Donne Dentro

 

Un incontro dedicato alle “donne in sospeso” tra galera e vita libera

Le cicatrici del carcere non si rimarginano mai

I pezzi di vita che hai perso con la galera non li rimetti

insieme tanto facilmente neppure dopo

 

a cura della Redazione di Giudecca

 

Paola, detenuta che lavora all’esterno in articolo 21, e Giulia, che dal carcere è uscita da un pezzo, sono state “interrogate” a Padova, in un incontro organizzato dal Consiglio di quartiere del Centro, di fronte a un pubblico attento e interessato a capire qualcosa di più sulle donne detenute, visto che, in genere, se ne parla poco, anzi pochissimo. Forse perché le donne sono più buone, visto che in carcere ce n’è meno di duemila, su un totale di 42.000 detenuti?

 

Che “terremoto” provoca l’esperienza del carcere nel rapporto fra genitore e figlio, e in particolare fra madre detenuta, o ex-detenuta, e figlio?

 

Paola: Ci sono dei momenti di ribellione da parte dei figli nei confronti della madre che è finita in carcere, che tagliano, spezzano, rendono ingestibili i rapporti. I figli non perdonano la madre che finisce in carcere. I figli hanno questa prerogativa: di essere i peggiori giudici specialmente nei confronti della madre. Un padre viene perdonato già di più, ma una madre no, perché una madre in carcere, nell’idea dei figli, è soprattutto quella che li ha abbandonati! E non importa quali siano le motivazioni. Un ragazzo – anche se abbastanza grande per capire una situazione difficile come quella della detenzione – inconsciamente non accetta di non aver avuto la madre accanto quando più ne aveva bisogno, per cui la ricostruzione di un rapporto è lunga, dolorosa e non si sa neppure se se ne verrà mai a capo.

Nel momento poi in cui una madre comincia a uscire dal carcere e vorrebbe magari far la madre subito, viene spesso bloccata, perché le si rinfaccia: “Ma come, quando avevo bisogno tu non c’eri e ora cosa vuoi da me?”. Per cui da parte della madre ci deve essere sempre un atteggiamento del tipo: “Io ti do e basta. Non pretendo niente”. Tu puoi dare solo amore, un amore che però non sempre viene recepito.

Il carcere distrugge i rapporti, c’è poco da dire. Puoi cercare di ricostruirli, ma le cicatrici del carcere non si rimarginano mai, rimangono sempre evidenti, specie per un figlio. Io credo che bisogna accettare che i rapporti non saranno mai come sarebbero stati se non ci fosse stato questo distacco, e non pensare di poter recuperare il tempo, la confidenza, la fiducia persi, ma piuttosto guardare avanti e costruire passo passo un rapporto nuovo.

 

Che cosa significa ricostruire il rapporto con un figlio, come si traduce questo dover “rientrare in punta di piedi” in una relazione, in un contesto familiare?

 

Paola: Il problema è che oltre al rapporto diretto con tuo figlio, ci sono poi tutta una serie di relazioni da gestire con le persone che – mentre tu non c’eri – si sono occupate di lui e che – a torto o a ragione – vogliono sentirsi riconosciuto il fatto di averlo seguito loro e il ruolo che da questo ne consegue. E quindi subentra un gioco psicologico difficilissimo da gestire. Subentra la gelosia, perché al tuo rientro in famiglia le persone intorno si sentono depauperate di un ruolo. Dunque tu non solo ti trovi a dover combattere per riprendere il rapporto con tuo figlio, ma anche a dover combattere con tutto il resto della famiglia, che – e questo è anche vero – tuo figlio lo conosce probabilmente meglio di te… persone che tu spereresti ti aiutassero e invece non possono farlo, non è che non vogliono, proprio non possono.

 

Dentro il carcere i rapporti con i propri cari sono davvero striminziti, sei ore al mese in una stanza dove si è circondati da decine di altre persone, di altre famiglie. I familiari durante la carcerazione sono spesso attenti e disponibili, mentre i guai iniziano al momento del rientro, perché si instaurano meccanismi perversi, forse inevitabili… Quanto diventa complicato, allora, una volta fuori, rifarsi una vita normale, decente, anche dal punto di vista affettivo, delle relazioni?

 

Giulia: Rifarsi una vita normale credo sia quasi impossibile. È così difficile perché durante la permanenza in carcere, è raro che le relazioni si mantengano: a meno che non ci sia qualcosa di molto forte alla base, infatti, si sfilacciano progressivamente e vanno a finire in niente. In particolare ho notato che – in confronto a quello che succede agli uomini – è più difficile che una detenuta donna venga sostenuta e seguita da fuori. Un uomo bene o male ha sempre qualcuno vicino, che sia la mamma, piuttosto che una sorella o una zia, una compagna – guarda caso sempre una donna – mentre le donne in carcere sono spesso e volentieri abbandonate a se stesse.

Paola: C’è sicuramente un elemento di solitudine e abbandono che caratterizza la donna detenuta. A parte le rom o le zingare – io ho visto quasi tutte venire abbandonate dal marito, specie a fronte di una pena lunga. Al contrario conosco donne che continuano a seguire il loro compagno anche se il rapporto si è deteriorato, e poi magari aspettano per divorziare da lui che esca e sia in grado di gestirsi da solo la sua vita, donne che non hanno mai abbandonato i compagni che erano dentro, pur essendosi ricostruite una vita sentimentale nel frattempo.

 

Giulia, tu hai finito la pena, con un ritorno graduale in libertà, passando per un periodo in cui hai lavorato all’esterno da semilibera. Il senso delle misure alternative è in fondo quello di non buttare all’improvviso fuori, nella società, chi è stato in carcere a lungo, ma piuttosto di fargli fare un percorso di reinserimento graduale, che equivalga a una specie di “decompressione” prima di ritornare a galla dopo quella specie di lunga apnea che è la carcerazione.

 

Giulia: Molti sono contrari alle misure alternative perché pensano che questo tempo di reinserimento equivalga all’essere libero, e non sono soddisfatti di una pena così poco punitiva. Io però me lo ricordo bene, il mio periodo di semilibertà, e credo che quel percorso di reinserimento sia invece estremamente difficile e delicato, perché non sei né carne né pesce: non sei totalmente libero, non sei totalmente costretto… E però è fondamentale per “assaggiare” la libertà a piccoli bocconi, per riabituarsi alla vita vera, per non perdersi quando si esce dopo anni di galera in un mondo, che si fa fatica a riconoscere.

 

E il dopo carcere? É davvero un percorso a ostacoli, come tanti lo descrivono, quando si spegne la felicità iniziale, quella euforia tipica della libertà riacquistata?

 

Giulia: È altrettanto difficile. Sapete cosa vuol dire per un ex detenuto, per esempio, una cosa apparentemente normale come farsi concedere un mutuo? Significa pregare che nessuno mai nella banca venga a sapere chi è e da dove viene! Il carcere non te lo togli più di dosso! Non ti considerano spendibile sul mercato: non hai nulla da mettere nel curriculum e da raccontare quando qualcuno ti chiede: “Allora, cosa hai fatto prima?”. Cosa gli rispondo? Che ho lavorato per il Ministero di Grazia e Giustizia?!

Paola: Nel mio ambiente di lavoro – io lavoro all’esterno in articolo 21 – mi sono trovata davanti alla fatidica scelta: “Lo dico o non lo dico, che alla sera devo tornare in carcere?”. E alla fine ho scelto di dirlo, per cui i miei colleghi sanno che ad una certa ora devo rientrare in galera. Ho la fortuna che nel lavoro mi apprezzano, ho delle belle soddisfazioni, però rimane sempre il fatto che vivo una vita doppia: di giorno un ambiente molto bello, frequentato da persone di un certo livello, e poi la sera devo staccare la spina per riattaccarla in un posto molto triste, dove godo della metà dei diritti, dove sono un numero di matricola. È una vita divisa a metà, devi avere due personalità, devi essere schizofrenico per sopravvivere.

 

Parliamo ora delle difficoltà che le persone fuori – che conoscono la vostra situazione – trovano nell’accettarvi, e delle difficoltà che incontrate voi a ritagliarvi uno spazio di “normalità”.

 

Paola: Io ho visto che dopo che le persone ti hanno conosciuto per quello che sei, quando decidi di raccontare loro della tua esperienza con il carcere, non hanno nessun problema ad accettarti. Io poi sono una a cui piace sfidare il senso comune, per cui voglio anche vedere se le persone di fronte a me riescono a superare i pregiudizi e ad accettarmi.

Giulia: Io mi ricordo sempre il primo periodo in cui ho cominciato a uscire in permesso e poi a lavorare in una cooperativa… All’inizio hai spesso delle aspettative enormi, perché ti sembra che il peggio sia finito, che ti sia riservata solo una strada in discesa, verso la libertà totale… Poi cominci ad accorgerti che la condizione di “semilibera” non è affatto semplice, anche perché ognuno di noi ha un bisogno forte di identità, e invece quando lavori fuori e torni in carcere la sera non hai nessuna possibilità di identificazione, non ti identifichi con le persone che stanno in galera, perché tu bene o male stai sperimentando pezzi di vita libera e loro no, ma nemmeno con i cittadini liberi, perché alla sera, finito il lavoro, finisce anche il tuo pezzo di libertà, e fuori chi glielo spiega alle persone “normali” che la tua vita, a quel punto, non ti appartiene più fino alla mattina successiva?

Ma se in questa prima fase di vita esterna i confronti li fai sempre con la galera, e quindi tutto ti sembra meglio che startene dentro, a poco a poco ti dimentichi del carcere e cominci a paragonarti con le persone che sono realmente libere, e ti senti inadeguato, cominci a nascondere pezzi della tua vita, non riesci a trovare una tua dimensione.

E nemmeno quando hai finito del tutto, sei una persona “intera”, perché i pezzi che hai perso con la galera non li rimetti insieme tanto facilmente neppure dopo.

 

 

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