SOS Immigrati

 

Le due ragazze rumene nella metropolitana di Roma e l’omicidio

Proviamo a spegnere le braci dell’odio contro lo straniero

Interroghiamoci tutti sull’aggressività, il fastidio per il diverso

l’ansia di difendere i nostri privilegi che ci portiamo dentro

 

“Sta crescendo ogni giorno di più l’intolleranza, sta montando l’odio per lo straniero e nessuno fa nulla per spegnere queste pericolosissime braci”: inizia così la lettera a un importante quotidiano italiano di un lettore di sinistra, preoccupato perché sta diventando razzista. In carcere allora abbiamo tentato di riflettere sulla convivenza tra stranieri e italiani, sulle responsabilità reciproche, sul rispetto della legalità, cercando di uscire da certi facili luoghi comuni. Le testimonianze che riportiamo provano proprio a vedere un’altra faccia del problema: quella dei ragazzi stranieri che imparano a conoscere ben presto l’illegalità diffusa nel nostro paese, ma anche quella delle due ragazze rumene che hanno ucciso con un ombrello, e che abbiamo imparato ad odiare prima ancora di capire chi sono e perché hanno fatto una cosa così orribile.

Proviamo a interrogarci su quanta aggressività ci portiamo dentro

Tra le decine di voci mandate in onda mancano le loro, alla colpevolezza non si dà la parola: si sa solo di pianti di disperazione e richieste di perdono, dichiarazioni di giornalisti che non rendono il quadro emotivo reale

 

di Stefano Bentivogli

 

Qualche volta ho l’impressione che viviamo in un periodo di cannonate mediatiche che spingono sempre più le persone nel baratro della paura e dell’odio, della vendetta e del conflitto cieco. C’è ormai un’evasione totale dai fatti concreti e dalla ricerca di motivazioni, del senso degli eventi: i telegiornali sono diventati delle vere e proprie armi da guerra contro il senso critico e soprattutto contro la lucidità, alla quale è già difficile rimanere aggrappati dopo fatti gravissimi come l’omicidio recente della giovane donna italiana nella metropolitana a Roma.

Diventa così complicato per chiunque mantenere un equilibrio di fronte alle immagini del funerale della ragazza, con il montaggio della sequenza dove all’invito al perdono del sacerdote vengono opposti i NO e i MAI, urlati con violenza da tutta la comunità.

Non c’è niente di falso in quelle immagini, niente di costruito, come non era costruita la figura della ragazza vittima. Era una di quelle che si dava da fare, studiava, lavorava ed era circondata da affetti. Invece la presenza delle telecamere mostrava solo la coralità dell’odio, sentimento lecito per i parenti stretti ma molto pericoloso quando invece è una comunità a rappresentarlo. Che non siano magari proprio le telecamere a far venire fuori i nostri lati più estremi?

L’equilibrio, la sobrietà, l’attenzione sono ormai merce rara, sia nei programmi di informazione che in quelli d’intrattenimento. Delle due ragazze rumene, una minorenne e l’altra con due figli lasciati nel suo paese d’origine, entrambe “dedite alla prostituzione”, abbiamo visto le foto della fuga, quelle dell’arresto, incorniciate da diversi filmati delle vie dove maggiormente si concentrano prostitute e clienti. Tra le decine di voci mandate in onda mancano le loro, alla colpevolezza non si dà la parola: si sa solo di pianti di disperazione e richieste di perdono, dichiarazioni di giornalisti che non rendono il quadro emotivo reale. Io invece provo ad immaginarmele e a pensare quale stato d’animo stiano attraversando, nel momento in cui si rendono conto di ciò che hanno fatto.

Si tratta di una storia atroce per tutti, dove la rappresentazione del bene e del male viene montata selettivamente, e su questa e basta si esige giustizia, o meglio una condanna proporzionale alla quantità di dolore provocato. In realtà non è ancora stata accertata l’intenzionalità dell’omicidio ed è evidente che l’arma, un ombrello, esclude qualsiasi forma di premeditazione. Ma questo è il lavoro dei magistrati, dei periti e di nessun altro.

Chi fa informazione però, invece di continuare ad occultare i fatti concreti ed alzare il volume delle legittime reazioni, potrebbe interrogarsi su quanta aggressività ci portiamo dentro, su come questa abbassi il livello di sicurezza, perché di morti dovute a futili liti ce ne sono diverse ma non tutte “sparate” alla stessa maniera attraverso le televisioni dentro ogni casa. Forse perché anche la televisione è ormai portatrice di aggressività e lo fa sotto varie forme, non ultima quella di fare da amplificatore e ripetitore di questo tipo di pulsione.

Ecco, questa è la mia riflessione contorta, che spero però contenga ancora la voglia di comunicare, confrontarsi, capire meglio.

Non ho mai visto in Italia tutto questo senso di legalità

Se quel signore pretende che tutti gli stranieri rispettino le leggi di questo paese, deve cominciare a chiedere ai suoi concittadini di dare il buon esempio attraverso la propria condotta

 

di Elton Kalica

 

Fino a poco tempo fa all’equazione “immigrazione uguale criminalità” si contrapponeva un argomento razionale, e cioè si diceva che è sbagliato fare delle generalizzazioni perché la criminalità non ha nazionalità, e perché in realtà sono moltissimi gli immigrati che si sono inseriti bene nel lavoro e hanno solide relazioni sociali in questo Paese. Qualche giorno fa però mi ha colpito la lettera a un giornale di una persona sensibile, solidale, ma che in seguito a “un continuo stillicidio di fatti letti, di violenza vista” (parole sue) sta diventando razzista.

Mi verrebbe da pensare che in Italia non esistano più ingiustizie sociali come la disoccupazione, lo sfruttamento della mano d’opera, il precariato dei giovani, l’insicurezza sul lavoro, e mi spaventa l’idea che un giorno quei fiumi di persone abituate a scendere in piazza in nome dell’uguaglianza e della solidarietà, inizino a fare le ronde contro gli immigrati e propagare intolleranza e xenofobia.

È strano poi come questo lettore abbia deciso di usare pari pari quello che era lo slogan elettorale di Sarkosy, e cioè “insegnare la legalità agli stranieri”. Ricordo benissimo i primi tempi in cui sono venuto in Italia, e spalancavo gli occhi, curioso di imparare tutto dalla società occidentale. Ma poi sono andato a lavorare in un cantiere, e il padrone assumeva soltanto in nero, e infine mi dava sempre meno della somma pattuita. Andavo a dormire in un appartamento con altri sette connazionali e tutti ogni fine settimana pagavamo a una gentile signora centotrentamila lire per un letto. Nelle strade del centro poi, a ogni angolo, qualcuno mi fermava tentando di convincermi ad acquistare merce a buon prezzo, dalle origini sconosciute. Durante la mia avventura italiana, ho conosciuto anche tante persone dal cuore buono e dal sorriso generoso,  altre invece dalle anime poco pulite e dagli occhi sfuggenti. Ma certo non ho visto tutto questo alto senso di legalità e di rispetto della legge, che oggi si richiede con grande rigore dagli stranieri. Insomma, se quel signore pretende che tutti gli stranieri rispettino le leggi di questo paese, deve cominciare a chiedere ai suoi concittadini di dare il buon esempio attraverso la propria condotta.

Io vengo dall’Albania, e ricordo che quando ero studente andavamo a fare del lavoro volontario in una piccola città, che era stata chiamata Gramsci in onore di un italiano di sinistra. Poi è cambiato il sistema, e di fronte alla mia scuola hanno costruito un bar dove di giorno si facevano scommesse sulle partite del campionato italiano e che di sera veniva trasformato in una bisca: oggi continuo a domandarmi perché il padrone, che era emigrato in Italia ed era anche stato espulso, abbia chiamato il suo bar “Berlusconi”.

So però, che anche a Tirana, il padrone del bar che continua a svolgere una redditizia attività di fronte alla mia scuola, sostiene che una volta era di sinistra, ma che oggi segue altri modelli, e crede in altre cose.

 

 

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