Incontro in redazione con Francesco Viviano, giornalista, autore di “Io, killer mancato”

 

Un giorno ho deciso di ammazzare l’assassino di mio padre

Poi quell’uomo è uscito con un bambino in braccio, e io non ho sparato perché non me la sono sentita di ridurre quel ragazzino come mi ero ridotto io, senza un padre

 

a cura della redazione di Ristretti Orizzonti

 

È stata una sensazione curiosa, dentro alla redazione di Ristretti Orizzonti, in mezzo a detenuti comuni, ma anche a detenuti condannati per reati della criminalità organizzata, a uomini che hanno vissuto il regime del 41 bis e stanno vivendo l’orrore dell’ergastolo senza speranza, sentir raccontare una carriera, che poteva essere da killer della mafia e invece è stata da fattorino dell’Ansa fino al traguardo di diventare un grande giornalista. A raccontarla è stato Francesco Viviano, inviato di Repubblica e autore del libro “Io, killer mancato”, questo è il resoconto di quell’incontro.

 

Ornella Favero: Abbiamo ospite oggi Francesco Viviano che è un giornalista, un corrispondente particolarmente interessante per noi che ci occupiamo di questi temi: “Io, killer mancato”. Questo

libro ci permette una riflessione più profonda su queste storie che nascono nel sud del nostro Paese, perché penso a quando, negli incontri con le scuole che facciamo qui in carcere, Carmelo Musumeci

inizia la sua testimonianza a partire dai luoghi in cui è nato e da quanto quei luoghi ti portino con

più facilità a una scelta di illegalità. Tanto è vero che Carmelo ha scritto una recensione su questo libro definendosi “Io, giornalista mancato”, perché se Francesco Viviano appunto poteva diventare un killer e la sua strada invece è stata diversa, così tanti altri forse in quel contesto non sono riusciti a dare una svolta alla loro vita, e sono rimasti in quell’ambito di illegalità che poi ha portato a scelte di un certo tipo. Allora io adesso darei la parola a lui per parlarci di questo libro e della sua esperienza, poi potete fare delle domande, perché ovviamente qui verranno fuori delle di Repubblica ed è autore di un libro che già dal titolo è questioni legate all’altra faccia del problema, e cioè di chi non è stato un killer mancato e il perché è arrivato a certe scelte.

Francesco Viviano: Mi chiamo Francesco Viviano, sono nato il 26 febbraio 1949 a Palermo. Faccio il giornalista. Ho scritto questo libro, “Io, killer mancato”, che è un po’ la mia autobiografia, perché sono nato in un quartiere di Palermo, Ballarò, un quartiere ancora oggi malfamato, abitato da povera gente, borseggiatori, rapinatori, ma anche da persone per bene. E in qualche maniera quando sono nato, o meglio quando sono diventato orfano avevo un destino predestinato. Mio padre infatti viene ammazzato a 22 anni, lui era un ladro, semplicemente un ladro. Mio nonno era un malandrino, non un mafioso, che è una cosa un po’ diversa e per gli addetti ai lavori è chiara la differenza. Il mafioso è uno strutturato, che fa parte di una organizzazione, il malandrino è una specie di cane sciolto che si fa giustizia da solo oppure che si guadagna il rispetto o la stima del quartiere facendo certi atti, che spesso sono anche contrari ai dettami della mafia o di Cosa Nostra. Quindi, quando mio padre muore ammazzato a 22 anni perché va a

rubare in una conceria di pelle a Palermo, non era neanche armato. In genere un ladro, come forse voi sapete, non si porta armi appresso né un coltello né un documento,usa scarpe da tennis e tutti gli accorgimenti possibili per non essere riconosciuto nel caso in cui fosse beccato. E quindi non fu neanche un caso di legittima difesa il caso di mio padre, perché lui era pure disarmato, quando andò a rubare. Evidentemente erano andati a rubare altre volte in questa conceria, quindi il proprietario era sul chi va là e quando arriva mio padre assieme ad altri tre complici lo aspettano al varco, lui entra in questa conceria e viene subito ammazzato a colpi di fucile. Muore e lascia un bambino di 13 mesi che ero io e mia madre rimane vedova a 19 anni. Vivevamo in una casa che era la metà di questa stanza e ci abitavamo in 11: io, mio nonno e mia nonna, mio padre e mia madre e i miei zii. Alla sera quella casa si trasformava in un accampamento, però mi ricordo che era sempre pulita e ben sistemata nonostante l’affollamento. Quindi cresco senza padre, mio padre me lo ricordo tramite pochissime fotografie che mi sono rimaste e che ha conservato mia madre, e mia madre a 19 anni vedova, analfabeta, quindi in qualche maniera il mio futuro era “segnato”. Che tipo di mestiere potevo fare da grande con una situazione di povertà incredibile, mio nonno muratore, mio padre muratore e ladro, mia madre analfabeta? Quindi nasco in quell’ambiente lì e continuo a viverci per alcuni anni e l’unica legge che io conoscevo, gli unici esempi che avevo davanti non erano certamente quelli del figlio dell’avvocato, dell’imprenditore o del magistrato, ero figlio del ladro, tra l’altro ammazzato a 22 anni. Ma nonostante fossi povero e mangiassi una volta al giorno, e la domenica si mangiava pasta con le sarde a mare, cioè la pasta con l’odore delle sarde perché le sarde erano rimaste nel mare, stavo bene, non mi lamentavo. Mia madre si è dovuta dare da fare per “camparmi” e sostenere se stessa, lei inizia a lavorare in un magazzino di inscatolamento di sarde salate e di olive, però non sopportava quel tipo di lavoro e, a un certo punto, il proprietario di questa azienda le dice: “Enza, questo non è un lavoro per te”. Mia madre si mette a piangere, pensando che volesse buttarla fuori, ma lui le dice: “Non ti voglio licenziare, io conosco la tua storia, conosco che fine ha fatto tuo marito e se tu vuoi puoi venire a fare la cameriera in casa nostra”. Mia madre accettò di buon grado e quindi cominciò a lavorare in questa famiglia e io ero affidato alle cure di mio nonno e mia nonna che mi adoravano, eravamo un sacco di nipoti ma io ero il privilegiato perché ero figlio della buonanima, cioè di colui che era stato ammazzato. Io cresco in questo ambiente fino all’età di sette, otto anni, poi mia madre vuole andare via da lì perché mio nonno voleva farla sposare con il fratello di mio padre, ma non per una imposizione, è come una legge di quei tempi, si faceva così, ancora adesso nei paesi mediorientali si usa così. Mia madre non voleva farlo e scappa con me e andiamo a vivere in un altro quartiere, molto peggiore di quello in cui ero nato, che era San Lorenzo, la Piana dei colli, dove poi è spuntata la più grossa mafia di Cosa Nostra, i Gambino, i Madonia, i Riccobono, i Mutolo e tanti altri. Quindi i miei compagni di scuola erano questi, frequento questi ragazzi, e la mia conoscenza ambientale non è delle più facili. A quei tempi mio nonno voleva vendicarsi della morte di mio padre, allora arrivano dei mafiosi che lui conosceva e gli dicono: “Ciccio tu non ti puoi vendicare perché tuo figlio ha sbagliato, è andato a rubare dove non doveva andare e quindi non lo devi fare, e se per caso ti azzardi a vendicare tuo figlio, ammazzeremo anche i suoi complici”, quindi quelli che erano riusciti a scappare. Mio nonno si

ritrovò, come dire, con le spalle al muro perché se si fosse vendicato avrebbe messo a repentaglio anche la vita dei complici di mio padre che erano scappati. Però lui era furbo, quindi per aggirare l’ostacolo disse a mia madre di uccidere lei l’assassino di suo marito: “Enza, tu lo puoi fare perché sei una donna, sei una vedova, se lo ammazzi tu è considerato un gesto di una disperata e quindi non possiamo incorrere in rappresaglie da parte della mafia, perché potrò giustificarmi dicendo che non sono stato io a vendicarmi, è stata la moglie, è impazzita”. Mia madre però non è che era in grado di armarsi e andare a sparare all’assassino di mio padre, per cui non se ne fece nulla.

Quindi cresco in questo ambiente, in questo contesto però riesco ad andare a scuola, frequento le elementari, faccio le medie, le superiori e arrivo fino al 3° nautico, perché io volevo fare il capitano di marina, mi piaceva sognare, mi piaceva navigare, immaginavo sempre il mare, il mondo. Al terzo anno mia madre un giorno viene e mi dice “Figlio mio, non ti posso più campare perché non ho più la forza, i soldi non bastano, tu sei grandicello quindi non puoi più studiare”. In quel momento furono spezzati tutti i miei sogni. Io avevo allora delle frequentazioni poco “edificanti”, vedevo tutti i miei amici ben vestiti, pieni di soldi perché già da allora cominciavano a fare le rapine in grande stile prima di diventare capi mafia o killer di cosa nostra, e quindi mi crolla il mondo addosso.

In quel momento mi sentii arrabbiato con il mondo, stiamo parlando degli anni 60, e quindi in un attimo di follia decisi di vendicarmi, per cui andai a casa di mio nonno, sapevo dove nascondeva la pistola, una Taurus di fabbricazione brasiliana, una pistola a tamburo, la rubai, la nascosi. Io andavo sempre a casa di mio nonno, perché per me era un padre e mi portava sempre con lui, nelle cosiddette scampagnate dove avevo incontrato alcuni mafiosi dell’epoca, ma io non me ne rendevo conto, ero l’unico ragazzino ammesso a questi contesti, e non capivo niente, non parlavano di mafia erano grigliate, bevute di vino.

E così decido di ammazzare l’assassino di mio padre, ma ripeto fu un momento di rabbia perché in quel momento mi era crollato il mondo addosso. Quindi in quell’occasione inizio a fare “il giornalista” già da allora involontariamente, perché comincio a pedinare questo signore, che abitava vicino alla casa dei miei nonni, quindi conosco tutti i suoi movimenti e un giorno decido di andare ad ammazzarlo, quindi mi armo, vado a casa di questo tizio, sapevo che usciva alle sette e mezza ogni mattina, l’avevo già spiato ma stranamente quella mattina esce con un bambino in braccio, io non l’avevo mai visto, non sapevo neanche se era suo figlio o se era suo nipote, non lo sapevo e non l’ho mai voluto sapere. Per cui gli vado dietro con la pistola con il cane già alzato per sparargli alla nuca come lui aveva ammazzato mio padre, perché mio padre fu ammazzato con tre colpi in testa, e mentre sto per sparare c’è questo bambino che era appoggiato alla spalla del padre, con gli occhi che mi guardava e in qualche maniera mi sorrideva come se fosse stato un gioco, quindi quando sto per sparare mi vedo questo bambino in faccia e mi dico “ma che cosa sto facendo, sto ammazzando un uomo che probabilmente sarà suo padre o suo nonno e lo farò diventare come me, magari fra 20 anni questo tizio mi verrà a cercare”. Io però non ho sparato perché avessi paura che magari dopo mi avrebbe cercato, non ho sparato perché non me la sono sentita di ridurre quel ragazzino come mi ero ridotto io. Quindi rinunciai a questo omicidio, rimisi la pistola in tasca e me ne andai. Non dissi mai niente a mia madre né a nessun altro, l’ho scritto per la prima volta nel libro perché era inutile raccontare questa cosa in famiglia, però la mia rabbia non si concluse lì perché cominciai a fare tremila mestieri, il barbiere, il meccanico, il barista, il fattorino in negozi di pelletteria, insomma ho fatto di tutto e di più e guadagnavo quattro soldi e quindi ero ancora più incazzato di quanto lo ero prima, e i miei amici che mi dicevano “ma perché non vieni con noi?”. Non so perché ma mi rispettavano, non dico che avevo una marcia in più, ma ero abbastanza capace, tranne che qualche piccolo furtarello però non avevo mai fatto cose in grande stile. Quindi un giorno mi propongono di fare una rapina in una gioielleria a Piazza San Domenico, che è un quartiere arabo dove c’erano tutte le gioiellerie di Palermo. La sera prima ci rifletto e dico ai miei compagni di merenda “Non vengo”, non per paura, ma perché pensai a mia madre che vedevo uscire alle cinque della mattina e si ritirava alle sette di sera, faceva due, tre lavori come cameriera, e dissi: “Mia madre è una vita che si spacca le spalle per sopravvivere lei e per me, se domani mi arrestassero o mi sparassero e mi ammazzassero come mio padre, mia madre finirebbe di campare”. Per cui non spiegai le ragioni ai miei compagni, gli dissi che non ci potevo andare e quella fu la mia “salvezza”, perché il giorno dopo quando ci fu la rapina furono arrestati tutti e io rimasi libero perché non partecipai a quella rapina, e tutti i miei compagni che fecero quella rapina più altri che frequentavo sempre adesso sono al 41bis, alcuni sono condannati all’ergastolo, molti sono morti di lupara bianca.

 

Ma io com’è che ho fatto il giornalista?

È nato tutto per caso perché mia madre tra i vari lavori faceva le pulizie all’agenzia ANSA. Un giorno ebbero bisogno di un fattorino e quindi si rivolsero alla persona più umile dell’ufficio, che era lei, e alla fine mi assunsero come fattorino, andavo a comprare le sigarette ai giornalisti, portavo il caffè e tutti gli altri lavori umili che si potevano fare in una redazione. Siccome ero abbastanza sveglio, ero incazzato perché avevo smesso di studiare, ma per i fatti miei continuavo a leggere, a comprare libri, a comprare giornali e poi l’essere entrato in quel mondo cominciava ad affascinarmi. Nel frattempo mi sono sposato, avevo già due figli, poi da fattorino ero diventato impiegato, telescriventista. Quindi mentre sono ancora lì a fare il telescriventista, mi era rimasto sul groppo di non essere andato a scuola, di non essermi diplomato da capitano, e così a 26 anni ripresi la scuola e feci gli ultimi due anni che mi mancavano per diventare capitano, e contemporaneamente cominciai a collaborare con alcuni giornali. Prima mi occupavo di ciclismo e di calcio di categorie minori naturalmente, e poi diventai direttore di una televisione privata di Palermo. Facevo il telescriventista e il giornalista fuori dall’ANSA e dirigevo una televisione. Quindi lavoravo almeno 15/20 ore al giorno e siccome conoscevo gli ambienti, conoscevo la mentalità, conoscevo le psicologie dei criminali e dei mafiosi, molti erano miei amici, ma non ho mai avuto contatti, rapporti di lavoro tranne in una occasione, e quindi ero “bravo”, perché credetemi, lo sapete meglio di me, chi cresce in mezzo alla strada a 10 anni è come se ne avesse 20 rispetto a quello che fa il figlio di papà, ma per motivi fisiologici: stai in mezzo alla strada, ti devi dare da fare, ti devi arrampicare sugli specchi e quindi rispetto a loro in qualche maniera hai una marcia in più. Ad un certo punto l’ANSA mi assunse come giornalista nel 1982/83 e da allora incominciò la mia carriera giornalistica. Siccome ho fatto molti servizi “impossibili”, cominciai a farmi conoscere nel mondo giornalistico, perché lavorando per l’ANSA le mie notizie andavano a tutti i giornali, Repubblica volle l’esclusiva e quindi mi assunse e ho lavorato da allora fino ad ora in esclusiva soltanto per Repubblica.

 

Perché ho scritto questo libro?

Perché da 40 anni mi occupo delle storie degli altri, ma l’anno scorso è accaduto un fatto importante nella mia vita, ho avuto un cancro allo stomaco e mi avevano dato per morto, poi invece mi hanno tolto lo stomaco, funziono senza stomaco ma sto bene, funzionano esofago e intestino direttamente, però il mio corpo si è abituato e quindi scampando alla morte mi sono detto: o lo faccio ora o chissà quando, se muoio non lo faccio più.  Molte cose i miei figli non le conoscevano, ma io non ho mai nascosto niente a nessuno, certo non andavo in piazza a dire “io sono figlio di un ladro”, non c’era motivo, ma ai miei amici e alle persone che mi conoscevano ho raccontato la mia storia e quindi ho scritto questo libro “Io, killer mancato” perché potevo diventare davvero un killer. In questi frangenti per esempio uno dei vostri “colleghi”, che era detenuto per avere ammazzato due poliziotti nel mio quartiere ed era stato condannato a 30 anni di carcere, un giorno mi scrisse una lettera dopo tantissimi anni perché l’ultima volta che l’avevo visto era in un’aula bunker di Palermo, dove era tra 425 imputati, e quindi lo trovai in gabbia e durante una pausa del processo mi ci avvicinai lo salutai e gli dissi “Totò ti ricordi di me?”, lui non si ricordava, “sono Franco, Franco Viviano”, “ah sì, quello che scrive sui giornali”. Poi ci siamo persi di vista e dopo tanti anni mi scrisse una lettera dicendo: ma perché non ti occupi della mia storia visto che tu non ti fermi davanti a niente? In quei giorni avevo fatto uno scoop su un giornalista che era stato ammazzato, Mauro De Mauro, riuscendo a scoprire il contesto e il movente in cui era maturato l’omicidio. Chiesi allora il permesso di incontrare quella persona in carcere, ci incontrammo in una stanzetta molto più piccola di questa e lui mi disse: “Buongiorno, dottore”, scusate il termine ma io gli risposi “ma che cazzo mi chiami dottore? ci conosciamo da una vita, andavamo a ballare assieme, siamo usciti assieme per tanti anni”. Poi lui mi chiese perché non mi occupavo del suo caso e io gli risposi che il suo caso lo conoscevo, però tu dimostrami che quel giorno eri da qualche altra parte con qualcuno, una fotografia una cosa che mi possa testimoniare che tu sei innocente e io lo scrivo, ma senza nessuna pezza d’appoggio come faccio a scrivere che tu sei innocente? Se chiedo a molta gente che è in carcere se sono innocenti, molti mi dicono che lo sono, e può anche essere vero, ma se non c’è una prova non lo posso scrivere. E ci lasciammo così. Dopo 15 anni fu rimesso in libertà. Da un comune amico seppi che era libero e lo andai a trovare a casa. Gli bussai alla porta, lui si stupì del fatto che io fossi andato a trovarlo, e io gli dissi: “Ma che stronzo sei, mi hai scritto una lettera tanti anni fa e ora che sei uscito manco mi chiami per dire che ci prendiamo un caffè” e lui mi rispose “Guarda Franco, io l’ho fatto per rispetto tuo, perché tu fai il giornalista, io sono etichettato come mafioso, ho passato 30 anni in galera, quindi non ti ho chiamato non perché non volevo prendermi un caffè con te, ma perché non volevo in qualche maniera comprometterti”, e io a mia volta gli ho detto che non mi sarei compromesso perché vado in giro liberamente e incontro chi cavolo voglio. Passarono 20 giorni e lo hanno arrestato di nuovo e adesso è ancora al 41bis. In tutto questo, proprio 20 giorni fa, un mio cugino di primo grado che avevo battezzato io 43 anni fa, è stato definitivamente condannato ad altri 10 anni di carcere per associazione mafiosa e ne ha trascorsi già oltre 20 in galera. Siamo figli di fratelli, siamo uguali, non è che lui è più scemo di me o io più furbo di lui, forse è più furbo lui che io, però per dimostrare che il contesto spesso in questo mondo in cui viviamo è molto condizionante, ripeto che siamo figli di fratelli. Lui è rimasto a Ballarò, io non ci sono stato più per motivi di fortuna. Mia madre ha fatto la cameriera, poi è andata a fare le pulizie all’ANSA quindi mi si aprì questo spiraglio, non feci quella rapina, non ammazzai l’assassino di mio padre, una serie di coincidenze che alla fine mi consentono di essere qui con voi e di raccontarvi la mia storia.

 

Lorenzo Sciacca: Io invece sono nato a Milano e all’età di 10 anni sono andato a vivere con la mia famiglia a Catania, precisamente nel quartiere Librino.

Francesco Viviano: Sono stato un mese fa nel quartiere Librino. Lo faccio apposta, vado in questi quartieri “a rischio” perché mi piace avere un confronto, soprattutto con i ragazzi. Capisco che forse non serve a niente parlare o raccontare queste storie, però se magari uno su mille riesce a fare un’altra scelta è sempre un risultato.

 

Lorenzo Sciacca: Io non sono tanto d’accordo sul discorso “fortuna”, quando tu hai deciso di non ammazzare una persona, perché credo che ci sia stata una scelta. Se avessi ucciso una persona, avresti fatto anche la rapina che avrebbe dato inizio a una catena, a un’escalation, e un po’ mi viene in mente quando io ho commesso il primo reato, avevo 14 anni, mi venne fatta una proposta da persone del quartiere più grandi di me per andare a fare una rapina al nord, e dunque io la forza di dire NO non ce l’ho avuta e io lì ho deciso, e così ho intrapreso questa specie di “carriera”. Sottolineo il fatto che questo non toglie che nel quartiere c’erano altri ragazzi con problematiche familiari simili alle mie, con genitori carcerati, che però hanno fatto scelte diverse.  Vorrei sottolineare i problemi del sud, dei quartieri, della povertà, del degrado che ancora oggi c’è, questi fattori, la povertà e il degrado, portano tante volte a fare dei crimini, non è un alibi però è anche una delle motivazioni di chi è cresciuto in mezzo alla strada.

Francesco Viviano: La fortuna mi ha aiutato perché è un secondo, se non c’era quel bambino l’avrei ammazzato, e se non ci fosse stata mia madre che pensavo che si sarebbe ammazzata se mi fosse  successo qualcosa, sarei andato a fare quella rapina. Io avevo fatto altre cose, avevo fatto dei furti, poca roba ed è tutto in prescrizione quindi lo posso raccontare.

 

Sandro Calderoni: Io il libro non l’ho letto però da come l’hai raccontato mi accorgo che comunque siamo sulla stessa lunghezza d’onda, nel senso che il linguaggio che stai usando è un linguaggio che noi bene o male conosciamo perché siamo nati sulla strada. Mi colpisce molto il fatto che noi, proprio con il progetto con le scuole, andiamo a parlare con i ragazzi perché sono tutti convinti che le persone siano talmente razionali e che pensino sempre prima a quello che può succedere o a quello che devono fare. Secondo me il messaggio che hai voluto dare è il fatto che comunque non sempre ci si può muovere razionalmente, ci si muove anche con delle passioni e sarebbe importante se noi riuscissimo ad allenarci a pensarci prima, a fermarci, a “contare fino a dieci”. Noi con le scuole facciamo proprio questo lavoro, raccontiamo le nostre storie, come siamo finiti a commettere reati, perché forse parlando di più di questi comportamenti si riflette anche su come reagire e come muoversi diversamente.

Francesco Viviano: Una cosa che ho imparato in tutti questi anni, nella mia vita, è che ci vuole più coraggio, ma molto più coraggio a resistere che a reagire. A reagire non ci vuole niente, se in macchina hai un incidente e uno ti dice “cornuto, vaffanculo” reagisci subito. Io l’ho fatto, ho fatto talmente tante liti e mi è andata sempre bene per fortuna, da molti anni a questa parte però mi fermo, ma non perché non riesco più a fare a pugni o perché ho paura, no perché diventi più raziocinante, e ti chiedi: ma ne vale la pena?

 

Biagio Campailla: Io sono Biagio e sono siciliano anch’io della provincia di Catania, precisamente di Scordia. Ti volevo chiedere: il fatto che non hai premuto il grilletto è stato perché hai visto il bambino, o perché da noi in Sicilia non si uccideva qualcuno con un bambino in braccio, perché le regole erano di non toccare mai bambini e donne, ti ha bloccato quello oppure una coscienza che hai avuto verso il bambino?

Francesco Viviano: Io non volevo ammazzare il bambino, volevo ammazzare quell’uomo, quello che aveva ammazzato mio padre. Il bambino mi venne in faccia, non l’avevo considerato, quando ho visto il bambino che mi guardava, mi sono chiesto che cavolo stavo facendo.

 

Biagio Campailla: Il periodo in cui volevi vendicarti, come ti sentivi? e poi come ti sei rassegnato a non vendicarti? Perché quando uno vuole fare la vendetta sta male, è ossessionato, si ripete di continuo “tu devi morire perché mi hai tolto mio padre”.

Francesco Viviano: Io volevo vendicarmi, cioè ci avevo pensato in tutti quegli anni, ma non l’avevo messo in pratica. Nel momento in cui fui costretto ad abbandonare la scuola, perché mia madre non mi poteva più mantenere, ero incazzato con il mondo, quindi a quell’età, 16 anni, il mondo lo prendi e ti senti di rivoltarlo tutto, e io pensavo: ma perché non posso fare quello che sogno di fare, cioè andare a scuola mentre altri lo possono fare? Quindi ero in un momento di rabbia, di incazzatura bestiale e tentai di vendicarmi. Poi c’ho ripensato mille volte a quel momento, ma alla fine cosa avrei risolto se l’avessi ammazzato? Non avrei risolto nulla. Quando ho scoperto che mio padre era stato ammazzato, perché prima mia madre mi aveva detto che mio padre era morto in un incidente di lavoro, faceva il muratore ed era caduto da una impalcatura, poi frequentando le taverne dove mio nonno mi portava sempre io incontrai i complici di mio padre, che si lasciarono andare tra un bicchiere di vino e l’altro e mi raccontarono la storia, quindi la rabbia ti viene, cioè io non ho mai pronunciato la parola papà, non è una cosa bella, per fortuna adesso vengo chiamato spesso papà perché ho 5 figli e quindi papà papin me lo fanno uscire da tutte le orecchie, e sono contento di questo.

 

Tommaso Romeo: Io sono Tommaso e sono calabrese.

Francesco Viviano: Scusami, ricordo che proprio a Reggio Calabria a Locri sono andato in una scuola e un ragazzino mi fece questa domanda: “Ma non ti vergogni di non aver ammazzato l’assassino di tuo papà?”.

 

Tommaso Romeo: Siccome la nostra terra è piena di queste faide, ti volevo chiedere se quando hanno ucciso tuo padre avessi avuto 18- 20 anni avresti agito diversamente? Perché sai a saperlo dopo 20 anni la cosa si affievolisce, invece in quell’attimo lì… Forse il fattore scatenante è quello, perché uno a 18 anni si vede uccidere il padre e parte subito.

Francesco Viviano: Su questo sono d’accordo, cioè conoscendo la mia testa ti posso fare una ipotesi, se mi fosse accaduto in quel momento a 18 anni, se avessi saputo che qualcuno aveva ammazzato mio padre o mia madre sicuramente per il contesto di vita in cui vivevo forse avrei reagito malamente e mi sarei vendicato probabilmente. Però vi volevo dire un’altra cosa: probabilmente se mio padre, è paradossale quello che sto per dire e vi può sembrare anche blasfemo oppure irriverente, ma se mio padre fosse rimasto vivo forse non sarei qui, forse io avrei fatto il ladro non lo so. Mio nonno non lo era, era un gran lavoratore, mio padre era un ladro, mio zio il fratello di mio padre era pure un ladro, altri parenti miei erano tutti traffichini e borseggiatori, rapinatori e quant’altro.

 

Ornella Favero: Sulla questione della vendetta mi piacerebbe tornare, per approfondire il ruolo che hanno le donne, le madri in quel contesto, perché io ho sentito storie di madri che hanno spinto alla vendetta, quindi sarebbe interessante vedere questa catena del male, forse servirebbe che le donne per prime incominciassero a interromperla.

Francesco Viviano: Io prima che le madri, quando mi capita di andare nelle scuole, dò dei consigli agli insegnanti, perché mia madre andava a lavorare tutto il giorno,non la vedevo mai, l’unico punto di riferimento era la scuola, quindi i miei insegnanti, i miei compagni, il quartiere, la parrocchia, l’oratorio. E quando tu incontri insegnanti che non sono capaci di fare il proprio lavoro, che rimproverano i ragazzini perché non hanno capito, non sono stati attenti, e non gli spiegano nulla, questa è una cosa che fa incazzare ancora di più quel bambino e se ha dei piccoli problemi diventano ogni giorno più grandi. Quindi la parte fondamentale ce l’hanno gli insegnanti, perché è a scuola che cresce un ragazzo.

 

Antonio Papalia: Anche io sono calabrese come Tommaso, di Platì. Innanzi tutto io le faccio i complimenti perché ha avuto la forza, al momento di compiere la vendetta, di fermarsi, ma mi rimane un dubbio. Vorrei sapere come hanno reagito gli altri, perché lei per due volte ha disubbidito, diciamo, si è trattenuto dal compiere dei reati, però nella rapina come si è giustificato, che cosa ha detto? E non le hanno detto niente, gliel’hanno fatta passare così?

Francesco Viviano: No, io avevo il rispetto di queste persone perché avevo dimostrato in altre circostanze di essere capace di fare alcune cose. Di rapine se ne erano fatte diverse, anche di furti in appartamento, avevamo un basista, qualche compagno di scuola che era più ricco e sapevamo dove era il caso di andare. Quando tentai di ammazzare l’assassino di mio padre, quella era una cosa mia personale che non riguardava nessuno, ma per due motivi, uno perché avrei dovuto confidare a un altro che l’avrei ammazzato, quindi c’era già qualcuno che avrebbe saputo che l’assassino di quel signore sarei stato io, e siccome dico che un poco di furbizia a quell’epoca ce l’avevo, non ho mai detto a nessuno che stavo per compiere quella cosa. Perché un conto è che tu fai il furto o la rapina e quindi la polizia non ti cerca se non ti trova sul posto o non ha la spiata giusta, ma un omicidio, soprattutto di un personaggio importante, ce li hai tutti addosso e ti cominciano a scavare appresso, quindi io non confidai per motivi miei e personali, di sicurezza, a nessuno che andavo ad ammazzare qualcuno, altrimenti avrei lasciato dei testimoni, quindi un po’ furbo ero all’epoca.

 

Bruno Turci: Oggi per noi un incontro straordinario, perché tu hai vissuto in un mondo, diciamo, parallelo alla normalità, in bilico tra due mondi, quindi hai una cognizione di un certo tipo di vivere, e ti stai confrontando in una maniera bella, hai raccontato delle storie che hanno emozionato, e hai raccontato con una grande serenità e tranquillità. Hai detto che tu vai anche nelle scuole e questa è una cosa importantissima specialmente nel sud, ma i ragazzi delle scuole come ti vivono?

Francesco Viviano: Una volta un ragazzino mi disse: ma perché non ti sei vendicato, non ti sei pentito di non esserti vendicato? Io gli ho detto di no, perché per fortuna sono qui a raccontare quello che è successo, no, non mi sono stupito del fatto che quel ragazzino mi abbia posto questa domanda, non mi sono stupito per niente, come non mi stupiscono altre situazioni. Contemporaneamente in quell’incontro un ragazzo fuori dall’assemblea e dalla discussione è venuto a parlare con me da solo e quando gli ho chiesto “Ma tu cosa vorresti fare da grande?”, lui mi ha risposto “Il carabiniere”.

 

Giovanni Zito: Io sono di Librino (Catania) ed ero un semplice ragazzo che lavoravo, all’età di vent’anni la mia famiglia subì un lutto e da lì io ho iniziato ad essere un killer, per me stesso e per la mia famiglia. A quell’epoca avevo vent’anni, il dolore ce l’ho e me lo porterò per sempre, perché mi hanno ucciso un fratello di venticinque anni sotto casa e ancora oggi non so neanche il motivo perché è stato ucciso. Oggi ho quarantacinque anni, e hanno buttato le chiavi della mia vita, sono un ergastolano ostativo, oggi non ho più voglia, perché a vent’anni non si pensa, ma si reagisce, quando si vede una madre piangere si fa di tutto per dimostrare chissà che cosa, oggi a quarantacinque anni dopo aver scontato ventidue anni di carcere dico: a quell’età è difficile pensare, e sono anche difficili quei quartieri, ed è vero che quasi tutti veniamo da questa gavetta. Ebbene io però mi ritengo una persona totalmente cambiata, nel senso che, trascorrendo 22 anni in carcere e girando più di undici istituti di pena, si può immaginare cosa è stata la mia vita, se ti dico un inferno sarà poco, perché solo dieci anni di 41bis ti fanno capire ciò che ho passato, e poi dicevano che dal 41bis mandavo dei messaggi e facevo questo e quest’altro, anche se io non facevo neanche i colloqui, figurati se provavo a mandare dei messaggi! ho scontato e ancora sto scontando dignitosamente la mia pena in carcere e spero di farcela a reggere.

Francesco Viviano: Capisco perfettamente quello che lei mi dice, perché nascendo in questi quartieri ed avendoli vissuti sono in grado di capire storie come la sua. Se lei era il figlio di un avvocato, di un imprenditore o di un medico, avrebbe anche potuto essere un assassino, ma la possibilità è in una percentuale piccola, che avrebbe fatto invece più facilmente? Il notaio, l’avvocato, l’industriale. Ma io o lei che destino potremmo avere? Mia madre è analfabeta e non poteva andare a scuola, cresciuta con pane e acqua, c’è un filosofo francese, Jean Jacques Rousseau, che diceva una cosa semplice “Tutti siamo nati nudi“ siamo tutti uguali, dovunque nasciamo, nasciamo nudi. Però poi a seconda dell’ambiente, del quartiere in cui vivi o delle persone che frequenti sei condizionato, perché se io non ti faccio andare a scuola, se io non ti insegno un mestiere, poi diventa tutto più difficile.

 

Luca Raimondo: Secondo me però il destino ce lo facciamo anche noi, la mia storia è un po’ diversa da quella di Lorenzo, che aveva il padre detenuto, nel senso che mio padre era un muratore, dormiva nei container qui nel nord Italia, mia madre è una casalinga e i miei fratelli tutti lavoratori, cioè io sono stato l’unico, la pecora nera di casa, allora il fatto del destino non è che c’entra sempre, invece sul fatto della nostra terra, diciamo in tutto il sud d’Italia, quello che a noi ci condiziona tanto non è la cultura, ma secondo me la subcultura. Io da piccolo, lo racconto sempre ai ragazzi delle scuole quando facciamo gli incontri, vedevo quei ragazzi bene, con le belle macchine e le motociclette, e io che camminavo con i vestiti del mercatino, perché non potevamo permetterci di comprare di meglio, e quando vedevo i carabinieri o la polizia, io già da bambino con la pistola d’aria compressa mi mettevo a sparare, però poi sono andato a lavorare, ho fatto il panettiere, solo che è successo un fatto nella mia vita, una ingiustizia che stavano facendo a un padre di famiglia, l’hanno licenziato e volevano che fossi io ad assumerne il posto, perché gli conveniva, ero un ragazzino allora, ed ho decisodi andarmene e di intraprendere l’altra strada, cioè la strada della criminalità. Poi volevo farle i complimenti, perché non è facile fare la sua scelta, io non so se ero al posto suo, se avevo il coraggio di fermarmi anche se c’era il bambino, perché a me quando mi succede un torto, io me lo tengo perennemente nella testa, lei è stato bravo su questo a non sparare. E poi mi è piaciuta una frase che lei ha detto, di essere stato un ”figlio che non può dire la parola papa”, lei è un figlio orfano di padre, perché suo padre l’hanno ucciso che lei aveva tredici mesi. Ma ci sono figli di padri detenuti, e specialmente i figli di chi si trova nelle sezioni di Alta Sicurezza, che sono da 20-30 anni orfani di padre vivo.

Francesco Viviano: Io meno di due mesi fa ero a Sky TG24, e il discorso andò a finire su Bernardo Provenzano che conoscerete immagino un po’ tutti. Provenzano è almeno ufficialmente ritenuto incapace di intendere e di volere, sta su un lettino, legato con le cinghie e alimentato con il sondino ed in regime di 41bis, ed io ho chiesto pubblicamente che motivo c’è di impedire alla moglie di Provenzano, al figlio e alla madre di stringere almeno la mano di un moribondo, ma perché c’è questo accanimento? e non ho avuto paura di essere tacciato di mafiosità, perché purtroppo in questo mondo finto, il nostro soprattutto, sei tacciato di mafiosità se dici una cosa che pensi e che non è come la dice l’antimafia di facciata. Ci sono persone che fanno antimafia per fare carriera, Sciascia non aveva torto su alcune cose, aveva sbagliato il bersaglio che era allora Borsellino, Falcone e altri magistrati che non hanno fatto antimafia per fare carriera, hanno fatto il loro lavoro, quello che a me non va è quando sui morti e sulle disgrazie si specula e si strumentalizza. Ho fatto il caso di Provenzano perché è quello che è più eclatante e quello che si conosce di più rispetto ai vostri casi, che non sono così noti rispetto ai grandi boss di cui si parla sempre sui giornali. Purtroppo molto è anche colpa dei media, noi giornalisti contribuiamo a certe scelte, soprattutto quelli dei talk show condizionano a volte le decisioni dei magistrati, l’orientamento del magistrato che magari avrebbe potuto dare 20 anni di pena anziché 35 o l’ergastolo, ma non ne ha il coraggio. Io certe critiche le ripeto in trasmissioni pubbliche a rischio appunto di essere tacciato di mafiosità, perché se tu dici una cosa del genere, allora sei mafioso, sei mafioso perché conosci quegli ambienti, ma uno deve dire le cose come stanno.

 

Biagio Campailla: Io sentendoti parlare ho vissuto un po’ la mia infanzia, perché ho una storia come la tua, non sono stato mai mafioso, però nel momento che mi hanno toccato un fratello, non sono riuscito a fare come te, ecco perché ti chiedevo come stavi prima e dopo, io non sono riuscito a trattenere quel grilletto. Ho subito una condanna all’ergastolo ostativo, con anni di regime del 41bis e anche il più duro, area riservata, ecco io allora ero arrabbiato verso l’istituzione, perché? Perché pensavo: io mi sono vendicato, sono assassino, sto pagando le conseguenze del mio gesto, non collaboro perché trovo giusto essermi assunto le mie responsabilità senza barattare la mia libertà con quella di un altro per liberarmi, però non mettevo mai in discussione la mia scelta sbagliata, anzi me ne ero fatto una ragione, perché vivendo in quel regime, trattato in un certo modo, mi dicevo: io sono un killer, però le istituzioni si stanno comportando da più assassini di me, perché mi dovrebbero educare e far capire i miei sbagli, e invece non solo mi stanno condannando a una pena di non uscire mai, ma stanno condannando me anche psicologicamente a una morte della mente, perché sappiamo quanto ti distruggano tanti anni nel 41bis. Ecco, fino a ieri ragionavo così, ma come potevo vedere in modo diverso le istituzioni? Allora io mi chiedo, la parte “sana” delle istituzioni si rende conto che ha condannato non noi, ma anche i nostri figli?

L’ultima cosa che vorrei chiederti è come pensi che oggi si potrebbe cambiare la nostra Sicilia e sradicare quella parte malata della sua cultura?

Francesco Viviano: Sradicarla non lo so, però io sono molto speranzoso e fiducioso, perché quando a noi della mia generazione succedeva che ti rubavano una bicicletta o una moto, sappiamo tutti cosa si faceva, si andava dal capo bastone del quartiere e gli si diceva che ci avevano rubato la bicicletta e se non si poteva fare niente, e si faceva… i miei figli adesso non ci pensano neanche se gli rubano qualcosa di andare a chiedere, ma vanno dai carabinieri o la polizia a fare la denuncia, vi sembrerà una stupidaggine, però per me è un cambiamento e un piccolo segnale. Ma vi dico anche un’altra cosa, io di questi discorsi quando vi ho parlato di Provenzano e ho fatto quell’esempio, perché è il più conosciuto, ne ho anche parlato con dei magistrati o degli amici sbirri, però appena parliamo di 41 bis e altro in modo libero, veniamo attaccati come favoreggiatori, mafiosi, siamo in un mondo che uno deve aver il coraggio, ripeto io lo faccio ma io sono nessuno, io sono un giornalista noto per carità, però non è che posso sovvertire la sorte di certe leggi, però il fatto che voi dell’Alta Sicurezza con le vostre testimonianze siete qui a parlarne è già un successo, quindi abbiate fiducia e speranza, perché queste cose aiutano.

 

Carmelo Musumeci: Io credo che l’errore che fanno in molti è pensare che i mafiosi sono solo quelli che commettono i reati, io credo che non sia cosi, si può essere mafiosi anche da persone incensurate che lavorano dalla mattina alla sera, il problema secondo me è culturale, riporto il discorso che facevi prima, perché io sono fortemente convinto, e senza generalizzare è comunque accaduto più volte che l’antimafia si sia trasformata un po’ in mafia, cioè incredibilmente un potere ha preso l’altro. Da noi in Sicilia comunque è una questione culturale, dalla parte di mio padre mio nonno era un grande lavoratore ed era incensurato e onesto, però quando uscivo di casa mi diceva sempre “fatti i fatti tuoi”, oppure “meglio sentire il suono di catena che il suono di campana”, eppure era una persona che lavorava onestamente, quindi il problema è culturale, ma purtroppo il problema maggiore è che una buona parte del giornalismo e dei mass-media ha contribuito a dare questo potere fuori controllo a un certo modo di intendere l’antimafia. A me fa piacere che tu hai fatto l’esempio di Provenzano, che è assurdo ancora tenerlo in carcere in queste condizioni nel regime del 41bis, però tu lavori per un giornale importante come la Repubblica, cosa si può fare affinché si vada a vedere davvero un po’ le cose come stanno? Cioè veramente bisogna levare questo potere a questa parte dell’antimafia che usa la mafia per fare carriera, perché è accaduto cosi, è accaduto che un buon prete per avere la gente a messa deve essere schierato in un certo modo acritico con l’antimafia, uno scrittore per aver successo deve scrivere di mafia in una certa maniera, quindi cosa si può fare? Perché un giornale come Repubblica che vende quasi 600 mila copie al giorno non comincia a dire cosa pensiamo dell’ergastolo ostativo, cosa pensiamo del 41bis? Cioè bisogna un po’ anche rischiare se vogliamo cambiare le cose, e innanzi tutto bisogna cambiare noi stessi, noi almeno ci proviamo.

Francesco Viviano: Secondo me è fondamentale la scuola e soprattutto le istituzioni che danno la possibilità al ragazzino di frequentare l’oratorio e di studiare, io l’altro giorno sono stato nel mio quartiere, perché c’era il prete che ha organizzato una festa per un ragazzo che si è laureato in architettura, ora voi vi immaginate un quartiere che fa una festa perché uno si è laureato? dovrebbe essere una cosa normale, ma in quel quartiere è ancora un avvenimento eccezionale! Perché un ragazzo dell’Albergheria si è laureato in architettura abbiamo fatto una festa, gli abbiamo consegnato una statuetta, viviamo ancora in questo mondo del cavolo, però c’è speranza, ne sono sicuro.