Donne dentro

 

Riflessione sulla carcerazione femminile

Dignità, progetti, reinserimento

 

Una mostra fotografica e un convegno a Carpi. È stata una delle poche, pochissime occasioni nelle quali si è parlato di donne detenute

 

di Carla Chiappini, giornalista, responsabile della redazione

del giornale della Casa Circondariale di Piacenza

 

"Altre donne. Viaggio nella carcerazione femminile": una mostra di settanta immagini che provano a raccontare dal di dentro la vita delle detenute. La mostra, realizzata dai fotografi Francesco Cocco e Marco Cattaneo, è il risultato di una ricerca approfondita basata sull’osservazione della realtà quotidiana della vita in carcere, i pasti, il lavoro, il rapporto con i figli piccoli rinchiusi con le madri (al nido del carcere di Rebibbia a Roma), e sulle ripetute conversazioni con le detenute delle carceri di Modena, Bologna, Opera, Roma, Messina e Trani. Il filo del racconto è tenuto dalla giornalista Jasmina Trifoni, autrice dei testi del libro che accompagna la mostra: uno studio che tocca anche i temi della sanità, della convivenza con i figli, delle risorse finanziarie per i progetti di recupero delle detenute, e che si avvale delle prefazioni della regista Cristina Comencini e dello scrittore Massimo Carlotto.

"Riflessione sulla carcerazione femminile. Dignità, progetti, reinserimento": è stato un convegno agile e ricco di spunti; promosso dalla Commissione Pari Opportunità del Comune di Carpi per presentare al pubblico la mostra fotografica "ALTRE DONNE. Viaggio nella carcerazione femminile".

Ha spiegato il significato dell’iniziativa, l’11 marzo a Carpi, con un intervento preciso e appassionato, Daniela De Petri, vice-presidente della Commissione Pari Opportunità di Carpi e responsabile del progetto della mostra fotografica che, partito con l’obbiettivo di affrontare la realtà di due penitenziari quali la Casa di Reclusione di Opera (Mi) e la Casa Circondariale di Modena, si è successivamente esteso ad altri istituti: Rebibbia a Roma, Dozza a Bologna e i due istituti di Messina e Trani. "Si è trattato di un viaggio in un paese sconosciuto", ha raccontato Daniela De Petri, "che ci ha visti impegnati a Opera due giorni la settimana per circa tre mesi a condividere l’intera giornata con le donne detenute, partecipando a tutti i vari momenti, dall’aria ai pasti alle attività ricreative e lavorative. Un periodo indimenticabile in cui si sono creati rapporti di autentica stima con le persone ristrette, quasi tutte con lunghe pene.

Molto differente, e forse più difficile da affrontare, la situazione delle due Case Circondariali di Modena e Bologna, dove le pene da scontare sono più brevi e la necessità di fare progetti è molto forte, essendo vicino il momento della scarcerazione. Significativa anche l’esperienza vissuta con le detenute del Nido di Rebibbia, quasi tutte donne rom con i loro bambini con cui abbiamo trascorso quattro giornate dalla mattina alla sera. Di queste persone abbiamo notato la bella intelligenza, la relazione strettissima con i figli con cui vivono un rapporto quasi simbiotico e, purtroppo, lunghe e reiterate storie di carcerazione per cui si può parlare proprio del fenomeno definito della "porta girevole". A Messina e Trani, infine, abbiamo avuto un’accoglienza calorosa e indimenticabile. lI grande successo di quest’iniziativa trova evidente conferma nel centinaio di liberatorie firmate da altrettante donne detenute, che hanno accettato di essere pubblicamente presenti nelle immagini di questa mostra; hanno avuto fiducia in noi e hanno condiviso l’idea di testimoniare una situazione difficile che, tuttavia, potrebbe essere cambiata".

Daniela De Petri ha chiuso il suo intervento con un caldo invito: "Al Volontariato, alle organizzazioni politiche e sociali, agli imprenditori chiediamo di "forzare" l’inviolabilità del carcere perché attraverso la contaminazione tra dentro e fuori si può pensare a un reinserimento sociale meno ostico e disagiato".

Leda Colombini, della Associazione "A Roma insieme", ha raccontato invece l’impegno che la sua Associazione porta avanti dal 1990 nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. Punto centrale è il progetto che prevede l’accompagnamento settimanale del sabato pomeriggio all’esterno per i bimbi "rinchiusi" con le mamme nel nido. Questo impegno si colloca nella direzione di "limitare i danni" che la detenzione genera nei bimbi da 0 a tre anni, costretti in spazi ristretti con orizzonti tanto ravvicinati da causare danni alla vista oltre che al naturale sviluppo della fantasia. Leda Colombini ha ricordato come, nel corso degli anni, si sia rafforzata la fiducia delle mamme detenute nei confronti dell’Associazione al punto che, attualmente, già nel primo sabato successivo all’arresto, le donne affidano i piccoli per una passeggiata all’esterno. In particolare resta impressa nella memoria la frase di una bimba rom di due anni e mezzo che, guardandosi intorno nella stanza da letto di una volontaria, esclama: "Ma come è bella la tua cella!".

E il commento di un bimbo che non aveva mai visto il mare: "Ma chi ha rovesciato tutta quest’acqua?". In Italia esiste la Legge n° 40 dell’8 marzo 2001, che prevede precisamente le "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori"; una legge molto importante che avrebbe dovuto permettere alle mamme di bimbi da 0 a tre anni di crescere i propri figli fuori dalle mura del carcere. Purtroppo questa legge non ha trovato adeguate applicazioni e ancora oggi molti bambini condividono con le mamme le restrizioni della detenzione. L’unico aspetto positivo di questa situazione pesante nonché piuttosto incivile, è la forte rete di solidarietà che si è creata all’esterno con tante famiglie disponibili ad ospitare i bambini e alcune nonne dell’Auser di Pontassieve che da anni confezionano vestiti e maglioni per i piccoli di Rebibbia.

Leda Colombini ha chiuso il suo intervento sottolineando la necessità di creare per queste mamme e per i piccoli un "clima di accoglienza" e di sostegno. Particolarmente forte è la necessità di aiuto da parte di quelle donne rom che, avendo deciso di cambiare vita, devono completamente sradicarsi dal loro ambiente, dal campo e anche dagli affetti più importanti.

È seguita la riflessione di Francesca Scopellitti, assessore al Comune di Grosseto, che ha rilevato come la situazione delle carceri nel corso degli anni sia rimasta tristemente invariata, soprattutto perché nella politica penitenziaria ci vorrebbe un coraggio che non si trova facilmente. L’impegno per i detenuti in realtà non produce consensi; le strutture continuano a essere ai limiti della decenza e il problema del sovraffollamento deriva anche dalla mancata applicazione delle leggi che prevedono le misure alternative. Resta, comunque, fondamentale il "far conoscere" il carcere perché è la comunicazione che rende il carcere più trasparente.

Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon diritto", ha espresso il suo apprezzamento per la mostra fotografica che è "bellissima perché priva di pietismo e di buoni sentimenti, ma ricca di compassione nel senso etimologico della condivisione di un dolore. Le immagini, documentando una realtà così dura e particolare come il carcere, esprimono una tenace e ostinatissima volontà di resistenza. Nel luogo della totale spoliazione, ove si viene in tutti i modi indotti all’anonimato, la sola possibilità di sopravvivenza è data dalla conservazione della propria identità. Per questo il maquillage, il vestito, la pettinatura rappresentano la capacità di redenzione di queste donne, il loro affermare: "Questa persona sono io e non sono riducibile a una serialità".

Ha poi proseguito, Luigi Manconi, sottolineando come, in tema di carcere, si scontrino due opposte categorie mentali, da un lato il coraggio e dall’altro il cosiddetto senso comune, e come, dal suo personale punto di vista, sia difficilmente accettabile non tanto la posizione degli intransigenti quanto piuttosto l’assenza di coraggio di coloro che, avendo maggiori aperture, di fatto non sostengono le proprie idee con alcuna convinzione. La ragione di tanta tiepidezza pare debba riferirsi all’opinione pubblica e, quindi, alla paura ancora una volta di perdere consensi difendendo una causa impopolare. Ritorna, nelle parole di Manconi, il leit motiv della giornata, l’esigenza sempre più impellente di far conosce la realtà della detenzione, di informare, di raccontare il carcere ai cittadini, sottolineando come in carcere i suicidi siano 19 volte più frequenti che fuori e come la gran parte di questi sia compiuta nei primi sei mesi di detenzione, da persone di un’età media di circa 30 anni che stanno scontando una pena per reati non gravi. Tutti buoni motivi per riproporre il tema del "difensore civico per le carceri", cioè di una figura esterna di vigilanza e mediazione tra custodi e custoditi che dovrebbe garantire a questi ultimi i diritti fondamentali troppo spesso misconosciuti all’interno dei penitenziari.

Breve ma molto suggestivo l’intervento della regista-scrittrice Cristina Comencini che, premettendo di non aver alcuna conoscenza delle carceri, ha raccontato tutta la propria difficoltà di fronte all’impegno di scrivere una prefazione alla mostra fotografica. Solo guardando le foto sparpagliate sul suo letto si è sentita sufficientemente "dentro" la realtà della detenzione e ha potuto esprimere emozioni e sentimenti in una bella pagina del catalogo che si conclude con un grido: "Ricominciamo da capo, vi prego, tutto sarà diverso, dateci questa seconda volta, non dubitate di noi e saremo delle bambine felici e buone".

Sono seguite alcune voci dalla realtà del carcere: il direttore della Casa Circondariale di Modena, il vice-direttore dell’istituto milanese di Opera, quindi sono intervenute due donne detenute con le loro esperienze di vita e di carcere. Alle battute finali il volontariato con Paola Cigarini del gruppo "Carcere-Città" di Modena ha espresso la forte esigenza di una "seria riflessione sul carcere e di un confronto sulle idee tra associazioni di volontariato", mentre Gianluca Borghi, assessore regionale ai Servizi Sociali dell’Emilia Romagna, ha riferito di una generale indifferenza nei confronti dei problemi delle persone detenute e della difficoltà di relazionarsi a livello istituzionale con il Ministero di Giustizia; ribadendo l’urgenza di un confronto chiaro sulle problematiche di maggiore attualità, in primis quella della salute in carcere e delle competenze rispetto a questo tema così delicato e controverso. L’intervento ha concluso la presentazione di una iniziativa, davvero molto densa e ricca d’interesse.

Scrivo, dunque esisto

 

"Con chi ti scrivi? Con le persone con le quali hai qualcosa in comune, lui è dentro tu sei dentro"

 

Alle tre del pomeriggio alla Giudecca ci sono le donne in coda: è il momento in cui si ritira la posta. Una boccata d’aria fresca, che arriva dal mondo libero. Ma anche da quello "ristretto". Sì, perché ci sono prima di tutto corrispondenze tra detenuti e persone esterne, e poi ci sono, naturalmente, le corrispondenze da detenuti a detenute, persone che non si conoscono, ma si cercano perché hanno qualcosa di importante in comune: il carcere. Di lettere e di scrittura abbiamo parlato spesso in redazione, abbiamo anche pubblicato parecchi articoli, ma ci piace tornare sul tema per scoprirne degli aspetti nuovi.

 

Emilia: Io ho avuto una corrispondenza con un detenuto, e tutto è cominciato quando mi è arrivata una lettera da uno sconosciuto. Succede sempre che c’è qualcuno che dà il tuo nome, un’amica, una compagna di cella. La prima lettera che ho ricevuto, io non ne sapevo nulla. Era stata una ragazza che è uscita poi, e non me lo aveva detto. A scrivermi era un uomo, è difficile che da carcere a carcere ti scrivi con una donna. L’uomo spesso cerca un punto d’appoggio in una donna, a volte scrive un po’ per scherzo, o per esercitare la fantasia, oppure per un reale scambio d’opinioni, un confronto con qualcuno che può capirlo, perché conosce bene la condizione in cui si trova.

Antonietta (insegnante): Ma l’iniziativa parte sempre da loro? Dagli uomini?

Gena: Dipende, a volte parte anche dalle ragazze. Per esempio, se io chiedo a Emilia se il suo corrispondente ha un compagno di cella interessato ad avviare uno scambio di lettere, allora la cosa parte da me.

Ornella (volontaria): Il fatto che un detenuto cerchi come corrispondente una donna detenuta è anche logico, ho sentito dire da tanti che fuori le persone non sono in grado di capire certi problemi che hanno a che fare con l’essere stati in galera, e allora cerchi l’unica persona che può esserti vicina perché sta vivendo o ha vissuta la stessa esperienza, la stessa situazione.

Giulia: A parte i casi, rari perché io ne ho trovati davvero pochi, di gente che entra una volta sola in galera, per il resto è logico che persone che conoscono il carcere frequenteranno persone che lo conoscono a loro volta e dunque si frequenteranno tra loro. È quasi inevitabile che il mondo con il quale hai a che fare fuori sia sempre quello, quello che ti ha portato per la prima volta in galera. E vale anche per le lettere, cerchi qualcuno che conosca la galera e quindi possa più facilmente sapere quello che stai vivendo.

Emilia: Succede però anche che, dopo le prime lettere, uno cambi rapidamente i toni e cerchi di spingere il rapporto verso forme più possessive, a me è capitato, non mi conosceva neppure e dopo poco già mi considerava sua moglie.

Massimo (insegnante): Ma il tono di queste lettere è generalizzabile? Cioè, queste corrispondenze seguono tutte questa pista? Due lettere e poi "ti amo", "sei mia moglie", è questo l’itinerario? Scrivono tutti per trovare la moglie che non hanno avuto o che non hanno più e imporre subito l’ordine, il comando in quanto uomini, fanno tutti così?

Gena: Non sono tutti così, comunque una corrispondenza inizia di solito dall’amicizia, poi se tu vedi che non ti va perché lui sta uscendo dai binari, gli puoi dire basta.

Massimo: Uscire dai binari per andare dove?

Gena: Per andare da subito oltre l’amicizia. Ma di solito si parla solo di conoscersi meglio un domani quando si uscirà dal carcere, e tu comunque puoi mettere le cose in chiaro sin dall’inizio.

Massimo: Il tono di queste lettere mi sembra abbastanza "patologico": uno che scrive a una persona che non conosce e che non ha mai visto, e dopo poche lettere già esprime un affetto, un amore potente, ha qualcosa di malato, io credo. E quali sono poi gli argomenti di queste lettere?

Gena: In generale si scrive del carcere e di come ognuno se lo vive.

Massimo: Ma si tratta di argomenti attinenti solo al carcere o anche altri? Nella società succedono molte cose, tutto questo si riflette in qualche modo nelle lettere?

Gena: Si parla anche di cronaca, di articoli sui quotidiani, dipende dal tipo di corrispondenza che instauri dall’inizio. Se poi si vuole parlare di sesso… si parla di sesso. Sì certo, esiste anche questo tipo di lettere. Ma io sono limitata, non saprei cosa dire, a dover parlare di sesso per lettera.

Ornella: Poco tempo fa è uscito un libro, che pare sia una corrispondenza vera tra una donna "libera" e un detenuto nelle carceri francesi, ed è tutto un crescendo di allusioni, dove di lettera in lettera aumenta sempre più la tensione sessuale. Non è poi così difficile giocare con la fantasia.

Gena: Io qui ho letto delle lettere dove non ci si chiede neanche come stai, solo sesso.

Svetlana: A me non piace avere una corrispondenza con persone che non conosco. Sono poche le persone con cui mi scrivo, e si tratta sempre di persone che ho incontrato, che conosco, con le altre, con gli sconosciuti ho tagliato subito. Per educazione ho risposto, e all’inizio si trovano sempre punti in comune, poi si inizia a parlare di sesso e io non ci riesco.

Massimo: Ma allora c’è o no una tendenza diffusa ad instaurare un rapporto, che dopo una fase più o meno lunga va a finire sull’aspetto sessuale?

Gena: Credo che per la maggior parte sia così, ma a volte si ha voglia più che altro di giocare. Nella cella dov’ero prima scrivevamo tutte le sere, tutte noi 13, e facevamo "comunione" anche della corrispondenza, una volta abbiamo fatto "socialità a distanza" scrivendoci tutte con una cella del maschile di Rebibbia, era come uno scherzo e ci si divertiva.

Sandra: Io invece mi scrivo solo con amici fuori.

Ornella: E non hai la sensazione che facciano fatica a capirti, dal momento che l’esperienza del carcere è troppo diversa da tutto il resto, troppo particolare perché uno fuori riesca a coglierne davvero tutte le sfumature?

Sandra: No. Non saprei cosa scrivere a gente che non conosco, oltretutto descrivere la mia giornata qui dentro non lo faccio nemmeno con chi conosco, perché ho altre cose da scrivere.

Gena: Perché non lo scrivi nemmeno a loro? Non è che c’è qualcosa di male a scrivere ad un amico come va qui.

Sandra: Io non mi sono neanche permessa di dire che c’è qualcosa di male, io dico solo che per me è così, non mi va di raccontare come mi è andata la giornata, perché se magari gli dico che va tutto male loro fuori stanno ancora peggio per me e perché sanno che soffro.

Gabriella (volontaria): Io volevo fare un’altra domanda: queste persone che scrivono sapete se sono per la maggior parte persone sole, se lo fanno per cercare qualcuno, o come si presentano?

Giulia: Di sicuro non vengono a dirti che hanno quattro figli a casa da mantenere.

Ornella: Io casualmente ho scoperto che un detenuto che conoscevo, sposatissimo con figli, aveva una corrispondenza con una detenuta della Giudecca, ma dubito che abbia raccontato la verità su di sé.

Giulia: Sono certa che non l’abbia fatto. Ho avuto un’esperienza diretta con un mio amico, che scriveva a una mia compagna di cella, e per come lo conosco sapevo che raccontava più che altro frottole.

Svetlana: Forse tutto questo succede perché non gli bastano le lettere delle mogli, sono banali. Ricordo uno che mi aveva chiesto se la compagna con cui l’avevo messo in contatto poteva scrivergli delle "lettere calde". Evidentemente aveva bisogno di inventarsi una vita diversa, di fuggire dalla realtà.

Isabella: Io per esempio scrivo tutte le sere, ma scrivo poco ai miei e agli amici che avevo fuori quasi mai. Invece mi scrivo ogni giorno con un ragazzo, che è in carcere (da una vita), e che non conoscevo. Parliamo di tutto praticamente. Cosa faccio, cosa penso, cosa vorrei fare, passato e futuro.

Massimo: Quando Isabella dice che si scrive tutti i giorni, mi fa riflettere. Ci sono molti pedagogisti che sostengono che la scrittura di sé, l’autobiografia, il diario quotidiano sono come una forma di cura, e sentire lei che scrive tutti i giorni mi fa pensare anche a un tentativo, più o meno cosciente, di cominciare a capirsi, a lavorare su di sé. Non è forse vero che la scrittura tira fuori e mette su carta, ben visibili, dei pensieri nascosti, anche confusi, e così permette a una persona, forse, di rendersi un po’ più chiare le cose? Io trovo però che questo parlare con qualcuno che ha la tua stessa esperienza non è tanto un confronto quanto un’affermazione di sé.

Ornella: Però tu Isabella dici che con i tuoi amici di prima, quelli che sono fuori, hai più o meno smesso di scriverti, secondo te perché, c’è una spiegazione?

Isabella: Ho visto che con loro non c’era l’amicizia di prima, il rapporto era cambiato totalmente, per cui ho smesso.

Svetlana: A volte non è che fuori non sono più tuoi amici, però la vita va avanti. Anche io all’inizio pensavo male dei miei amici, ma non è così, loro vivono il tempo diversamente. Qui dentro il tempo si ferma, invece fuori va avanti. Allora tendi a scriverti con le persone, con le quali hai qualcosa in comune, lui è dentro tu sei dentro. Abbiamo gli stessi pensieri, la stessa realtà.

Mi ricordo che le prime lettere che ricevevo da casa erano ricche, interessanti, perché non sapevo cos’era successo, e loro mi raccontavano tutto… dopo di che ti accorgevi che le lettere erano sempre più uguali, striminzite, e poi ti chiedevano: come mai non scrivi? Ma che ti racconto io di qui? Qui è sempre uguale, ogni giornata è uguale, non succede mai niente. Forse pensano anche loro: cosa le racconto? Meglio non raccontare troppo, per non farle male. Ed è vero, sto male sia per le cose belle sia per le brutte. Per esempio… c’è un matrimonio nella mia famiglia e sono contenta, però sto male perché ho perso tutte quelle belle cose, io non sono lì e quelle cose non si possono ripetere, e allora mi dispiace. Mi dico: la vita è fuori, non qui, e quando uscirò l’affronterò piano piano di nuovo, ora meglio non pensarci troppo.

Isabella: Sì, però io mi aspetterei da fuori che mi raccontassero quello che succede.

Giulia: Ma anche per quelli fuori le giornate spesso sono tutte uguali. Secondo me qui è il tempo che è percepito diversamente… pare statico. Il tempo è scandito, è pilotato dagli altri.

Svetlana: A noi comunque è stata negata la libertà… il fatto di essere chiusi non mi fa immaginare che fuori sia tutto fermo come me lo vivo qui, è fuori che bene o male la vita continua… che tutto è in movimento.

Antonietta: Noi stiamo parlando della corrispondenza, ma bisogna anche ricordarsi che fuori non si scrive più, si comunica tramite telefono, e-mail, SMS, etc.. La lettera scritta a mano è praticamente sparita. Quindi per una persona fuori è faticoso scrivere, perché non ci è più abituata.

Svetlana: Dipende anche dal rapporto che hai con gli altri. Io ho avuto un’esperienza particolare: quando mio marito era dentro in carcere da tredici mesi e io ero fuori, non è passata una giornata che non gli abbia scritto, sebbene lo incontrassi a colloquio, e non scrivevo solo un foglietto, gli facevo dei romanzi.

Massimo: Io ora però vorrei proporre un altro aspetto del problema. Un giorno, ragionando con un gruppo di donne qui alla Giudecca, veniva fuori la tematica della falsità, la falsità di rapporto che c’è spesso fra detenuti e con chi lavora in carcere o chi sta fuori. Questa falsità c’è anche nelle lettere?

Svetlana: Sì, lo abbiamo detto prima, il foglio sopporta tutto, non ti vedo non mi vedi, posso scrivere tutto ciò che mi pare.

Emilia: Io penso che a volte sia solo fantasia, non bugia. Un desiderio su cui fantastichi e ti autoconvinci talmente tanto che è reale, che per te è vero.

Ornella: Ma la corrispondenza regge se uno dei due poi esce dal carcere a fine pena, e l’altro è ancora dentro?

Giulia: Può succedere, di solito però non regge, nel tempo la frequenza diminuisce fino quasi a scomparire, fino ad essere sporadica. È più facile che uno esca e si faccia i fatti suoi, e appena rientra, se poi rientra, scrive di nuovo. Ci sono anche di quelli che, dopo essersi conosciuti via lettera, si sposano, che si amano, che diventano amici veramente, ma nella globalità di solito funziona che le storie terminano… fuori il tempo risucchia, fai altre cose ed è naturale che chi esce si scorda di chi è dentro. Non perché ti mette nel dimenticatoio, semplicemente perché non vive più questa realtà, ha bisogno di vivere la sua vita nuova ed è giusto che sia così.

Ornella: E come mai invece c’è questo interesse fuori a scriversi con detenuti/e? Io nel sito mi ritrovo un sacco di richieste del tipo "vorrei corrispondere con un detenuto/a". Mi piacerebbe capire se voi vi siete fatte qualche idea in proposito.

Emilia: Potrebbe anche essere voglia di sapere, interessamento per che cosa è il carcere, voglia di approfondire problemi che conosci poco.

Giulia: Secondo me c’è qualcosa di malato, perché come puoi pensare che una persona "sana" cerchi un rapporto con una detenuta, soprattutto se poi la cosa sfocia nella direzione di amori in cui cominciano a venirti a trovare, a voler approfondire la conoscenza? Mi chiedo allora brutalmente: sei suonato? Con tutto quello che c’è fuori? Fuori la vita funziona, corre, perché una persona si costringe a fare la tua vita quasi immobile? Che senso ha? Non dico il marito, l’uomo, ma che uno sconosciuto libero si metta con una detenuta/o, scusate ma c’è qualcosa che non quadra.

Massimo: Forse c’è da dire che esiste tutta una letteratura di grande successo che ci parla di un mondo diverso e questo mondo è affascinante, suscita curiosità.

Ornella: Ma c’è anche un discorso, che non è banale, sulla solitudine, per cui uno fuori fa fatica a trovare amicizie e interesse da parte di altre persone… io vedo che si diventa sempre più pigri anche nei rapporti con gli altri, perché non hai tempo, perché insegui mille cose, per cui forse c’è bisogno di trovare attenzione in qualcuno, e l’idea che una persona che è in carcere ha tanto tempo ti fa pensare che ti presterà più attenzione.

Giulia: Non è frustrante per una persona che vive fuori?

Ornella: La capacità di ascolto è una dote che fuori ormai va sempre più riducendosi, e poi io metterei in conto anche il fatto che tu che sei in carcere stai facendo un’esperienza e vivi in un mondo diverso dal mio - quindi questo può essere un motivo di curiosità, anche di stimolo, perché no? In fondo mi fai addentrare in un mondo che io non conosco, mentre quello di fuori, quello che mi sta intorno, mi sembra di conoscerlo già tutto, e questa può essere un’altra componente. In effetti a volte qui si fanno delle discussioni che io fuori non riesco a fare, si mettono a confronto esperienze diverse che ti costringono a ripensare a cose alle quali avevi fatto l’abitudine, che non eri più nemmeno in grado di apprezzare.

 

 

 

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