Gli adulti

 

Un piccolo dubbio… mi era rimasto

Dalla preoccupazione che i ragazzi non fossero in grado di “capire” ed affrontare questa realtà, alla scelta di proseguire anche quest’anno nella strada della sensibilizzazione e del confronto, estendendola a tutte le scuole superiori di Padova

 

di Francesco Sanna

Funzionario del Settore Servizi Sociali

del Comune di Padova

 

Quando, a maggio dello scorso anno, è stato concordato con le associazioni  Tangram, il Granello di Senape e gli insegnanti con cui ci siamo incontrati per la prima volta, di entrare in carcere per conoscere alcune attività insieme con i docenti per poi definire un progetto da realizzare con le scuole, devo dire, un piccolo dubbio mi era rimasto. Non tanto sulla bontà del progetto in generale, quanto sul rischio, ventilato da alcuni, che i ragazzi non sarebbero stati in grado di “capire” ed affrontare questa realtà e tutto ciò che ruota intorno al mondo del carcere.

In particolare, la visita in carcere da parte degli studenti, il contatto con i detenuti, era stato letto come difficile e traumatico per i ragazzi, forse poco attrezzati per confrontarsi con una realtà così dura e a volte impietosa. Credo invece che l’aver prima “toccato con mano” l’ambiente carcerario e aver discusso con gli insegnanti sulle idee e le proposte progettuali da dentro, sia stato vincente.

Ciò ha infatti permesso di renderci conto direttamente delle realtà e, se non di superare del tutto, quanto meno ridurre la preoccupazione su ciò che sarebbe stato proposto ai ragazzi. Credo che al di là dell’ esperienza e delle capacità  messe in campo dalle due associazioni che hanno ideato e curato il progetto, abbiamo, noi adulti,  questa volta sottovalutato i ragazzi, che spesso iperproteggiamo, il loro modo diretto, a volte crudo e senza filtri, ma sincero, nell’affrontare le cose. Il progetto “A scuola di libertà”, fortemente voluto da questo Settore Servizi Sociali, ha visto l’impegno di più soggetti ai vari livelli: da quello programmatorio di coordinamento e raccordo dell’ente locale, alla fase gestionale dei docenti e degli studenti nelle attività sia in classe che di confronto con i detenuti, dell’Amministrazione Penitenziaria, nell’organizzare le manifestazioni all’interno del carcere, a quello organizzativo delle associazioni Tangram e Granello di Senape, nella cura e la gestione vera e propria delle attività.

Il confronto, le discussioni, le iniziative, le emozioni (la musica come linguaggio comunicativo, i dibattiti, peraltro molto spontanei e toccanti con i detenuti, incalzati dalle domande dei ragazzi, privi di atteggiamenti pietistici) che sono passate  tra i “ragazzi dentro “ e “le persone fuori” (intendo gli studenti, gli insegnanti, i rappresentanti istituzionali) credo abbiano aperto un buon canale comunicativo, riducendo le distanze della realtà carceraria dalle famiglie dei cittadini, ma anche dalle altre istituzioni. La scelta di proseguire anche quest’anno con questa esperienza, che pone di fronte Carcere e Scuola - due sistemi, questi, troppo spesso isolati ed autoreferenziali - estendendola a tutte le scuole superiori di Padova, è un segnale evidente dell’intento del Settore Servizi Sociali del Comune di Padova, di proseguire nella strada della sensibilizzazione  e del confronto, nella convinzione che si stia percorrendo la strada giusta, ossia quella della comunicazione oltre le barriere.

 

 

Una giornata particolare

Portare tanti ragazzi a conoscere la realtà del carcere ha avuto un grande significato anche dal nostro punto di vista, quello degli educatori dell’istituto

 

di Lorena Orazi

Responsabile dell’area pedagogica della

Casa di reclusione di Padova

 

Non capita tutti i giorni a chi lavora in carcere di affacciarsi alla finestra dell’ufficio e vedere un pullman, di quelli tipo gran turismo, scaricare davanti al cancello  80/90 ragazzi e qualche adulto (i professori, naturalmente). Qualcuno si domanda: “Forse hanno sbagliato posto. Non siamo mica un’attrazione turistica?!”. Non è una gita. Si avverte l’emozione dei ragazzi e delle ragazze nel varcare i cancelli grigi e poi rossi, nell’attraversare i lunghi corridoi prima spogli poi con riproduzioni di famosi artisti (Klimt, Klee, Modigliani), poi di nuovo cancelli rossi e un corridoio su cui si affacciano sei cancelli di ferro chiusi e dietro, loro, i detenuti, che guardano con curiosità e bisbigliano. Il rumore delle chiavi nelle serrature, chiavi dorate grandi come quelle dei castelli delle fiabe, ricorda che in questo posto qualcuno sta dentro e qualcun altro sta fuori. Poi la grande sala a forma di anfiteatro dalle pareti decorate con riproduzioni di manifesti di film e tanti piccoli sedili di plastica azzurra.

 

Le domande dei ragazzi, domande audaci senza peli sulla lingua

 

Si siedono gli studenti e i detenuti, la sala si riempie e uno dei detenuti presenta il programma della mattinata: si inizia con qualche brano del gruppo ECO, Extra & Communitarian Orchestra, a sottolineare una delle caratteristiche del carcere di oggi, la multiculturalità, e poi uno scambio di domande e risposte. Il clima si scalda progressivamente, gli animi e i volti si distendono quando le note musicali riempiono lo spazio di cemento. Poi le domande dei ragazzi, domande audaci senza peli sulla lingua, sull’amicizia, i legami affettivi, il senso di colpa, il progettare il domani fuori, la paura della prima volta in carcere. Risposte altrettanto asciutte e precise: gli amici sono i primi che se ne vanno, i genitori, quelli sì, rimangono quasi sempre; è troppo lontano il futuro fuori e per ora penso al giorno dopo giorno; certo che mi dispiaceva per la persona a cui rubavo l’auto e così via.

 

Persone ma anche corridoi, cancelli, chiavi: i segni della privazione della libertà.

 

Poi di nuovo la musica e i saluti finali. Di nuovo i cancelli rossi e i corridoi per raggiungere l’uscita e il pullman che  riporta gli studenti in città, perché il carcere è lontano dalla città. Come si dice? lontano dagli occhi lontano dal cuore? Appunto… ma le ragazze e i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza della pena detentiva narrata dai detenuti in permesso premio, raccontata e cantata in carcere, vista dalla prospettiva di chi in carcere lavora, avranno negli occhi e nel cuore volti, voci, corpi, insomma persone ma anche corridoi, cancelli, chiavi: i segni della privazione della libertà. Avranno negli occhi, nel cuore e nella testa immagini concrete di un luogo di cui molto si parla ma che pochi conoscono.

Una giornata particolare, anzi tre giornate particolari, che hanno avuto un grande significato anche dal nostro punto di vista, quello degli educatori dell’istituto, o parlando in modo più professionale dal punto di vista “trattamentale”, termine tecnico attribuito a tutte quelle attività volte a sviluppare nella persona detenuta “un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”. Tre momenti profondamente educativi e umani per tutte le persone che vi hanno partecipato: i detenuti per essersi messi in gioco con autenticità; gli studenti perché hanno chiesto con l’intenzione di avere risposte concrete; gli operatori della scuola e del carcere perché hanno visto e sentito un dentro e un fuori senza filtri.

Quella idea rassicurante che sono sempre gli altri ad essere “cattivi”

Due insegnanti raccontano. Entrare in carcere con i propri studenti significa anche condividere, inesperti ed impreparati quanto loro, la  scoperta di ciò che è solitamente lontano e diverso dalla nostra quotidianità

 

di Giovanna Tadiotto e Giuliana De Cecchi

docenti di Lettere ITAS P. Scalcarle

 

In quarta superiore si sale sulla luna con Astolfo a cercare tutto quello che gli uomini perdono - senno incluso - nella loro vita terrena, a volte si sale anche sulla montagna del Purgatorio dantesco a cercare “libertà ch’è sì cara…”; in quarta si ragiona con Machiavelli sul potere e sui limiti del nostro libero arbitrio, quanta parte della vita sia nelle nostre mani e quanta invece sia condizionata dalla sorte; si discute con Beccaria quale sia la pena più giusta, più razionale per punire gli errori degli uomini e soprattutto prevenirli e scoraggiarne la ripetizione a difesa della società…

In quarta è il momento migliore per visitare il carcere della propria città e possibilmente dialogare su questi temi (libertà di scelta, condizionamento, errore, follia, razionalità, responsabilità…), o farsi raccontare storie di vita che con questi temi hanno a che fare, da cittadini che hanno sbagliato e stanno pagando per i loro errori. Superando qualche difficoltà linguistica, sarebbe utile anche dialogare con aspiranti-cittadini che forse per un errore si sono giocati per sempre la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana. La quarta è anche l’occasione per uscire dalla routine dei soliti programmi per proporre qualcosa che tocchi da vicino studenti quasi-diciottenni, allargando il loro orizzonte e avvicinandoli a una realtà sconosciuta, che si aggancia a problematiche sociali (educazione, lavoro, immigrazione, affettività…) con cui ognuno di noi deve confrontarsi, prima o poi.

 

Nessuna sindrome di Stoccolma: il danno inferto alla collettività rimane

 

Ma c’è anche un lato più profondo e nascosto, che esperienze come questa consentono di far affiorare e portare alla consapevolezza: e sono quegli impulsi alla trasgressione, a perseguire il male che costituiscono la parte meno esplorata di noi stessi, a maggior ragione di adolescenti che stanno costruendo una propria identità. E così si arriva anche ad abbattere comuni pregiudizi:sono sempre gli altri ad essere ‘cattivi’, i detenuti costituiscono quindi un mondo a sé, che non ci riguarda affatto, come se espellessimo la parte oscura di noi…

Anche per noi adulti è stata un'espressione intensa: si provano forti emozioni a contatto con persone che stanno lottando contro la solitudine, l’emarginazione, la depressione, il rimorso… per recuperare la propria dignità, persone che si affidano al lavoro o allo studio per ritrovare se stesse o per non perdersi del tutto, persone per le quali molte parole (libertà., speranza, intimità…) hanno un significato più pregnante che per noi. E poi entrare in carcere con i propri studenti significa anche condividere, inesperti ed impreparati quanto loro, la  scoperta  di quanto è solitamente lontano e diverso dalla nostra quotidianità, di quanto è eterogenea la realtà della detenzione, vissuta in modi diversi sia sul piano delle reazioni individuali che sul piano delle condizioni ambientali. è un'espressione, allora, che ti fa imparare molto, che ti fa crescere: colpisce trovare, in questa durezza di condizioni, segnali di amicizia fra detenuti, di solidarietà, di umorismo, di dignità, gesti di fierezza per un lavoro ben condotto, lo sforzo tenace di trovare ogni giorno un senso, uno spiraglio per andare avanti.

Nessuna sindrome di Stoccolma: la gravità del danno inferto alla collettività rimane. Si prova, tuttavia, solidarietà e rispetto del loro sofferto tentativo di recuperare il proprio posto nella comunità, rispetto e gratitudine anche per chi li aiuta in questo processo, i volontari, e orgoglio per le istituzioni se offrono opportunità di recupero (articolo 27 Costituzione) a tutti coloro che ne fanno richiesta. Incontrando da vicino questi “cittadini sull’orlo”, si superano remore e pregiudizi, si diventa compagni di speranza e, al tempo stesso, cittadini più consapevoli del valore di una convivenza rispettosa delle regole.

Ciò che lascia il segno è il confronto con “l’altro”

E questo progetto, che ci ha portato in carcere con le nostre classi, un segno profondo

su tutti noi l’ha lasciato, consentendoci di andare oltre stereotipi e pregiudizi. Un’esperienza che ha cambiato anche il punto di vista degli insegnanti

 

di Antonio Bincoletto

docente di Lettere del Liceo

delle Scienze Sociali Fuà Fusinato

 

Mi  capita a volte di avere un incubo. Sogno di compiere qualcosa di grave e irreversibile: di provocare la morte di una persona, per esempio. Generalmente nel sogno ho la sensazione che tutto stia realmente accadendo, e questa è la percezione  più angosciante e desolante: “è successo davvero, non posso più tornare indietro!”. Poi mi sveglio, ma il sollievo che provo nel pensare “per fortuna non è successo, in realtà” non dissolve la profonda inquietudine che il sogno ha suscitato. Ho ripensato a questi miei incubi notturni quando, durante l’incontro-concerto al carcere Due Palazzi, uno studente ha chiesto ai detenuti cosa sognassero, e uno dei redattori di Ristretti Orizzonti, con molto pudore, ha accennato agli incubi che, spesso e a lungo, perseguitano i reclusi. In quel momento ho realizzato come, al risveglio, chi sta in carcere non abbia la possibilità di dire “per fortuna non è successo!” . Il dramma di cui ciascuno di loro è testimonianza non si risolve nel passaggio dal sonno alla veglia, con uno spruzzo d’acqua fredda sul viso o una semplice alzata di spalle, “tanto era solo un sogno….”.

 

Mi viene in mente il concetto dostoevskijano di “sottosuolo”

 

Quel dramma è segnato nella carne e nello spirito, sia di chi è finito in carcere, sia di chi ha subito le conseguenze del crimine. Se da questo si partisse nel considerare la realtà del carcere, già si sarebbe a buon punto nel comprenderne la dimensione umana. Qui si concentrano attori di veri drammi personali e sociali; qui si soffre, per espiare le colpe e per trovare, se c’è, la via del cambiamento. Qui l’individuo può, se vuole, se ci riesce, se si creano le condizioni, “fare i conti con se stesso”, combattere coi propri incubi. Oppure può chiudere gli occhi, aspettare, cancellare, osservare il tempo della vita che scorre sempre uguale e fugge inesorabilmente. Dopo gli incontri coi detenuti in semilibertà, dopo le riprese e le interviste doppie fatte col TG 2Palazzi, dopo i racconti dei volontari, degli educatori e del direttore del carcere, la consapevolezza su questa realtà è cresciuta, consentendoci di passare dai clichè alla realtà concreta delle esperienze individuali, dagli stereotipi alle persone in carne ed ossa.

è anche per questo, credo, che ho provato un senso di forte commozione durante il concerto al carcere: l’idea che tante diverse e in molti casi drammatiche storie di vita s’intrecciassero in quel momento corale; l’idea che davanti a noi ci fossero persone che stavano espiando colpe gravi, ma con cui ciononostante si poteva stabilire un rapporto di simpatia umana; l’idea che comunque ci fosse una via per dare loro sostegno nel duro percorso che si trovavano a fare; l’idea che facce segnate, smarrite, indurite, impaurite, perplesse, imbarazzate si sciogliessero insieme, prima nell’esecuzione e nell’ascolto dei pezzi, poi nell’applauso finale: questo mi ha toccato, spingendomi quasi alle lacrime.

 

La buona letteratura aiuta a ragionare sulle realtà umane

 

Non c’è un fossato invalicabile che separi i “buoni” dai “cattivi”, il “bene” dal “male”, chi sta in gabbia da chi sta fuori. Mi viene in mente il concetto dostoevskijano di “sottosuolo” e la confessione di Raskolnikov; il Riccetto “ragazzo di vita” descritto da Pasolini; ma anche il De Andrè del “Pescatore” o di “Via del campo” (“dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”). Ripenso alle razionali argomentazioni di Pietro Verri e di Cesare Beccaria su tortura e pena di morte, alle considerazioni pariniane sulle conseguenze devastanti dell’indigenza (“il bisogno”) sul comportamento umano; alle riflessioni del Manzoni sulle responsabilità individuali di chi si trova a dover giudicare gli altri: la buona letteratura aiuta sicuramente a superare gli stereotipi, a ragionare sulle realtà umane, che non sono mai semplici e univoche. Ancor più, ciò che lascia un segno profondo è il contatto diretto con le persone, con l’esperienza vissuta: il confronto con l’altro. Questo è ciò che abbiamo cercato di costruire attraverso questo progetto, grazie all’opportunità offertaci dalle associazioni promotrici: un percorso che tenesse insieme esperienza diretta e riflessa, informazione, conoscenza e elaborazione razionale; un percorso che consentisse di andare oltre stereotipi e pregiudizi, e che lasciasse un segno profondo su tutti noi. Forse ci siamo riusciti.

 

 

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