Voci da lontano

 

Quando lo straniero è un italiano

Una vita “regalata” alla galera. Battista è nato in Germania ma è di origini casertane. All’età di quattordici anni è finito al carcere minorile, e da allora è iniziata la sua vita spericolata dentro e fuori dalla galera

 

testimonianza raccolta

da Mohamed Ali Madouri

 

Sono il più piccolo di sette fratelli ed ho vissuto in Germania per parecchi anni. Fin da bambino la mia vita è stata diversa da quella di tanti altri: mio padre ci aveva lasciati, o meglio abbandonati, infatti era tornato in Italia nel lontano 1978, subito dopo la mia nascita. A causa della gravosa situazione familiare, a tre anni fui portato in collegio, assieme a quattro dei miei fratelli, e lì ci separarono subito perché parlavamo solo l’italiano, mentre loro, invece, volevano che noi imparassimo bene la lingua tedesca. Ero ancora bambino e non capivo quasi niente, non capivo neppure cosa ci facessi lì. Anzi una cosa la capivo, e bene: che non volevo stare in quel posto. A cinque anni iniziai a scappare per tornarmene a casa, ma dopo ogni fuga i responsabili del collegio venivano a strapparmi da mia mamma. Ho sempre odiato quel luogo di restrizione e non sono mai riuscito ad adeguarmi alle regole che vi vigevano.

Le cose andarono avanti così fino all’età di dodici anni, quando scappai per l’ultima volta. Appena arrivato a casa, piangendo dissi a mia madre di non rimandarmi indietro, e lei per la prima volta mi strinse e mi difese: “Mio figlio rimane qui con me”, disse ai responsabili del collegio che invece di andarsene si fecero minacciosi. “Così peggiorate soltanto le cose”, ribatterono prima di andarsene furiosi. A quel punto mia madre si spaventò e chiamò l’avvocato, che fece di tutto per farmi rimanere a casa: prima parlò con il giudice e poi con il responsabile dell’ufficio dei minori, e riuscì ad ottenere una sospensione del mio affidamento per tre mesi, al termine dei quali si tenne un’udienza. Quel giorno, il giorno dell’udienza, non lo dimenticherò mai.

Il giudice, una persona con la faccia buona, disse queste parole che mi riecheggiano ancora nelle orecchie: “Un ragazzino che ogni volta scappa per andare dalla madre non si può trattenere con la forza, perché comunque continuerà sempre a fuggire”. Fu il giorno più felice della mia vita, mi sentii finalmente leggero e libero come una farfalla! Purtroppo, il fatto di essere cresciuto in un posto che odiavo, con delle regole assurde che non mi piacevano e che anzi detestavo perché non avevano alcun senso, mi aveva reso testardo, oramai incontrollabile. In qualche modo si era come insinuata dentro di me la “cattiveria”. Cominciai a frequentare tutte persone più grandi di me: la costrizione e la sofferenza del collegio mi avevano fatto crescere molto in fretta, e di conseguenza mi trovavo bene soltanto con gli amici più adulti. Iniziai anche a fumare sigarette, poi passai alle canne ed infine cominciai a rubare. In poco tempo i furti divennero la mia professione; da bravo “artigiano” del crimine rubavo quel che mi piaceva e che mi veniva chiesto dai clienti.

Col tempo e con l’aiuto di qualche amico, alzai il tiro: passai alle aggressioni e anche alle rapine nei treni, ma la “pacchia” non durò molto. Alla “tenera” età di quattordici anni mi arrestarono per tredici rapine e mi condannarono a tre anni di reclusione, ovviamente da scontare in un carcere minorile. Nell’istituto al quale fui assegnato era obbligatorio lavorare come apprendista, ed io frequentai il corso di cucina per due anni e sei mesi suddivisi tra teoria e pratica, poi mi liberarono. Uscii dal carcere ed assieme a ma madre e a mio fratello, anche grazie agli insegnamenti che avevo appreso durante la detenzione, aprimmo un bar “italiano”. Mi piaceva quel lavoro, un’attività di nostra proprietà che finalmente, dopo tanti stenti, ci rendeva anche indipendenti economicamente. Mi impegnavo anima e corpo, la mia vita era cambiata, avevo messo la testa a posto ed anche in famiglia si respirava un’aria di tranquillità mai vissuta prima. Era tutto molto bello, fin troppo, ed infatti non durò molto.

 

Nelle carceri tedesche

 

Una mattina mi arrivò una busta con il timbro dell’ufficio stranieri. Conteneva un invito a presentarmi, ed il giorno dopo, quando mi recai all’indirizzo indicato, alcuni funzionari mi intimarono di lasciare la Germania entro 15 giorni, giusto il tempo di raccogliere le mie cose. Tornai a casa con il morale sotto i tacchi e tanta ribellione in corpo. Tutti i bei progetti che avevo cercato di realizzare erano crollati come un castello di carta, tutto l’impegno per condurre una vita onesta non interessava a nessuno. Contavano solo gli errori che avevo commesso da ragazzino, che peraltro avevo pagato scontando anni di carcere. La mia vita e tutti i miei propositi stavano andando in fumo, per decisione della legge tedesca…

Decisi di non obbedire, probabilmente a torto, a quella che ritenevo una grossa ingiustizia. Ogni volta che venivano a prendermi per “respingermi” alla frontiera o comunque in Italia, mi facevo sì docilmente accompagnare, ma poi tornavo subito sui miei passi. Nel giro di un anno mi “spedirono” a Milano per sei volte, inutilmente perché ogni volta, dopo pochi giorni, tornavo da mia madre e dai miei fratelli. A causa di tutte le difficoltà derivanti dal mio scarso impegno nel lavoro, visto che praticamente ero sempre in viaggio e dovevo fare attenzione a non farmi beccare al bar, il locale cominciò a guadagnare sempre meno e fummo costretti a venderlo, a basso costo. Di tornare in Italia non ne volevo neppure sentir parlare, e preferii rimettermi a fare rapine. Quando mi arrestarono, la condanna fu di quattro anni e sei mesi. Una volta espiata quella pena, logicamente fui nuovamente espulso, con destinazione Roma. Rimasi in Italia soltanto qualche giorno, poi andai in Austria dove, una volta finiti i pochi soldi di cui disponevo… mi procurai una pistola e feci una rapina, per la quale subii una condanna a undici anni di reclusione.

Le carceri tedesche, al pari di quelle austriache – almeno dove sono stato io – sono abbastanza simili e “dure”, nel senso che in cella non c’è praticamente nulla se non il letto ed il cesso; però, in compenso, si può acquistare di tutto o quasi: il televisore, lo stereo, il frigorifero, la play-station, il ferro da stiro, la bilancia, la cyclette e un sacco di altre cose che aiutano a rendere il carcere più umano e “normale”. Il cibo generalmente è buono ed abbondante, ma è vietato cucinare in cella come avviene in Italia. Sono consentite due ore di “aria” al giorno e quando si entra in carcere è possibile lavorare fin da subito, anche se la paga è modesta. Inoltre, ai più indigenti vengono concessi dei sussidi e distribuito il vestiario e quant’altro è necessario a vivere dignitosamente.

E la mia condanna ad undici anni? È presto detto: dopo averne scontati tre sono stato “estradato”, rispedito nuovamente in Italia ed eccomi nella Casa di reclusione di Padova.

 

 

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