Massacrati dal 41 bis, stritolati dall’Alta Sicurezza

 

Condannati a essere mafiosi per sempre

Anni di 41 bis, poi anni di Alta Sicurezza. E la declassificazione che non arriva mai

 

Possiamo già indovinare quali saranno i titoli dei giornali dei prossimi giorni: a Padova chiude la sezione di Alta Sicurezza, trasferiti “i mafiosi”. Perché a questo sono condannati i detenuti dell’Alta Sicurezza, a essere mafiosi per sempre. Un sistema incancrenito con i suoi perversi meccanismi, per cui si può uscire dal regime di tortura del 41 bis perché “non viene ritenuto più attuale il collegamento con l’ambiente criminale associato di appartenenza”, per poi restare anni, decenni addirittura in Alta Sicurezza senza venire declassificati perché “non si può escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata”. Allora per favore, se vogliamo davvero, e non per finta parlare di umanizzazione della pena, parliamo anche di DECLASSIFICAZIONE. E tiriamo fuori questi esseri umani dalla condizione disumana di dover essere “cattivi per sempre”

 

 

Mia figlia non riusciva a guardarmi dietro quel maledetto vetro al 41bis

 

di Tommaso Romeo

 

Quando vengo arrestato le mie figlie avevano un anno e per nove anni sono stato in un carcere (Locri) vicino a casa, mi ritenevo fortunato perché ogni settimana le potevo vedere e i nostri colloqui erano pieni di baci e abbracci. Dopo nove anni la procura tira fuori dal cilindro la carta della pericolosità e vengo sottoposto al regime del 41bis, subito vengo trasferito in un istituto lontano dalla mia regione, arrivo nel carcere di Spoleto, fra le restrizioni di quel regime che mi hanno colpito di più una era che ogni mia lettera sia in arrivo che in partenza veniva censurata, il fatto che un estraneo leggesse le lettere che scrivevo a mia moglie e alle mie figlie mi bloccava, non scrivevo più lettere ma tre parole (sto bene ciao). L’altra restrizione era che potevo usufruire di una telefonata al mese sempre se in quel mese non facevo colloquio, ma la cosa assurda è che io non potevo telefonare a casa ma nel carcere più vicino. A parlare del mio primo colloquio ancora oggi che sono passati tredici anni mi cresce dentro una rabbia indescrivibile, perché rivedo nella mia mente l’immagine delle mie figlie che sembravano due statue di cera, non sono riuscite a farmi un sorriso. Trovarsi a passare dai colloqui pieni di abbracci e baci a vedermi dietro un vetro è stato traumatico, tanto che quel giorno quando ho visto una delle mie figlie guardare a terra per più di cinque minuti e mia moglie che non riusciva a convincerla a farle alzare la testa, ho dovuto interrompere il colloquio: quella mia figlia poi per tutta la mia permanenza al 41bis non è venuta a trovarmi, oggi che è mamma di un maschietto e di una femminuccia quando facciamo il colloquio per tutta la durata parla pochissimo, però i suoi occhi sono sempre puntati sul mio viso, e quando le ho domandato il perché lei mi ha risposto che deve recuperare tutti quegli anni che non è riuscita a guardarmi dietro quel maledetto vetro.

 

 

 

Il “collegamento del detenuto con l’ambiente criminale di appartenenza”

Un collegamento misterioso, che non esiste più quando viene revocato il 41 bis e che torna a sussistere quando serve per tenerti per anni in un circuito di Alta Sicurezza

 

di Giovanni Donatiello

 

Sono detenuto fin dal mese di luglio del 1986. Nel luglio del 1992 sono stato sottoposto al regime del 41 bis. Ci sono rimasto per quasi otto anni, gli anni più bui per me come credo per tutti coloro che si sono ritrovati nel suddetto regime. Dopo di che sono stato assegnato al circuito E.I.V. (Elevato Indice di Vigilanza), ora A.S.1, sicché a conti fatti ho trascorso quindici anni nel succitato circuito.

Le carceri in cui sono stato detenuto nel periodo successivo alla revoca del regime del 41 bis sono Livorno, Voghera, Sulmona, Milano- Opera, attualmente Padova. In tema di declassificazioni vorrei per un attimo poter fare delle domande al Gruppo di Osservazione e Trattamento dei diversi istituti in cui finora sono stato assegnato, proprio rispetto alla mia permanenza nel circuito A.S.1: la prima domanda è se veramente io sono stato valutato in base al mio percorso e al mio comportamento, o se piuttosto le decisioni del GOT non siano state funzionali alle “esigenze” dei vari apparati statali, quali D.D.A (Direzione Distrettuale Antimafia) e P.N.A (Procura Nazionale Antimafia), che a me non risultano affatto chiare.

Negli istituti succitati infatti a mio parere non si è proceduto a un rigoroso vaglio della mia posizione in relazione ad un’eventuale declassificazione.

Questo nonostante che il provvedimento di “REVOCA” del regime di 41 bis emesso dal Ministro della Giustizia fosse di palmare evidenza (“vista la nota del 15 dicembre 1999, pervenuta il 22 dicembre 1999, con la quale la Procura Distrettuale della Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l’ambiente criminale associato di appartenenza (…) il Ministro revoca il decreto ministeriale del 23 dicembre 1999 con il quale era stato disposto nei confronti del detenuto il regime detentivo speciale di cui all’art.41 bis, 2° comma, dell’Ordinamento Penitenziario”).

La mia assegnazione al circuito ASl, per i motivi generali che la determinano, non appare legittima, anche alla luce della circolare DAP 21104/2009 n. 3619\6069, nonché della Circolare DAP 09/0112007 n. 20.

Ed invero, se l’inserimento dei detenuti nel circuito AS è riconducibile “più che alla pericolosità individuale, alla appartenenza degli stessi ad una organizzazione, e dunque alla potenzialità di interagire con le compagini criminali operanti all’esterno della realtà penitenziaria, ovvero di determinare  fenomeni di assoggettamento e reclutamento criminale”, nel senso che “a meritare una attenzione maggiore e dunque una ‘elevata’ o ‘maggiore sicurezza’ non è quindi l’individuo in sé, ma la compagine cui egli appartiene, con la sua capacità di condizionare, dentro e fuori il circuito penitenziario, l’ordinario svolgersi dei rapporti sociali, e di fungere da moltiplicatore dei fenomeni criminali”, conseguentemente non vi è ragione alcuna di mantenere tale assegnazione nei miei confronti, visto che già si è decretato “di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l’ambiente criminale associato di appartenenza”.

Un primo aspetto che merita di essere preso in considerazione è che nella mia biografia giudiziaria sono totalmente assenti condanne recenti per reati associativi, e neppure esiste all’esterno una cosca di riferimento. Inoltre l’esame della mia condotta carceraria porta alla luce elementi positivi, quali l’assenza di comportamenti scorretti e una costante dedizione allo studio. Senza trascurare che da alcuni anni ho intrapreso gli studi universitari, che tra mille difficoltà, poste negli istituti in cui sono stato in passato, sto ancora cercando di portare a conclusione. Infine, non per ordine di importanza, mi è stato consentito di far parte della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”.

Tutti elementi che credo esprimano una sincera adesione all’opera rieducativa posta in essere negli istituti di detenzione nei quali sono stato ristretto. Tuttavia, benché siano trascorsi oltre quindici anni, la mia permanenza nel circuito A.S.1 continua inspiegabilmente!

Affinché possa essere giustificato e legittimato questo stato di fatto, o sia invece finalmente dimostrata la sua illegittimità, se si continua a tenermi nel circuito AS1 con la motivazione di miei collegamenti con l’ambiente criminale di appartenenza, sono pronto a essere denunciato e processato per concorso morale con ogni forma di criminalità organizzata operante in tutto il territorio del brindisino. Purché finalmente qualcuno porti uno straccio di prova.

 

 

 

Siamo rimasti in quattrocento… eravamo giovani e forti, ora siamo dei sopravvissuti

 

di Giovanni Donatiello

 

Siamo rimasti in quattrocento… credo sia questo all’incirca il numero dei detenuti assegnati al circuito Alta Sicurezza 1, dislocati nelle varie carceri italiane. Tutti, con rare eccezioni, proveniamo da lunghi periodi di tempo in cui siamo stati sottoposti al regime del 41 bis. Così accade che nel momento in cui il suddetto regime ti viene revocato, provi una sensazione di liberazione, ti illudi che il peggio sia alle spalle. Sotto un certo aspetto questo è vero in quanto, restando per diversi anni nel circuito del 41 bis, si perde quel minimo di autonomia, di “disponibilità” della propria persona, perché le regole sono al limite della tortura o meglio sono una vera e propria tortura. Regolamenti e trattamenti che tendono alla depersonalizzazione, mirando ad annullare l’individuo e ad assoggettarlo al regime e alle sue brutture quotidiane.

Il sollievo che si ha nel passaggio dal regime del 41 bis al circuito A.S.1. durerà ben poco. Infatti, con il trascorrere degli anni si incomincia a realizzare quale sia la condizione in cui si è stati sbattuti. Ci si rende conto che è come trovarsi su un binario morto, e tu stai li, e vedi passare treni in entrambe le direzioni. Come un treno fermo con gli stessi vagoni ci si ritrova per lunghi anni in queste sezioni con gli stessi detenuti con i quali ti sei detto e ridetto le solite cose, hai fatto e rifatto le solite cose, tutto: un continuo di nullità, una realtà immobile. Si una vera e propria stagnazione sia sotto l’aspetto relazionale sia sotto l’aspetto delle prospettive.

Un’altra peculiarità della composizione di questi circuiti è la lunga carcerazione che tutti hanno subito. Infatti, la stragrande maggioranza si trova in carcere da almeno venti anni se non venticinque e anche trenta, ma gli anni da scontare non basteranno mai, considerato che sto parlando di persone condannate all’ergastolo, all’ergastolo ostativo! Tanto basta per rendersi conto che nella migliore delle ipotesi ci si ritrova di fronte a persone sostanzialmente stanche e inaridite, a cui il carcere ha tolto anche la voglia di sognare.

Questo quadro non è affatto un’esagerazione, è la realtà, una dura realtà che si patisce giorno dopo giorno. In questo contesto le sezioni A.S.1 si trasformano in veri e propri ghetti. La causa principale sono le preclusioni previste dalle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che prescrivono una serie di limitazioni in materia di lavoro, di partecipazione ad attività culturali e ricreative. Infatti, viene posto sempre in rilievo il problema della sicurezza, e in questo modo le opportunità si riducono al minimo: lavori esclusivamente all’interno della sezione, attività culturali e ricreative inesistenti, fatta eccezione per i corsi scolastici.

Un passaggio obbligato per cambiare la propria condizione è quello della declassificazione, obiettivo a cui tutti ambiscono non più per sognare, ma per illudersi che la propria situazione possa evolversi in modo positivo, magari supponendo che la declassificazione stessa possa essere un viatico per l’accesso ai benefici penitenziari, ipotesi del tutto infondata posto che lo sbarramento dell’art. 4 bis O.P. si può superare solo con l’istituto della collaborazione art. 58 ter O.P.

E ci ritroviamo così in un circolo vizioso senza via d’uscita. perché la maggior parte dei soggetti ristretti in questo circuito non accetta la collaborazione. Infatti, questo prerequisito è visto, giustamente a mio avviso, come una ulteriore ingiustizia verso la persona. Non si può chiedere a una persona di collaborare dopo che ha espiato oltre vent’anni di carcere, e ha scelto così anche di proteggere la sua famiglia, lo spirito di questa norma è solo di matrice repressiva.

Credo che siano maturi i tempi per un’attenta riflessione riguardo a una modifica sostanziale di questo circuito. La sua finalità principale è il controllo accurato del soggetto. Se questa esigenza potrebbe sembrare giustificata nel primo periodo di assegnazione al circuito in questione, appare del tutto ingiustificata la lunga permanenza in quel circuito, che a volte dura anche per decenni. Infatti, le declassificazioni, di pertinenza del DAP., sono divenute sporadiche, con questo metodo non si hanno prospettive di nessun genere. Allora di fronte a questo stato di cose bisogna chiedersi quale sia la vera funzione del circuito A.S.1..

Non credo sia un azzardo sostenere che un circuito così pensato e soprattutto attuato abbia una finalità persecutoria, contravvenendo, come spesso accade, ai dettati costituzionali dell’art. 27.

Un primo passo sarebbe quello che si riappropriassero della competenza delle declassificazioni i direttori, che attraverso il loro lavoro di osservazione del detenuto possono far valere le valutazioni del percorso risocializzante e rieducativo che quasi sistematicamente vengono disattese dal D.A.P.. Questo metodo, di ignorare i percorsi delle persone chiuse in quei circuiti, non solo è causa della ghettizzazione del circuito stesso, ma è anche causa di spreco di quelle risorse limitate che non solo dovrebbero essere utilizzate con più costrutto, ma soprattutto incentivate.

Sempre in questo senso, un’altra proposta potrebbe essere quella di istituire all’interno degli istituti, dove sono previsti questi circuiti, una commissione preposta esclusivamente alla valutazione del percorso rieducativo del condannato, che potrebbe essere prevista con scadenza annuale. In tal modo si avrebbe effettivamente sia una continuità trattamentale sia un fattivo utilizzo delle risorse.

In sintesi, credo che necessiterebbe un riordino che vada nella direzione di un decentramento amministrativo, affinché si ponga fine a questo sistema. Altrimenti… continueremo a sopravvivere ugualmente, nella consapevolezza che non di vita si tratta, ma di pura sopravvivenza.

 

 

 

  Il tuo destino lo decido io

 

di Biagio Campailla

 

“Niente più mafiosi al due palazzi di Padova, Alta sicurezza verso la chiusura”: era questo il titolo di un quotidiano padovano qualche giorno fa.

Mi chiamo Biagio Campailla, condannato alla pena poco umana dell’ Ergastolo Ostativo, sono stati tanti gli anni passati in regime di 41bis, area riservata, forse neanche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sa come si vive in quel regime, che ti toglie ogni genere di dignità, parola, affetti, emozioni, dolori, trasformandoti in un mostro, che semina solo odio, rabbia, vendetta verso le istituzioni, un regime dove finiscono le persone che per lo stato sono nemici, sono dei cattivi e mostri per sempre. In tale regime ci vai a finire prima di essere giudicato, tanto se ti andrà bene, e sarai assolto, se la caveranno solamente con: “Scusa ci siamo sbagliati”, intanto hai subito il regime di tortura. E se ti lamenti, sicuramente, la DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) troverà un pretesto per dire che sei un mafioso per sempre. Questo regime, che è stato introdotto dopo le stragi che hanno ucciso Falcone e Borsellino per evitare contatti tra le persone affiliate, è aggravato nel nostro Paese dall’art 4bis che rende difficile se non impossibile l’accesso ai benefici. Il nostro è un paese che ha promosso la moratoria contro la pena di morte, che si definisce uno stato democratico, ma mantiene la pena di morte viva, come chiamiamo l’ergastolo ostativo. Anche papa Francesco dichiara che l’ergastolo è una pena di morte nascosta. Dopo 10, 20, 25 anni decidono di diventare buoni, umani ti declassificano in un circuito meno pesante, Alta Sicurezza 1.

La declassificazione viene concessa quando la DDA dichiara che non c’è più nessun collegamento con il gruppo affiliato o che il gruppo non è più esistente. Arrivi nel regime AS1 e tutti gli operatori devono recuperare questo essere umano, devono fargli riacquistare la parola, riabituarlo a rimanere con altre persone in cella, portarlo a contatto fisico con i familiari, come se rinascesse di nuovo. Inizia così ad andare a scuola, inizia a farsi da mangiare, inizia la confusione tra i suoi pensieri. In questo percorso di reinserimento inizi a partecipare ad alcune attività trattamentali fino a che però una certa parte delle istituzioni decide che tale trattamento deve finire, per quale motivo? Ancora non ti sei ripreso dal coma del 41 bis, che ora si rischia di ricominciare daccapo, allora non capisci nulla, inizi a farti mille domande: che cosa ho fatto di sbagliato per ritornare cattivo?

Nessuno ti spiega nulla, allora le persone più competenti ti consigliano di chiedere la declassificazione, cioè un regime uguale a questo, si chiama Alta sicurezza 3, se finisci lì ci puoi passare altri 10, 15 anni. La risposta che ti viene data è “Guarda che puoi considerarti fortunato se ti daranno questa declassificazione”. Ma ancora non capisci, chiedi perché? Perché bisogna chiedere il parere alla DDA per verificare che non ci sia ancora un collegamento con i tuoi affiliati. Poi ti arriva il diniego della declassificazione, perché il parere della DDA non è favorevole, perché c’è il sospetto che ci siano ancora rapporti con gli affiliati. Vai a vedere i rigetti dei tuoi compagni e vedi che cambia solo il nome e cognome, il resto è uguale. Cerchi di chiedere spiegazioni, ma ti viene detto solo che la DDA ha inviato parere negativo, ancora non capisci nulla ma cerchi di chiederti “ma come, quando è stato revocato il regime di 41 bis, la DDA diceva che io non facevo più parte del gruppo, adesso significa che è rinato tale gruppo?”. Ci capisco sempre meno, capisco che decidono loro quando devi diventare buono o cattivo, non serve fare qualsiasi percorso, tanto decidono loro cosa fare di te, tutte le persone, che con fatica ti hanno fatto diventare umano e persona buona, quasi le detesti, vorresti dirgli: forse era meglio che non mi educavate, non mi svegliavate da quel coma, almeno rimanevo nel mio mondo, “cattivo per sempre”.

 

 

 

Il regime del 41 Bis ti fa diventare un mostro

 

di Biagio Campailla

 

Nel momento del mio arresto vengo messo in regime di 41 Bis, area riservata, che è un isolamento totale. All’inizio pensavo che era solo per il tempo prima che m’interrogasse il giudice, ma sono passati dieci anni prima che mi facessero ritornare alla detenzione con altri detenuti.

Tanti mi chiedono: “Come passavi le giornate in quei dieci anni?”. Chiuso in una cella di 1,5 m. di larghezza, per 3,52 di lunghezza, cella 56, area riservata di Ascoli Piceno.

La mia giornata era sempre quella, alzarmi la mattina alle 6,00, iniziare a fare le pulizie della cella, finché alle 8,30 entravano gli agenti penitenziari che con un martello battevano sulle sbarre, poi andavo per un’ora al passeggio da solo in uno spazio di 15 metri quadri, con muri alti 6 metri, rete di ferro sopra, come un animale chiuso in gabbia, era difficile vedere anche il sole. A volte, arrivava un raggio di luce e cercavo di guardare verso l’alto, in modo da allungare la vista. Quando ritornavo in cella trovavo un po’ di “libertà”, solo per il motivo che non avevo la telecamera che mi osservava, tranne seandavo in bagno, perché anche in quel luogo che dovrebbe essere intimo non avevo privacy.

Con gli anni preferivo stare sempre più chiuso in cella, non mi piaceva neppure andare al passeggio in quella misera ora d’aria, mi ero creato il mio mondo, mi sentivo più “felice” nel rimanere dentro quelle quattro mura buie, potevo fare i miei discorsi da solo, potevo creare le mie palline di carta e far finta che giocavo a Carambola.

Nella mia “zona” credevo di sentirmi meglio, lì almeno nessuno mi diceva se avevo ragione o torto, ma questo mio comportamento dava fastidio a qualche agente; tante volte, senza un motivo, venivanoa provocarmi con le perquisizione buttando tutto a terra, oppure, se volevo parlare con il dottore, non mi scrivevano nella lista per la visita, oppure bloccavano le infermiere per non farmi dare la terapia.

Qualcuno si inventava di tutto per farmi uscire la rabbia. Questo mi portava a reagire e prendere delle denunce, oppure rompere tutto dentro la cella: anche se avevo il bagno, lavabo e letto fissati ai muri o a terra con bulloni di ferro ed era difficile rompere tutto, ma si accumulava in me così tanta rabbia che ci riuscivo, a staccare tutto. Questo mi portava sempre a chiudermi di più e ad accumulare solo odio e rabbia verso le istituzioni.

Con il tempo questo mi ha portato a non parlare più con nessuno, sono arrivato al punto che quando facevo quel misero colloquio di un’ora al mese con la mia famiglia non sapevo più dialogare, era diventata una tortura fare il colloquio con i miei cari, volevo solamente tornare nella mia cella in modo che potevo fare i miei ragionamenti da solo.

 

Come sono arrivato al punto che non volevo più vedere i miei figli e la mia famiglia

 

Un giorno faccio il colloquio con le mie figlie e mia moglie, lei mi comunica che una delle figlie non era venuta perché c’era un problema. Io mi sono sentito morire perché non potevo intervenire in suo aiuto, e mi sono sentito assalire dal panico. Chiedevo a mia moglie di darmi notizie dettagliate, lei voleva nascondermi il problema, io allora ho iniziato ad alzare la voce,: “Mi devi dire cosa sta succedendo alla bambina”. Lei mi ha promesso che appena arrivava a casa andava in ospedale e mi dava notizie per scritto, anche con un telegramma.

Sono stati i giorni più difficili della mia vita, aspettavo quella informazione, minuto per minuto, ma non ricevevo nessuna notizia, finché mi viene notificato un blocco della censura, cioè che era stata bloccata una lettera in entrata di mia moglie. Era quella lettera che aspettavo con ansia e disperazione, mi dicono che c’è una parola che poteva essere un messaggio in codice. Prima deve essere controllata dal Magistrato di Sorveglianza e dal corpo di Polizia Giudiziaria.

Non sapevo come fare per avere notizie di mia figlia, inizio a scrivere io a mia moglie, dicendo: “Mi è stata bloccata la lettera che tu mi hai inviato, vieni a trovarmi al colloquio il mese prossimo”. L’indomani ricevo una notifica nella quale viene scritto che la lettera che avevo inviato a mia moglie è stata bloccata dalla censura con motivazione che io avrei potuto rispondere al messaggio contenuto nella lettera che mia moglie mi aveva inviato. Il sangue mi è salito alla testa, le mie prime parole di risposta sono state: “Veda che io non ho ricevuto la lettera da mia moglie perché l’avete bloccata, cosa devo inviare come messaggio se non so il contenuto della lettera in arrivo?”. La risposta dell’agente penitenziario è stata: “Si rivolga al magistrato!”. La mia pazienza era finita, inizio a spaccare tutto dentro la cella, inizio a rompere il lavabo, stacco gli sportelli degli armadietti, tutto quello che mi capitava davanti. Arrivano una ventina di agenti della polizia penitenziaria del G.O.M (Gruppo Operativo Mobile) che è un gruppo speciale per le persone detenute al regime di 41 Bis. Nel vedere tutto quel gruppo perdo il controllo totale della mia pazienza, il mio pensiero era: “Adesso iniziano a darmi botte”. Mi viene d’istinto di lanciare tutto quello che mi trovavo nelle mani, per evitare un assalto dentro la cella. Per finire, hanno capito che ero uscito fuori di testa, così me la sono cavata solo con una denuncia per danneggiamenti, tentativo di oltraggio a pubblico ufficiale, ne sono uscito con 800 € di multa e un rapporto disciplinare che non mi farà ottenere i 90 giorni di liberazione anticipata al mio fine pena, che per me non sono utili dato che sono condannato alla pena dell’ergastolo e non posso finire mai la mia pena.

Dopo qualche mese mi viene restituita la lettera, dove erano state visionate quelle parole che potevano essere dei messaggi: “Biagio, sono stata all’ospedale, dove ho trovato la bambina che sputava sangue dalla bocca, il dottore mi parlo con mia moglie, c’erano anche le mie figlie, comunico tale decisione.

È stata una grossa ferita al cuore per tutti, preferivo che loro non mi vedessero più dietro quel vetro, era assurdo fare dei lunghi viaggi per vedermi in quei sessanta minuti di dolore. Finisce che per anni non vedo le mie figlie, non ricevo più posta, non le ho più viste crescere, non sapevo più niente di loro, il mio dolore era forte, ma preferivo così, almeno le istituzioni non potevano giocare con i sentimenti della mia famiglia. Questa lontananza ha portato sia la perdita dell’affetto con due delle mie figlie, che un raffreddamento con mia moglie. Nel loro pensiero dicevano: “Si è dimenticato di noi!”, non hanno capito che le proteggevo. Oggi ho recuperato il rapporto con le mie figlie, e ho saputo da loro tante cose che mi avevano taciuto, i loro traumi dopo il mio arresto, le umiliazioni che subivano quando venivano ai colloqui, la loro crescita senza un papà vicino. Due delle mie figlie, ancora oggi, quando sentono il rumore di cancelli e chiavi, è come se avessero un senso di soffocamento.

Oggi ho più vicino mia figlia Veronica, mi segue nel carcere di Padova, le viene molto più facile venirmi a trovare, le altre figlie abitano in Belgio, oggi sono sposate, sono mamme, hanno una loro famiglia da gestire, non posso neanche pretendere nulla, io sono il papà che le ha lasciate da sole, il papà che non era presente mai, il papà che non voleva più vederle al colloquio, il papà che non voleva più le loro lettere, forse il papà che era diventato un mostro dietro quelle sbarre.

Oggi con il mio percorso con la redazione di Ristretti Orizzonti, principalmente con il “Progetto scuole – carcere”, sono riuscito a capire che il regime di 41 Bis mi aveva fatto diventare un mostro, non sentivo più dolore, non provavo più emozioni, volevo allontanare tutti in modo che quando io ricevevo del male da parte di qualche persona delle istituzioni, potevo contraccambiare con altrettanto male, volevo far provare il mio stesso dolore. Oggi rifletto, è giusto che se ho sbagliato io sconti una condanna, non credo

giusto che i familiari paghino più di me. Spero di poter recuperare un rapporto più ampio con le mie figlie, certo è che ho perso molto della loro vita. Io dico sempre che l’affetto c’è finché stai loro vicino, quando le hai cresciute, quando hai lasciato e vissuto con loro dei bei ricordi. Di fatto io ho lasciato solo dei brutti ricordi.

 

 

 

  O le istituzioni sono mie complici o… qualcuno dichiara il falso!

 

di Agostino Lentini

 

Mi chiamo Agostino Lentini, sono nato il 17 ottobre 1965 a Castellammare del Golfo (TP), attualmente mi trovo recluso nella sezione di Alta Sicurezza 1 di Padova. Mi trovo in sezioni A.S.1 fin dal giugno 2006 quando mi è stato revocato il regime del 41 bis.

Da allora ho cambiato tre carceri, Sulmona, Spoleto e ora Padova, malgrado siano trascorsi quasi nove anni dalla revoca del 41 bis non so darmi spiegazioni per cui ancora mi trovo ristretto in queste sezioni senza mai aver avuto una declassificazione.

Inoltre, non mi spiego a cosa serve un percorso intramurario, con la chiusura positiva di due sintesi, con l’inserimento agli studi (a breve mi diplomo), con l’inserimento al lavoro, con il percorso con gli assistenti sociali, a cosa serve tutto questo se in questo lasso di tempo trascorso, e malgrado la revoca del 41bis a cui si fa riferimento, dovuta al fatto che non avevo più contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, a tutt’oggi non c’è speranza che venga declassificato da questo circuito.

Eppure in tutti questi anni che mi trovo in questo regime, né io, né i miei familiari abbiamo avuto qualche problema giudiziario, per questo continuo a chiedermi il perché di questa lunga permanenza in questo circuito restrittivo.

Dalle relazioni del D.A.P. mi pare di vedere una specie di “copia incolla” sul fatto che io manterrei rapporti con la criminalità organizzata di appartenenza.  Ma considerato che i rapporti che io intrattengo sono di natura epistolare e telefonici sia con la mia anziana madre, di 86 anni, che con la mia famiglia che vive all’estero, evidenzio che c’è qualcosa che suona strano.

Se infatti continuo ad avere rapporti con la criminalità tramite i familiari, come mai la mia famiglia non ha ricevuto neanche un avviso di garanzia? Non voglio credere che le istituzioni preposte mi stiano “favoreggiando” con un tacito silenzio.

Il paradosso dei paradossi è che, con il 41bis avevo possibilità di difendermi andando ad impugnare un Provvedimento restrittivo dinanzi ad un Tribunale di Sorveglianza, con il regime di A.S.1 subisco le conseguenze di essere un ex 41 bis e vengo accusato di mantenere rapporti con la criminalità organizzata con motivazioni spesso generiche e non dimostrate, senza avere la possibilità di difendermi.

Forse dovrei pretendere che la legge sia rigorosa nei miei confronti. Perché se è stato provato che i miei familiari hanno avuto un qualche ruolo nei miei presunti contatti con la criminalità, non mi spiego come mai non sia stato emesso nessun avviso di garanzia o non sia stata fatta un’ordinanza di custodia cautelare in tutti questi anni. O le istituzioni sono mie complici o… qualcuno dichiara il falso!

 

 

 

  Pericolosità a convenienza

 

di Tommaso Romeo

 

Il 2 Giugno 2009, mi trovo nella cella di isolamento nel carcere di Ascoli Piceno, in quanto, dopo otto anni che ero sottoposto al regime del 41bis, mi viene revocato. Ho in mano l’ordinanza di revoca che dice “Dall’istruttoria espletata, sono emersi elementi precisi e concordanti da ritenere che non sussista nessun collegamento tra il reclamante con l’organizzazione criminale, e né che il predetto abbia compiuto atti che possono essere qualificati come partecipazione alle attività dell’organizzazione criminale e come mantenimento di contatti con gli altri affiliati, pertanto decade la pericolosità e accoglie il reclamo”.

Lo stesso Giudice di sorveglianza, nel maggio 2009, nell’ordinanza per la concessione del beneficio della liberazione anticipata dice: “In considerazione del fatto che il detenuto non ha posto in essere comportamenti tali da far desumere la volontà di avere contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, e dalla relazione comportamentale trasmessa dal carcere di Ascoli Piceno emerge che il condannato sì è comportato correttamente con compagni e operatori manifestando impegno nelle attività lavorative”.

16 Febbraio 2015, il Giudice di sorveglianza di Padova motiva la concessione del beneficio della liberazione anticipata sostenendo che “il condannato ha serbato una condotta regolare ed adesiva al trattamento, dando prova di partecipazione all’opera di rieducazione e reinserimento sociale”.

Ebbene, tolto il 41bis, arrivo nel carcere di Padova. Dopo un paio di mesi mio padre viene ricoverato per un tumore. Faccio istanza di permesso per andare a trovarlo all’ospedale, ma mi viene rigettata perché le informative mandate dalle forze di polizia e DDA mi ritenevano pericoloso in quanto il mio gruppo criminale di appartenenza è attivo. Giustamente mi sono domandato: ma come è possibile se mesi prima mi viene revocato il 41bis dicendo l’opposto?

 

 

 

  Ristretti Orizzonti, e la convinzione che non ci siano “cattivi per sempre”

 

Provate a mettere un ergastolano ostativo, un “cattivo per sempre”, un condannato passato dal 41 bis all’Alta Sicurezza e stritolato da anni di carcere duro, di fronte a cento studenti sanamente curiosi e interessati a CAPIRE di più delle pene e del carcere. I ragazzi non si fanno intimorire, e se qualcuno gli racconta di quanto sia disumano il 41 bis, loro sono disposti ad ascoltare e anche a farsi venire il dubbio che forse c’è qualcosa di orribile in quel regime, però sono anche severi e non risparmiano nessuno, e la domanda la fanno sempre: ma tu, che cosa hai fatto per essere condannato all’ergastolo?

Nella redazione di Ristretti Orizzonti la vita è dura per i detenuti: perché a Ristretti si incontrano migliaia di studenti, si incontrano pezzi di società, e si incontrano tante vittime. E bisogna dare delle risposte, e sapersi mettere in discussione.

Per questo la sfida più appassionante, alla quale non vorremmo mai rinunciare, è stata quella di portare in redazione i “totalmente cattivi” e di avviare con loro un confronto acceso, duro, vero.

Al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiediamo allora: ma non è questo un vero percorso di responsabilizzazione?

Non è uno dei pochi laboratori in cui si sperimenta un percorso nuovo, con i condannati all’ergastolo ostativo che vanno a scuola di umanità da persone come Agnese Moro?

 

 

 

Niente giornalisti detenuti di Alta Sicurezza nella redazione di Ristretti Orizzonti

 

di Carmelo Musumeci

 

 

Nonostante che cerco di non stare mai fermo, studio, leggo, faccio ginnastica, lavoro al computer, insomma, cerco di vivere, ci sono dei giorni e dei momenti che mi accorgo che vivo e lotto senza speranza. (diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com)

 

Ci risiamo. Un’altra “deportazione” di carne umana. Era nell’aria. Ormai è ufficiale. La sezione di Alta Sicurezza del carcere di Padova sarà rottamata e i detenuti saranno trasferiti in altre carceri.

Oggi il direttore del carcere di Padova ha dato direttamente la notizia agli stessi detenuti. E non servirà a nulla che la legge penitenziaria prevede: “Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia” (Art. 42 O. P.). Neppure che “Nei trasferimenti per motivi diversi da quelli di giustizia o di sicurezza si tiene conto delle richieste espresse dai detenuti e dagli internati in ordine alla destinazione“ (Art. 83 comma I del Regolamento di esecuzione O.P.) perché il carcere è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto.

E la piovra penitenziaria fa sempre come gli pare se gli pare e quanto gli pare. Non servirà a nulla che a questi prigionieri, molti detenuti nel carcere di Padova da molti anni, sarà interrotto il percorso d’inserimento socioculturale (con assidui incontri con la società esterna locale e nazionale) che avviene per alcuni attraverso il lavoro e lo studio, per altri attraverso la frequentazione della redazione di Ristretti Orizzonti.

Eppure molti di loro sono culturalmente cambiati e cresciuti più con un paio di anni della frequentazione della redazione che con tanti inutili cancerogeni anni di carcere chiusi in una cella in sostanziale isolamento a parlare con le pareti della loro tomba. Ultimamente, grazie anche alla loro esperienza e testimonianza, la redazione stava affrontando argomenti scomodi come il regime di tortura del 41 bis, l’ergastolo ostativo, l’affettività negata e mutilata tra le sbarre, le sezioni ghetto dell’alta sicurezza e le deportazioni dei detenuti delle nostre Patrie Galere. Nella riunione di oggi a qualcuno è venuto il dubbio che forse la chiusura della Sezione di Alta Sicurezza è dovuta anche a questi percorsi di reale cambiamento, e al coraggio di affrontare temi complessi come questi circuiti ormai “incancreniti” da anni, perché poi se i criminali cambiano e smettono di essere mostri, nessuno avrà più argomenti per non umanizzare le carceri. E mi è venuto in mente l’articolo pubblicato sul manifesto dell’11 ottobre 2012, del direttore del carcere di Spoleto Giacobbe Pantaleone, quando sono stato trasferito nel carcere di Padova, dal titolo “Trasferimento degli ergastolani da Spoleto … l’illusione di rincorrere un’utopia” (…) E non è da escludere che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al gioco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può avere generato dei sospetti?

Eppure esso è stato portato tante volte all’attenzione dell’opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato portato dentro un progetto rivendicativo ottuso (…).

Credo che la storia si sia ripetuta, per fortuna nel frattempo sono stato declassificato ed ora spero che non trasferiscano anche la nostra direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero.

 

 

 

 

L’esperienza di Ristretti Orizzonti per uno che arriva da “Un altro mondo”

Dal mondo chiuso dell’Alta Sicurezza al mondo aperto del confronto con le scuole

 

di Giovanni Donatiello

 

Qualche volta, mentre mi recavo al passeggio, volgevo lo sguardo verso quel corridoio, dove c’è la redazione di Ristretti Orizzonti, la mia era più che altro una curiosità. Volevo capire, ma per quanto uno possa avere anche una fervida fantasia, non potrebbe minimamente immaginare cosa c’è dentro quel piccolo grande mondo.

Io provenivo dal carcere di Milano Opera, dove nel circuito dell’A.S. 1 non era consentito nessun tipo di attività, si doveva stare in cella venti ore al giorno chiusi. Ma a dirla tutta in questi ventinove anni di carcere non c’è stata una grande differenza tra gli innumerevoli istituti in cui sono stato detenuto.

Eccetto Padova!

Arrivare nel carcere di Padova è stato come se mi avessero catapultato in un altro mondo. Già nei primi mesi mi era stato permesso di frequentare un corso di lezioni di diritto privato durante il quale mi sono ritrovato “banco a banco” dopo quasi venticinque anni con altri detenuti che facevano parte della media sicurezza. Per me è stato il primo “shock”. Purtroppo è così, anche le cose più semplici ti sconvolgono quando vivi in un ambiente chiuso, e vieni a essere plasmato da quell’ambiente, e proprio i fattori ambientali prevalgono soprattutto in situazioni di costrizione, e ti annullano, proprio nel senso che non riesci a vedere oltre.

In maniera diametralmente opposta è stato l’approccio nel carcere di Padova. Infatti, a parte i vari corsi frequentati e l’aver ripreso gli studi universitari, la vera svolta è stata quella di essere stato autorizzato a far parte della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”.

È un’esperienza per davvero notevole sia sotto il profilo personale sia sotto il profilo relazionale. Giorno dopo giorno scopro nuove dimensioni.

Diversi sono i momenti in cui sono suddivise le giornate all’interno della redazione.

Un momento di grande importanza sono le riunioni di redazione che si tengono con frequenza giornaliera, qui si discutono le tematiche che devono essere affrontate poi sulla rivista. Ci si confronta nel rispetto della libertà di opinione, qualunque essa sia trova sempre il suo spazio. Questo tipo di organizzazione ti accompagna a farti accettare l’altro in ogni sua dimensione, un approccio che non trova facilmente riscontro all’interno del carcere, proprio perché il carcere ha delle sue dinamiche difficili da rimuovere, mentre in quello spazio sembra la cosa più naturale che possa esserci, come d’altronde dovrebbe essere affinché si possa sperare che il carcere svolga soprattutto la funzione rieducativa. Il momento più coinvolgente è l’incontro con gli studenti previsto dal progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, durante il quale, a parte il confronto che si ha con i ragazzi, c’è sempre un profondo momento di riflessione. È inevitabile, poiché avere di fronte decine di studenti che ascoltano, chiedono, ma soprattutto pensano ti rende responsabile anche della loro formazione culturale. Una situazione per davvero strana, coinvolgere in un compito così oneroso chi rappresenta nell’immaginario

collettivo quella parte di società considerata spesso “peggiore per sempre”. Ecco che ti trovi davanti ad un mondo nuovo, quel mondo che non potevo mai immaginare che si celasse proprio nelle stanze di quel corridoio cui volgevo sempre il mio sguardo. Un corridoio di un carcere!

Nella redazione non mancano gli incontri con personalità della società civile, sono spazi di cultura veramente importante che ti arricchiscono in tutti i sensi. Ultimamente ne abbiamo avuto uno con l’ex direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano, in cui lei ha definito la redazione di Ristretti Orizzonti “la goccia cinese” che cade inesorabile sulla testa dell’amministrazione, ovvero una specie di tortura. Una tortura per chi non vuole capire il lavoro, le rivendicazioni, gli obiettivi e le finalità utili per cambiare la vita delle persone detenute. Ma anche una tortura per chi difende il pregiudizio, il sospetto e l’ignoranza.

In quella “goccia” ho la fortuna di esserci anch’io: è un onere dal quale non voglio esimermi… e speriamo che me la cavi!

 

 

 

La “deportazione” degli uomini dell’Alta Sicurezza

Ho conosciuto uomini di queste sezioni perché la redazione di Ristretti Orizzonti è convinta che la possibilità di riflettere, di rivedere delle scelte, anche le più difficili da comprendere, va data a tutti

 

di Lorenzo Sciacca

 

Scrivo dal carcere di Padova, mi chiamo Lorenzo Sciacca e sono un redattore di Ristretti Orizzonti, giornale realizzato in carcere.

Ebbene sì, quello che in questi giorni accadrà nel carcere di Padova sarà una vera e propria “deportazione”.

Le persone che vivono nelle sezioni di Alta Sicurezza verranno “deportate” in altri carceri. Uomini che si ritrovano in carcere da più di 20 anni e alcuni da più di trenta, verranno trasferiti in massa.

Non so la vera motivazione per cui il DAP abbia deciso di smantellare queste sezioni, l’unica cosa che so è che ci sono persone che hanno iniziato un percorso, un’attività all’interno del carcere, ma qualcuno dall’alto ha deciso che si deve porre fine a questo tentativo di reinserimento nella società. Mi chiedo se veramente si vuole che le persone detenute siano inserite di nuovo in un contesto sociale, e la risposta non è certo positiva. Noi della redazione abbiamo sperato che si potesse trovare una soluzione che fermasse questi trasferimenti che erano nell’aria già da un po’ di tempo, e abbiamo tentato di far capire l’importanza di un percorso, intrapreso da tempo da chi è detenuto in Alta Sicurezza, a persone che hanno il potere di decidere della vita di altri uomini. Ma non è così facile, l’unica cosa che rimane da fare è cercare di portare a riflettere la società, quella parte di società composta da uomini e donne che forse hanno voglia di capire qualcosa di più.

Io so già lo scenario che si verrà a verificare… un giorno mi sveglierò con un gran frastuono di furgoni, guarderò fuori dalla finestra e vedendo ancora buio mi accorgerò che la notte sarà ancora fonda. Quella stessa notte che accompagnerà in sogni tranquilli le persone che hanno deciso in merito a questa “deportazione”, ecco in quella notte un centinaio di persone avrà grossi sacchi neri, per intenderci quelli della spazzatura, in mano, con dentro tutti gli effetti personali, pronti per essere perquisiti. Aspetteranno in celle di sicurezza, perché pur essendo in carcere la sicurezza non è mai troppa, aspetteranno, aspetteranno e ancora aspetteranno, con il pensiero rivolto alla propria famiglia, ai figli, ai genitori e poi il pensiero più brutto, il pensiero “buio” di una destinazione in cui quasi sicuramente perderanno tutto quel poco che si sono costruiti qui. Li faranno uscire da queste camere di sicurezza uno alla volta, gli metteranno delle manette ai polsi e faranno raccogliere ad ognuno il proprio sacco nero per caricarli sul furgone.

Ho conosciuto uomini di queste sezioni perché la redazione di Ristretti Orizzonti è convinta che la possibilità di riflettere, di rivedere delle scelte, anche le più difficili da comprendere per alcuni, va data a tutti, nessuno deve essere escluso perché siamo, pur avendo errori, siamo dei pari a tutti voi.

Cerco di immedesimarmi nelle famiglie di queste persone che fino all’ultimo non sapranno che ne sarà del proprio parente… non c’è umanità in questo. Alcune persone stanno perdendo quella sensibilità che è innata in un essere umano, tutti siamo persone sensibili e tutti siamo in grado di comprendere, ma molti cercano di estinguere questi buoni sentimenti perché vogliono mostrarsi superiori, vogliono dimostrare il “polso duro” in una società che avrebbe sempre più bisogno di umanità.

Ma una parte dello Stato non crede al fatto che le pene debbano essere umanizzate, non si piega a queste stupidaggini, ritiene che uno nasce cattivo e muore cattivo, e che una persona che ha commesso degli errori deve essere estirpata come l’erba malata… E invece noi osiamo pensare che si tratta di persone che possono dare un contributo in positivo nella società, perché l’essere umano si evolve, basta accompagnarlo a riflettere, a ragionare. Il più grande augurio che posso fare ai miei compagni è di tenere duro e di non perdere mai la speranza di una vita diversa. Non fatevi sopraffare da quella rabbia contro le istituzioni che ha caratterizzato le nostre vite, alcuni di loro questo vogliono, vogliono dimostrare che siamo nati cattivi.

La rivincita più grande che possiamo prenderci è riprenderci la vita che ci spetta di diritto, affrontare un giorno nuovo sempre con la speranza e con la consapevolezza che molte persone, pur essendo al di fuori di questi imperiosi muri, sono con noi, sono al nostro fianco per una lotta giusta.

Anche se portate l’etichetta di mafiosi, avete dato un grande contributo alla redazione di Ristretti Orizzonti e, personalmente, mi avete insegnato a non mollare mai. Questo è quello che chiedo oggi a voi. Non mollate, non arrendetevi all’idea di dover tornare a essere “cattivi per sempre”.