Postacelere

 

Caro detenuto

Corrispondenza da “mondo libero” a carcere. Due nostre lettrici a confronto su un tema particolare: la corrispondenza con detenuti, vissuta come una attività di volontariato nell’ambito di una associazione o come una scelta individuale di sostegno con la parola scritta a persone in difficoltà

 

Lo scambio di lettere che segue è interessante perché coinvolge due lettrici di Ristretti Orizzonti, che sono anche impegnate in quella, che è a tutti gli effetti una attività di volontariato: corrispondere con persone detenute. I due punti di vista sono stimolanti proprio perché partono da approcci completamente diversi.

 

In questi anni avevo incamerato dentro di me troppa sofferenza di tante persone e non riuscivo più ad accettarne altra

 

Gentile Redazione,

mi chiamo Alessandra, ho 30 anni e sono una vostra abbonata. In uno degli ultimi numeri di “Ristretti Orizzonti” ho letto con molto interesse la lettera di Sabrina. E questo mi ha indotto a raccontare la mia esperienza. Io ho iniziato a scrivere ai detenuti a 18 anni, e questa esperienza è continuata per 11 anni. Ho scritto inizialmente per curiosità, ma poi la curiosità è presto scomparsa e ha lasciato il posto all’amicizia. Io non mi sono appoggiata a nessuna associazione, i nomi li trovo su alcuni giornali, oppure detenuti a cui scrivevo mi davano il nome di compagni di cella con cui iniziare una nuova amicizia. Quando ho iniziato, l’idea che avevo del carcere era un po’ vaga, ma senza pregiudizi. Lì dentro, c’erano detenuti che avevano commesso dei reati, ma erano fondamentalmente persone e come tali io le ho trattate.

Con loro mettevo sempre in chiaro due cose: non gli facevo prediche, perché non ero un prete e non avevo nessuna intenzione di redimerli; niente domande sulla loro vita privata, perché non ero un poliziotto, se poi però loro volevano parlarne, allora era un altro discorso. Il terzo punto non lo scrivevo mai, ma lo mettevo in pratica a tempo debito. Quando erano depressi e giù di morale, a volte erano piuttosto nervosi e in alcune circostanze sono volati anche degli insulti diretti a me. Io non mi arrabbiavo, sapevo che erano crisi momentanee, ma cercavo sempre di soprassedere, e poi con tutta la dolcezza di cui ero capace, cercavo di tirarli un po’ su. Alla fine riuscivo sempre nel mio intento. Loro la prima volta restavano piuttosto perplessi, perché si aspettavano caso mai che io li piantassi lì e non gli scrivessi più e poi (con stupore mio, questa volta) cominciavano letteralmente a baciare dove camminavo, se non tutti, molti sì.

Mi trattavano come una santa. Due mi hanno chiesto addirittura se esistevo veramente! A me imbarazzava questo atteggiamento e gli facevo capire semplicemente che non era il caso di esagerare così tanto. Un anno fa ho smesso di scrivere, lavoro come operaia metalmeccanica in una fabbrica e a un certo punto la stanchezza causata dal lavoro che faccio mi ha fatto smettere. L’altro motivo è che in undici anni avevo incamerato dentro di me troppa sofferenza di tante persone e non riuscivo più ad accettarne altra. Non potevo condividere con nessuno questa esperienza e alla lunga non ho più potuto continuare. Ritornando alla lettera di Sabrina molte cose che volevo dire le ha già spiegate molto bene Stefano Bentivogli, nella sua risposta, quindi mi soffermerei soltanto su due questioni.

Secondo il mio punto di vista le persone in generale hanno un’idea del carcere piuttosto superficiale e molto spesso anche sbagliata. Molti pensano ancora che i detenuti siano quasi tutti dentro per omicidio, cosa che poi vera non è. L’Italia è seconda in Europa per avere le carceri peggiori e peggio di noi sta solo la Francia. Oltretutto in questo Paese c’è ancora una mentalità che è a dir poco obsoleta. Qui si pensa ancora di risolvere il problema della criminalità con più carcere e più poliziotti, ma è chiaro che con questa logica non si arriverà mai a risolvere niente. E poi quando mai più carceri hanno fatto diminuire la delinquenza?

Il secondo punto è che le persone dovrebbero cambiare atteggiamento. Perché con tutti questi pregiudizi non si va da nessuna parte. E poi cosa sono questi discorsi tipo: io accetterò ogni ex detenuto solo se loro mi dimostreranno che sono brave persone, allora forse li aiuterò, altrimenti no. Sinceramente questo tipo di discorso mi ha sempre dato molto fastidio, in quelle parole noti un non so che di arrogante. Come a dire: noi brava gente per bene abbiamo il diritto di giudicarvi e voi ve ne dovete stare zitti e buoni. Ma dico stiamo scherzando? Io non mi sento di giudicare nessuno.

Termino questa lettera complimentandomi con voi per i vostri articoli. Sono sempre molto interessanti. Quando Sabrina ha parlato della sua corrispondenza con i detenuti, ad un tratto mi è sembrato che lei si faccia un sacco di problemi, che io neanche mi ponevo. Ricordo che a più di uno ho dato anche il mio numero di telefono e con uno ci sentiamo ancora adesso. Dopo il carcere ha trovato lavoro in un’impresa edile. Forse mi sono fidata troppo? Può darsi. Ma se tornassi indietro rifarei tutto. Concludo questa lettera facendo un saluto a tutta la Redazione.

Cordiali saluti.

Alessandra

 

P.S. Sabrina si preoccupa tanto dei reati dei detenuti ai quali scriverà (giustamente), ma io non ho fatto altrettanto. Il primo a cui ho scritto aveva una condanna per aver ucciso il padre. Ho corrisposto anche con un uxoricida e con un terzo che aveva ucciso una persona durante una rapina. I restanti  erano rapinatori, l’ultimo un trafficante di droga. Reati di non poco conto certo, ma che non possono condannare a vita una persona. Incontrarli fuori è quasi impossibile, una volta terminata la corrispondenza ognuno per la sua strada (per scelta loro più che mia). Ha fatto eccezione solo una persona.

Tu hai avuto un approccio diretto con i detenuti

io sono passata tramite un’organizzazione di volontari

 

Cara Alessandra,

dal momento che la tua lettera è un po’ una risposta alla mia precedente lettera, pubblicata su Ristretti Orizzonti, ho raccolto l’invito della redazione  a risponderti. Oltretutto, mi interessa molto il confronto con te, che hai anni di esperienza di corrispondenze. Penso che la differenza nell’approccio alla corrispondenza con dei detenuti tra me e te sia dovuta a due motivi principali. Il primo è la diversa età a cui abbiamo iniziato: a 18 anni credo si affrontino le nuove esperienze con uno spirito diverso che a 30. Il secondo è dovuto al diverso modo con cui abbiamo contattato i detenuti: tu hai avuto un approccio diretto, io sono passata tramite un’organizzazione di volontari. Quindi, vorrei raccontarti la mia di esperienza (anche se breve!) e commentare quanto hai scritto.

Non avevo nessuna conoscenza del carcere all’epoca (beh, non che l’abbia adesso, ma inizio ad avere una vaga idea di cosa sia), né avrei mai pensato di darmi a questo tipo di volontariato.  Sono veramente capitata per puro caso su un sito web che conteneva una raccolta di lettere di un detenuto, e lì sono rimasta sconcertata da quanto raccontava sulla vita in carcere. Possibile che fosse veramente così? Le otto lettere coprivano 2 anni della sua vita, due tentativi di suicidio e una discesa evidente nella depressione. E mentre in un’ora di lettura ho ripercorso quello che gli succedeva, ero incredula. Dalle lettere era così evidente dove stava andando, era così chiaro che stava piombando nella depressione... ma possibile che non se ne accorgesse nessuno???  Dove erano psicologi, educatori, dove erano tutti???

A questo punto, VOLEVO sapere. Per due giorni ho fatto una ricerca sul web accurata ed approfondita sul carcere, e mi sono resa conto che tra quanto si legge sui giornali ed il carcere vero c’è una bella differenza. Come a te dopo 11 anni, beh... a me sono bastati due giorni per avere un’overdose di sofferenza. Non ne potevo più di leggere di tentativi di suicidio, di disperazione, di indifferenza. Ed ho tagliato. Sono ritornata alla mia vita, al mio mondo. Ma al di là di tutti i pregiudizi che potevo avere, pregiudizi forti, che mi facevano dire che comunque stiamo parlando di criminali, di persone che possono avere commesso reati orrendi, la sofferenza che avevo percepito nelle testimonianze e nei racconti che avevo letto non era qualcosa che potevo ignorare. Quindi, sono ritornata sui miei passi, ho preso la mia decisione e mi sono detta che avrei provato a corrispondere con dei detenuti. Onestamente ero conscia che come inizio era veramente un piccolo inizio, ma mi sono detta che era meglio andare per gradi...

Devo dire che sei stata molto perspicace nel cogliere che mi faccio parecchi problemi nel corrispondere. Uno dei motivi è stato leggere nelle famose lettere come lui si sentisse tradito dal fatto che alcune sue corrispondenti fossero sparite senza spiegazioni. È chiaro che corrispondere con un detenuto non è come avere il classico pen-friend a cui si può smettere di scrivere per mesi se la nostra vita esterna ci assorbe completamente. Quindi prima di decidermi ho valutato se avevo abbastanza tempo libero. La corrispondenza richiede tempo ed energie, ti ammiro per essere riuscita a continuare questo impegno per 11 anni e capisco perfettamente che i tuoi impegni attuali ti impediscano di continuare. Io dopo qualche mese mi chiedo già se non sono stata un po’ ottimista nelle mie valutazioni...

L’altro motivo è dovuto ad una delle associazioni di cui faccio parte che prende la sua attività molto seriamente... chiamiamola associazione A. Per darti un’idea, per farne parte ho dovuto scrivere una lettera di motivazione. Successivamente, sono stata contattata per un’intervista telefonica di quasi un’ora con un membro “anziano” dell’associazione che doveva valutare se ero adatta. Infine, ho avuto il mio primo corrispondente, ma per il mio primo anno ho un “tutor” a cui posso telefonare in caso di qualsiasi problema (e per le prime 2-3 lettere si telefona comunque per avere un consiglio su come rispondere). Scrivo con uno pseudonimo e le lettere sono filtrate dall’associazione. Inutile dire che tutto questo toglie un po’ di spontaneità alla corrispondenza. Oltretutto quando ho scritto la prima lettera non sapevo di cosa parlare, perché non andava bene nulla!!! Tutto era troppo personale, non dovevo mettere la pressione al detenuto sul fatto che speravo mi rispondesse, etc.

Anche il rapporto dell’associazione con il detenuto è molto professionale: compilano una scheda con la durata della pena (ma non il motivo), età, interessi ed altri dati. Quando inizio la corrispondenza, ho questa scheda che dovrebbe darmi qualche ispirazione per la prima lettera. Naturalmente, ad una novellina come me non vengono affidati corrispondenti con delle pene lunghe, perché si ritiene che siano casi più difficili che richiedono una certa esperienza. E devo dire che discutendo con la mia tutor mi sono venuti in mente maree di problemi a cui non avrei credo mai pensato da sola.

Nel frattempo avevo contattato un’altra associazione (lunga storia spiegare perché, diciamo l’associazione B), e lì il processo era stato molto meno ufficiale e più rapido. Dopo una settimana avevo il mio primo corrispondente. A cui ho scritto una lettera normalissima per cominciare, sono stata me stessa al 100%, ho scritto una lettera come l’avrei scritta ad una persona qualsiasi con cui desidero cominciare a corrispondere… Poi, sono stata “istruita” dall’associazione A che nel frattempo mi aveva ritenuto “idonea” e mi aveva dato un nominativo. Devo dire che sono stata presa dai sensi di colpa: mi sono detta che ero stata veramente un’idiota, che avevo sbagliato tutto nella prima lettera, e che non avrei mai dovuto intraprendere questa cosa senza avere delle linee guida precise... credo che nella prima lettera al detenuto che mi aveva dato l’associazione B avevo violato almeno 10 delle regole della perfetta corrispondente!!!! Invece, nonostante i miei timori iniziali, la famosa lettera aveva avuto una bella risposta, interessante, e questa corrispondenza sta iniziando ad arrivare ad un’amicizia... Non si tratta di volontariato ormai, è una corrispondenza che mantengo perché mi va di farlo. L’altra invece é rimasta a dei livelli molto superficiali. Con questo non voglio dare una valutazione tra i due tipi di associazione: penso che molto dipenda dalle persone a cui si scrive, dalla loro voglia di comunicare. Ed ascoltando i racconti di altri membri dell’associazione A, in effetti ci sono casi in cui è fondamentale avere una certa esperienza per venirne fuori. Comunque è stato interessante vedere in contemporanea due approcci completamente differenti alla corrispondenza con detenuti.

I reati... vorrei chiarire che il problema non è una mia paura a scrivere a qualcuno che ha commesso un reato di “sangue”. Quello che mi chiedo è se sarei veramente capace di non farmi influenzare dalla cosa. Penso di sì, se lo scoprissi dopo un po’ che ci scriviamo, quando ormai il mio corrispondente è una persona e non un nome. Ma se lo sapessi prima di scrivere la prima lettera? Non lo so, è facile dire di no a mente fredda, ma visto che non mi è mai capitato per il momento preferisco non sbilanciarmi troppo…

Sulla visione sbagliata del carcere che c’è all’esterno, concordiamo tutte e due direi. Sull’inutilità del carcere come deterrente, non sono completamente d’accordo con te invece. Siamo così sicuri di questa inutilità del carcere? Ritengo che la morale freni e trattenga da alcuni crimini, ma non da tutti, almeno per quanto mi riguarda. Però non sono disposta a rischiare di passare i prossimi 10 anni della mia vita in carcere per un ammontare di denaro, anche enorme. Non credo che ci sia una cifra in denaro che sono disposta a barattare per 10 anni della mia vita. Risultato: il carcere è un ottimo deterrente almeno per me. E poi... quali alternative ci sono?

Punto due, l’atteggiamento da cambiare da parte della società. Mah… anche qui discordo un po’ da te. Innanzitutto, non penso che sia giusto giudicare le persone, ma penso che sia inevitabile valutarle. Quando conosco qualcuno, non è che diventa automaticamente il mio migliore amico per cui sarò disposta a fare qualsiasi cosa. Certe cose richiedono tempo. Inoltre, i pregiudizi della società non è che nascano proprio dal nulla... i tassi di recidiva elevati che si vedono non incentivano certo a diminuirli. È vero che non è giusto, ma come non me la sento di condannare qualcuno che commette un crimine, allo stesso modo non me la sento di condannare chi ha i suoi pregiudizi e guarda con diffidenza agli ex-detenuti. Non sono sicura che sia una questione di arroganza, penso che sia semplice paura. In ogni caso, anche dire: “Sono così, e mi dovete prendere come sono” mi pare un po’ arrogante come atteggiamento. Da parte di chiunque.

Penso di non aver dimenticato nulla!!!

Un caro saluto.

Sabrina

 

 

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