.

Fatti personali dieci anni fa (proprio quando nasceva Ristretti Orizzonti) mi hanno fatto capire che c’è sempre, anche quando ormai non ci credi più, chi può dirti una buona parola, chi può darti un aiuto, anche solo con un gesto. Così ha avuto inizio il mio percorso, ho cominciato a frequentare la scuola media sino a diplomarmi in Ragioneria Commerciale e ora posso affermare con sincero rammarico: quanto tempo ho perso, come avrei potuto sfruttare meglio i tanti anni sprecati in odio e ribellioni!

Oggi, con mia enorme sorpresa, ho scoperto, grazie ai miei compagni d’avventura in questa redazione, il mondo degli studenti. Questi incredibili incontri (così erano per me all’inizio e ancora lo sono in parte) tra tante classi e noi detenuti mi fanno ancora più rimpiangere di aver abbandonato gli studi troppo in fretta, e questa consapevolezza è un altro grande merito di chi ha cercato con tutte le sue forze di aprire questa strada di grande confronto con le scuole. Questi ragazzi/e, spesso con lucidità, ti fanno domande che non sai come sviare, a volte sono dure sassate che ti lanciano nella loro innocenza (e forse anche con un po’ di furbizia). Ma questo confronto ti fa sentire ancora parte integrante di una società, che tu hai lasciato da tanti anni, e per questo trovi le parole per confrontarti e cercare con delicatezza di dare la tua testimonianza, sperando venga accettata e possa essere davvero utile per il loro futuro.

Quando il pensiero va a questi dieci anni trascorsi per arrivare a questo punto, non posso fare a meno di riflettere su un aspetto di questa attività: che forza devono avere avuto quelli prima di me, che forza hanno quelli che ho incontrato quando sono arrivato, che forza dovremo mettere tutti insieme per andare avanti, per andare oltre.

Le parole che mi aiutano a cambiare

Cambiare anche solo ascoltando

L’esperienza della redazione significa prima di tutto proprio imparare

ad ascoltare gli altri, per riuscire poi a rimettersi in gioco

 

di Pierin Kola

 

Sono solo pochi mesi che partecipo alle attività della redazione di Ristretti, però devo confessare di aver sentito parlare di cose che prima non mi erano mai passate per la mente. Ogni pomeriggio ci si riunisce e si discute su tutto, io non ho ancora trovato il coraggio di intervenire, anche perché a volte non ci capisco niente e mi sembrano cose senza senso. Però ci sono altre volte che ascolto e penso: “Questi hanno ragione”. Poi vedo entrare tanti studenti. I miei compagni parlano con loro, raccontano le loro storie, e io spero che almeno parte di quelle storie rimanga nelle loro memorie, così imparano qualcosa che sicuramente gli servirà nella vita, almeno se non vogliono finire qui.

Noi ci siamo già finiti, chi per sbaglio, chi per scelta e chi, come me, “costretto” dalla propria “cultura”, ma è giusto che spieghiamo agli studenti quanto tutte queste motivazioni siano sbagliate. Anche se la cosa più importante è che capiamo noi quanto le nostre scelte siano state sbagliate. Io l’ho capito solo adesso e vorrei tanto avere avuto qualche anno fa la testa che ho ora. Ricordo che prima pensavo che in questo mondo, per essere qualcuno, si doveva mostrare di essere più forte di tutti, così le persone, avendo paura di me, mi avrebbero considerato di più. Il problema è che questa testa mi ha portato qui dentro.

Quando sono finito in galera pensavo di essere stato solo sfortunato, invece adesso capisco che non è questione di sfortuna, ma di idee e di comportamenti sbagliati. Però a convincermi di questo non sono stati i vent’anni di galera che mi sono preso, oppure le sbarre di ferro, ma ci sono arrivato soprattutto ascoltando volontari, detenuti e tante altre persone che arrivano, ospiti, dall’esterno, che discutono continuamente di questi temi. E allora, nonostante io non abbia ancora aperto bocca nelle riunioni di redazione, voglio dire che anche solo ascoltare è utile, perché le parole entrano nella testa e spesso ci rimangono. E se questa attività va avanti da dieci anni, significa che le stesse cose sono rimaste anche nelle teste delle centinaia di detenuti che sono passati in questa redazione prima di me.

Un posto dove tutti, italiani e stranieri, possono dialogare

C’è bisogno di posti come questo per imparare a rispettare l’altro

Credevo di aver trovato nella redazione un ottimo passatempo, ma alla fine mi

sono appassionato alle discussioni e spesso sento il bisogno di intervenire, di parlare

 

di Elvin Pupi

Quando mi trovavo in una Casa circondariale aspettando il processo, ho sentito spesso parlare di Ristretti Orizzonti, ma non avevo mai pensato che ne avrei fatto parte fino a quando non mi hanno trasferito in questo carcere. Stare sempre in cella non è facile, anzi ti fa uscire fuori di testa, e io, dopo un lungo periodo di isolamento, di detenzione difficile, piena di rabbia, avevo deciso di non stare più tutto quel tempo chiuso in uno spazio soffocante come la cella. Una via per uscire era cercare di entrare nella redazione di Ristretti, così ho cominciato a chiedere da tutte le parti, finché alla fine si è liberato un posto e mi hanno preso.

Ho trovato un luogo in cui stavo bene, le persone erano tranquille, non c’era nervosismo nell’aria. Mi sono subito scelto un computer e ho cominciato a studiarlo, per capire come funziona. Insomma ero contento, perché passare quattro ore al giorno in un’aula, grande sei volte le dimensioni della cella, mi sembrava una cosa fantastica. Avevo trovato un ottimo passatempo.

Non sapevo invece che la cosa mi stava prendendo. Il motivo di questo mio coinvolgimento sono state le quotidiane riunioni che facciamo in redazione. In queste riunioni parliamo sempre dei problemi della giustizia, delle leggi che stanno facendo e di come i giornali trattano questi temi, ma poi si finisce per parlare anche di cose personali e a volte anche per litigare. Io all’inizio ascoltavo senza intervenire perché non sapevo cosa dire, non ero abituato a parlare di queste cose. Adesso invece ho cominciato a dire quello che penso.

Qui in redazione ci sono persone che conoscono bene le questioni della giustizia e sanno ragionare, così come ci sono altri che pensano di saperne più di tutti, ma che fanno dei ragionamenti che mi sembrano poco credibili. Di sicuro i ragionamenti di Ornella mi convincono di più, perché lei quando parla non ha odio o pregiudizi. Lei ragiona sempre mettendosi nei panni degli altri, se si parla di stranieri lei ragiona come se fosse una di noi, se si parla dei problemi dei tossicodipendenti lei cerca di mettersi nei panni di una persona che soffre e cerca di capire meglio il problema, se si parla di vittime dei reati lei ci spiega cosa significa trovarsi con una tragedia in casa, se si parla di intolleranza o di razzismo lei è con il diverso, con chi viene emarginato. E certo parlare di queste cose in carcere non è facile, soprattutto con quei detenuti che a volte l’odio accumulato in galera lo vogliono sfogare contro i più deboli.

All’inizio io venivo in redazione solo per uscire dalla cella, ma alla fine mi sono appassionato alle discussioni e spesso sento il bisogno di intervenire, di parlare. Ma parlare significa ascoltare, ragionare, e significa anche sapere la lingua. Così mi sto accorgendo che sto migliorando sempre di più la mia conoscenza della lingua italiana. Esprimermi bene non è facile, ma ci provo e già non faccio più la fatica delle prime volte.

Oggi si festeggiano dieci anni di vita di questa rivista, che secondo me ha cambiato la faccia della galera. Però devo dire che c’è anche qualcuno che la pensa diversamente, e a me dispiace sentire qualche detenuto infelice dire che la redazione è una perdita di tempo, e che non serve. Io ascolto Ornella e le altre volontarie e penso a come queste donne sono dieci anni che vengono qui perché vogliono farci ragionare, vogliono darci quella voglia di cambiare che il carcere difficilmente dà. Poi vedo le cose che stanno insegnando a me e penso a quanti stranieri sono passati qui prima di me e hanno potuto imparare la lingua come sto facendo io. Basterebbe questo per convincermi che la redazione è una cosa importantissima qui in carcere, e siccome è un posto dove tutti, italiani e stranieri, possono dialogare, io credo che oggi come oggi, c’è bisogno di posti come questo se vogliamo imparare a vivere insieme e rispettarci a vicenda.

 

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