Capitolo quarto:

Con gli occhi della Costituzione

 

“Tendere alla rieducazione – scrive Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale – non vuol dire soltanto un mero fine, un’utopia tendenziale da conciliare in qualche modo con altre più pressanti funzioni: quelle di sicurezza, di afflittività e di retribuzione. La tendenza alla rieducazione – secondo la Corte Costituzionale, che nel tempo ha modificato giustamente la propria interpretazione dell’articolo 27 – è l’essenza della pena: non ci può essere pena senza finalità rieducativa. Non si può strumentalizzare l’individuo a fini di prevenzione generale e di soddisfazione del bisogno di sicurezza, attraverso l’esemplarità di una pena che prescinda dalla rieducazione”. Eppure, è stata proprio l’idea delle “pene esemplari” che ha ispirato le leggi che più hanno determinato il sovraffollamento: Bossi-Fini sull’immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe, Ex Cirielli sulla recidiva. Ora quelle leggi, se si vuole riportare le carceri in condizioni dignitose, vanno smontate.

 

 

 

“Io non sono né morto né vivo, sono solo un’ombra”

Racconto la storia di un uomo che è stato un detenuto modello perché sperava, un giorno, di uscire, e ha dovuto ingoiare tanti rospi, perché non è facile comportarsi bene in carcere, ma poi ha scoperto di essere condannato all’ergastolo ostativo

 

di Carmelo Musumeci, Ristretti Orizzonti

 

Io sono Carmelo Musumeci, sono un ergastolano, probabilmente molti di voi mi conoscono, e parto sempre dal fatto che in Italia, patria del diritto romano e di Cesare Beccaria, esiste la pena di morte viva, così viene chiamata tra di noi quella condanna che non ti dà nessuna possibilità, un giorno, di uscire. Ebbene è una vera condanna a morte presa a gocce un po’ tutti i giorni e tutte le notti. Ma adesso io vi voglio raccontare la storia di un mio compagno, che fino a pochi mesi fa non conosceva, appunto, la pena di morte viva. Il mio compagno si chiama Roberto, si trova in carcere da circa vent’anni e ha sempre cercato di evitare guai, è stato sempre molto attento a non prendere rapporti disciplinari, diciamo che ha sempre abbassato la testa davanti all’assassino dei sogni, il carcere come lo chiamo io, non ha mai partecipato a reclami collettivi o sommosse o cose del genere, perché si poneva l’obiettivo e aveva la speranza di poter un giorno uscire, e non è facile vivere in carcere senza prendere rapporti disciplinari o senza ribellarsi. Perché rispetto alle condizioni di vita qui dentro tutti voi sapete probabilmente, dalle condanne che sono scaturite dalla Corte Europea, o dai richiami del Presidente della Repubblica, che il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo. Oggi si commettono infatti reati in carcere, reati amministrativi, abusi di potere. Ebbene, Roberto qualche mese fa ha fatto una richiesta di permesso premio, e, diciamo, si è illuso, perché il direttore aveva messo parere positivo, l’area educativa aveva fatto la stessa cosa, le informazioni della polizia esterna dicevano che non aveva più collegamenti con la criminalità organizzata, e lui mi aveva confidato: “Non mi possono dire di no”. Roberto faccio presente che è stato condannato per un omicidio nell’ambito di guerre di bande per il controllo del territorio, e a parte la condanna di omicidio aveva anche una condanna per associazione mafiosa, e quindi, proprio alla vigilia di Natale, gli hanno detto di no, gli hanno risposto che aveva l’ergastolo ostativo. Roberto non conosceva neanche questa parola, e infatti, nel suo dialetto mi ha detto: “Ma che minchia è questo ergastolo ostativo?”, scusate l’espressione ma riporto fedelmente la testimonianza. In un primo momento glielo h spiegato un po’ l‘agente della matricola,che è quello che notifica questi procedimenti, e gli ha detto: “Guarda che per avere la possibilità di uscire devi collaborare con la giustizia, devi far arrestare qualcuno che pure ha commesso dei reati, o devi accusare qualcuno”. Roberto ha chiamato subito l’avvocato e l’avvocato ha confermato sostanzialmente quello che gli aveva detto l’agente della matricola, confidandogli che nemmeno lui, fino a poco tempo fa, sapeva cos’era l’ergastolo ostativo, perché non è che te lo danno in condanna, ci si arriva in un secondo tempo, diciamo che il magistrato di Sorveglianza legge la motivazione di condanna, ed è lui che stabilisce se l’omicidio è stato commesso per agevolare l’Associazione criminale. Quindi lo capisci solo in un secondo tempo, lui lo ha scoperto dopo vent’anni. Roberto, sapendo dei miei studi giuridici, perché io in carcere mi sono laureato in giurisprudenza, è venuto da me e si è un po’ sfogato, e anch’io ho dovuto ripetere “Guarda Roberto, io è da anni che conosco l’ergastolo ostativo, purtroppo non c’è nulla da fare”. Lui è un uomo semplice, non ha studiato, e ho trovato difficoltà a spiegargli che deve morire in carcere, perché lui mi ha detto: “Ma io ho sentito alla televisione, nei giornali, che in Italia l’ergastolo non esiste, ho sentito anche a una puntata di Porta a Porta con Bruno Vespa, che l’ergastolo non esiste, che escono tutti, ma com’è possibile?”.

E io gli ho ribattuto: “Ma tu credi ancora a quello che dicono i giornalisti? Credi ancora a quello che dice la televisione?”. Lui però, ripeto, è una persona semplice, ho dovuto fare fatica, anche perché la sua situazione affettiva è particolare, lui si è separato dalla moglie in questi vent’anni di carcere e ha solo un figlio che aveva dato la sua disponibilità per accoglierlo in casa, e se lui in tutti questi anni è stato un detenuto modello è perché sperava, appunto, un giorno di uscire, e ha dovuto ingoiare tanti rospi, perché non è facile comportarsi bene in carcere.

Ebbene, Roberto da circa un mese è andato in depressione, si è chiuso in cella, sta sempre al buio, non accende la luce, non va più all’aria, e l’altro giorno sono andato a trovarlo nella sua cella, e ho visto che sulla parete della sua cella, un po’ lo fanno quasi tutti i detenuti, ha scritto una frase che mi ha molto colpito, ha scritto sul muro della sua cella: “Io non sono né morto né vivo, sono solo un’ombra”.

Ecco, vi ho raccontato la storia di Roberto, che sotto un certo punto di vista somiglia un po’ alla mia, con la differenza che io conosco l’ergastolo ostativo e combatto contro questa pena disumana che è poco rieducativa perché, secondo me, può rieducare solo i morti quando vanno nell’al di là. Io ho la mia compagna che mi aspetta da 23 anni, sono in carcere da 23 anni, ho 2 figli, ho 2 nipotini e so che la mia famiglia avrà di me solo il mio cadavere, perché, se non cambiano le leggi, questo purtroppo è un fatto scontato.

Combattere contro la pena dell’ergastolo è un po’ come fare una partita a scacchi con la morte, non puoi vincere, però il problema è che io non posso nemmeno perdere, perché, appunto, ho la mia compagna che continua ad aspettarmi, i miei 2 figli che tutti gli anni mi scrivono delle lettere, e in particolare mia figlia quest’anno mi ha scritto una lettera che mi ha un po’ emozionato, perché per lei tutti gli anni sono l’anno buono per la mia uscita. Perché c’è da dire anche che tanti familiari non conoscono cos’è l’ergastolo ostativo, non lo vogliono proprio capire, non si rassegnano, e dicono: “Ma non è possibile che una persona che viene condannata sia colpevole per sempre”. E io allora dico che qui siamo in Italia, non siamo negli Stati Uniti o in altri paesi che bene o male non sono così crudeli, ti mettono a morte e basta, qui ti vogliono ammazzare un pochino lentamente, un po’ tutti i giorni, con la scusa di rieducarti, appunto, per l’al di là.

Colgo l’occasione, perché qui ci sono molti giornalisti, per invitare a scrivere, documentarsi e far conoscere l’esistenza di questa terribile pena. E dato che si è parlato delle vittime dei reati, io volevo dire qualcosa su questo punto, perché la cosa che mi fa star male più di tutto è che la mia sofferenza, e soprattutto quella della mia famiglia, non è di consolazione a nessuno, perché il mio reato è anche per me una guerra tra bande, quindi diciamo che non ci sono “vittime innocenti”, in realtà era una guerra: io ammazzavo te o tu ammazzavi me. E quello che mi fa più rabbia della mia sofferenza è quella della mia famiglia, ve lo ripeto, se potesse essere di consolazione a qualcuno, alla società, se la mia sofferenza facesse bene a qualcuno, io la accetterei, invece vedo che non serve a nessuno, non c’è nessuna utilità.

Io sono entrato in carcere con la quinta elementare, poi ho preso la licenza media, mi sono diplomato, mi sono laureato in giurisprudenza, adesso mi sono iscritto alla facoltà di filosofia di Padova, ma faccio tutto questo, alla fin fine, solo esclusivamente per passare il tempo, perché la società non mi darà mai la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene. Eppure ci sarebbero tanti modi di scontare la pena, io, per esempio, preferirei spazzare le strade di qualche città, o fare volontariato in un Pronto Soccorso, perché secondo me la pena si sconta quando tu esci dal carcere, e non senza far nulla stando chiuso in una cella.

 

 

 

 

Gli strani conti dei giornalisti

Io detesto questi calcoli, fatti come se ogni permesso, ogni misura alternativa in Italia si potesse ottenere automaticamente. Io ho scontato la pena fino all’ultimo giorno, senza mai avere un giorno di permesso premio

 

di Elton Kalica, Ristretti Orizzonti

 

Io cerco di dare un contributo raccontando quello che io sono. Ho scontato in questo carcere più di 14 anni di pena, sono uscito due anni e mezzo fa, e quello che sono probabilmente oggi è un ex detenuto in cerca di identità. Quindi sono un ex detenuto che continua a lavorare qui a Ristretti Orizzonti. I miei compagni detenuti all’inizio hanno raccontato della paura che si ha quando succede qualche caso di evasione e poi i giornali lo riprendono in un certo modo, e come qui dentro cresce il timore che queste notizie condizionino la decisione dei giudici. Quindi, quando Lejdi diceva “Adesso che sto aspettando un permesso premio da Natale, sono qui che prego perché probabilmente non me lo daranno perché avranno paura” , ecco, anche se io non aspetto alcun tipo di permesso, ovviamente non nego comunque di provare una certa preoccupazione.

Ad esempio, pochi giorni fa ero a casa a pranzare, c’era la TV sintonizzata su “Studio aperto” che dava la notizia sull’approvazione del decreto legge con le misure contro il sovraffollamento delle carceri. Hanno costruito il servizio ragionando sulla sicura uscita di un condannato che aveva ucciso la sua fidanzata, e la giornalista faceva i conti a modo suo: “Siccome è dentro da sei anni, ha una condanna di 15 anni perché gli avevano riconosciuto la seminfermità mentale, però gli hanno dato sei o sette anni di Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ma con il decreto legge della Ministra, adesso, con la liberazione anticipata che viene aumentata, lui ha già fatto sei anni e potrebbe andare in permesso…”.

Che notizia è? Io detesto questi calcoli, fatti come se ogni permesso, ogni misura alternativa in Italia si potesse ottenere automaticamente. Non è affatto così! Io sono uno che ha scontato la pena fino all’ultimo giorno, ho fatto 14 anni e 3 mesi e dodici giorni senza mai avere un giorno di permesso premio e senza mai prendere misure alternative. Adesso quella persona di cui parlava il TG potrebbe effettivamente avere tutte le fortune di questo mondo, un medico che dica che è guarito, un giudice che gli dia tutti gli sconti di pena e le misure previsti dall’Ordinamento, e uscire davvero tra tre anni, però sarebbe un’eccezione.

Poco tempo fa mi sono arrivate da Equitalia tre multe da 1.000 euro ciascuna, perché quando uno fa ricorso in Cassazione, se il ricorso non viene accolto ti tocca pagare 1.000 euro. Ecco avevo fatto quei ricorsi contro sentenze che mi negavano la possibilità di andare in permesso. Questo, perché ci sono leggi che prevedono l’esclusione in modo categorico di alcune categorie di reato dall’accesso ai benefici.

Ne parlava anche Carmelo prima, ed ero anch’io nella stessa condizione, pur essendo in galera da solo e non appartenendo a nessun tipo di criminalità organizzata.

Se oggi mi indignano i giornalisti che fanno i ragionieri della galera è soprattutto perché ho vissuto sulla mia pelle la certezza della galera. Avevo 20 anni quando sono finito in carcere, spedito direttamente in una sezione di Alta Sicurezza, in mezzo a persone condannate per appartenenza alla criminalità organizzata. I miei compagni di detenzione mi dicevano che eravamo tutti ostativi, tutti esclusi, ma non volevo credere che avrei scontato la pena fino all’ultimo giorno senza poter accedere ai benefici. Quindi ho fatto tutti i ricorsi possibili. Ciononostante mi sono fatto la galera fino all’ultimo giorno e adesso mi tocca anche pagare 3.000 euro di multa per questi ricorsi.

 

 

 

 

I mezzi di informazione si approprino di una nuova cultura giuridica

Quando affrontano il tema del carcere, dovrebbero infatti capire che più detenuti recuperati equivale a maggiore sicurezza e più giustizia

 

di Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza,

Componente della Giunta esecutiva centrale

dell’Associazione nazionale magistrati, è stato membro

della Commissione di Studio presso l’Ufficio legislativo

del Ministero della Giustizia in tema di Ordinamento

penitenziario e misure alternative

 

Ringrazio per questo invito e per questa splendida giornata. Dico subito che sono molto contento che ci siamo liberati tutti del “divieto” di applaudire, perché – senza togliere nulla a tutti i relatori che mi hanno preceduto – mi domando come si possa rimanere indifferenti, non applaudire dopo le parole di una persona come Manlio Milani, che dovrebbe essere un esempio per questo Paese, oscillante invece tra sentimenti di paura, di oblio, di egoismo.

Mi si chiede di leggere la realtà del carcere e della pena con gli occhi della Costituzione, che non possono che essere quelli dell’art. 27, e quindi della funzione rieducativache è il faro che illumina tutto il settore della pena, ma non solo. Ogni settore del diritto penale dovrebbe ispirarsi alla funzione rieducativa, poiché già nel momento in cui il giudice della cognizione irroga una pena detentiva o pecuniaria dovrebbe porsi il tema della possibile rieducazione della persona che condanna. Ovviamente il tema della rieducazione non può che coinvolgere tutte le altre funzioni della pena, e in particolare, i temi della sicurezza e della retribuzione. La riflessione, però, sul tema del carcere e della sicurezza non può che partire dalla constatazione dell’evolversi della criminalità negli ultimi anni; è molto significativo, io i dati li ho esaminati, che i reati (in particolare quelli contro la persona) in Italia siano diminuiti guarda caso proprio nel periodo post-indulto. Negli anni successivi all’indulto si è avuta infatti in Italia una flessione della criminalità del 5,4%, cui è seguito un leggero aumento nel 2011, che è il momento in cui si è consolidato il tasso di massima carcerizzazione.

Dobbiamo ricordare anche che nel 2011 scoppia la grave crisi economica, e questo sicuramente è un dato che influisce sull’aumento della criminalità, ma è accaduto nel momento in cui il numero di detenuti raggiungeva il livello più elevato nel nostro Paese dal dopoguerra, tanto da determinare le condanne in sede europea. Quindi, prima di tutto non è vero che più carcere vuol dire più sicurezza, ve lo dice un magistrato; certo, ve lo dice un magistrato di Sorveglianza, che ha forse un approccio diverso, ma io per moltissimi anni ho fatto il giudice della cognizione.

Il carcere è un luogo sicuro? Basterebbe pensare al tasso dei suicidi, non solo al tasso dei suicidi dei detenuti, ma anche dei suicidi del personale della Polizia penitenziaria, per dire che dal punto di vista della tutela dell’integrità del bene supremo della vita, il carcere non è un luogo sicuro, perché è un posto dove il rischio suicidario è alto. Perché poi il carcere non è un posto sicuro? Perché nelle attuali condizioni di sovraffollamento non induce nel detenuto quella necessaria modificazione del proprio atteggiamento nei confronti della propria condizione detentiva e della sua condanna a seguito di un reato commesso, quella necessaria modificazione che può soddisfare la tensione rieducativa che l’art. 27 della Costituzione impone alla pena.

La dignità della persona è fondamentale: se leggete l’art.3 della Costituzione vedrete che la dignità sociale viene prima dell’uguaglianza e della libertà. Ci hanno sempre insegnato, dalla rivoluzione francese in poi, che la libertà e l’uguaglianza sono i beni supremi; le Costituzioni del Novecento, in particolare quella italiana, la più bella Costituzione come si dice spesso, parla di dignità, “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, e questo valore viene prima della libertà e dell’uguaglianza, quindi la dignità è il bene supremo.

Quando il detenuto si sente vittima di un carcere che lo priva della sua dignità, bene primario incomprimibile garantito dalla Costituzione, si attiva un processo di vittimizzazione del colpevole. Un carcere che lede il bene della dignità non può che determinare deresponsabilizzazione, rimozione del senso di colpa, vittimismo. Per questo l’Europa ci ha condannato: abbiamo tempo fino a maggio di quest’anno per porre definitivamente rimedio e, lo dico subito, porre rimedio significa diminuire la popolazione carceraria di almeno 15.000 detenuti per rientrare nella capienza regolamentare stimata intorno a 47.000 posti, e quindi tale da soddisfare le condizioni che la Corte di Strasburgo ci ha imposto, i famosi 3 m2 per detenuto. Allora, che cosa è necessario? È necessario, siamo a un seminario di giornalisti, in primo luogo uno sforzo culturale, ci vuole una nuova cultura giuridica, che significa anche, ve lo dico in tutta schiettezza, che i mezzi di informazione si approprino di una cultura giuridica quando affrontano il tema del carcere. Faccio due esempi: esce il decreto legge n. 146 del 2013 e sempre più spesso leggiamo “indulto mascherato”. Come si fa a chiamare “indulto mascherato” una norma che concede una parziale compensazione alla lesione della dignità, qual è questa “liberazione anticipata speciale”, data solo ai soggetti meritevoli, rimedio che, dico subito, non risolveràcomunque il problema del sovraffollamento? Voi lo sapete che non è un indulto, perché voi sapete che l’indulto è una liberazione incondizionata, nel senso che prescinde dalla condotta che il detenuto ha tenuto in carcere e che casomai può esser escluso oggettivamente solo per alcuni reati. Se però la persona commette un reato nel periodo successivo, l’indulto può essere revocato e la persona viene arrestata: anche questo ci si dimentica di dire, e cioè che l’indulto comunque è soggetto a un limite temporale e a uno condizionale. Anzi, io mi sono permesso di dirlo nelle sedi opportune, cioè che quando si parla di indulto si potrebbe anche apprezzare un’ipotesi di indulto immediatamente liberatorio ma subordinato a condizioni, anche rigorose; non è una bestemmia, non dico un indulto condizionato al risarcimento del danno, però, per esempio, all’individuazione di un percorso di mediazione, se è possibile ovviamente per la natura del reato, o comunque a determinati requisiti di tempo e di modo. Ogni provvedimento clemenziale può essere subordinato a delle condizioni, lo prevede il Codice penale, basta volerlo.

Questo strumento compensativo della liberazione anticipata speciale ha poi tutta una serie di limiti e difficoltà applicative per cui non potrà essere dato a pioggia a tutti quanti, anzi, in verità ne usufruiranno in pochi, ma nonostante questo i giornali ne parlano come di un “indulto mascherato”.

Secondo esempio: quello che non si è detto e scritto del famoso evaso dal permesso premio dal carcere di Genova! Io, per carità, capisco, perché mi siedo sempre sul banco degli imputati, come magistratura di Sorveglianza godiamo di pessima stampa. Si sono scritte molte cose errate, ad esempio che il permesso era stato concesso dal direttore del carcere, ma i permessi premio non li dà il direttore, li dà solo il magistrato di Sorveglianza. Poi si è detto che quel direttore comunque era un incompetente, anche grazie a qualche incauta sua dichiarazione, si è detto che non sapeva che questo detenuto aveva commesso dei gravissimi reati: questa è una follia, noi, il Direttore, tutti, abbiamo i fascicoli che racchiudono tutta la storia del detenuto, attraverso il certificato del casellario si scopre in tre secondi che cosa ha combinato nella sua vita dal primo momento in cui ha incrociato un giudice, anche da minorenne. Quindi non è vero che non sappiamo nulla del passato del detenuto che sta espiando un reato, sappiamo esattamente tutto quello che ha fatto prima, è che dobbiamo lavorare su una prognosi, cioè sul futuro. La nostra collega di Genova ha dovuto subir un linciaggio mediatico feroce, che spero non si trasformi in provvedimenti di natura disciplinare, perché ha concesso un permesso premio a una persona che fino a quel momento aveva un percorso trattamentale regolare, benché avesse commesso dei reati gravi. Qui a Padova siamo in un carcere dove ci sono detenuti che hanno reati pesanti, eppure usufruiscono degli strumenti della rieducazione. Un uomo non può essere impiccato per sempre a causa del suo reato, deve scontare la sua pena certo, ma dobbiamo guardare se ha un futuro e la nostra è una prognosi difficile. Che un detenuto non torni da un permesso accade in una minima percentuale di casi, è un rischio calcolato, può succedere che nonostante gli atti di osservazione siano tutti favorevoli il patto venga tradito e il detenuto non rientri e magari commetta un altro reato. Questo accade in una minima percentuale. Il racconto di quella vicenda ci fa capire quanto sia necessario anche da parte dei media uno sforzo culturale nuovo. Ho sentito parlare oggi di delitti della paura, di occhi della paura, di occhi del nemico, di diritto penale del nemico: sono anni che noi magistrati con le Camere penali diciamo che il nostro diritto penale da circa 15 anni è puramente simbolico. Adesso si sono inventati anche – mi dispiace perché chi lo ha proposto è molto autorevole – l’omicidio stradale: esiste già l’omicidio stradale, l’omicidio colposo è già aggravato dalla violazione di norme della circolazione stradale e quando chi l’ha commesso è in stato di ebbrezza o alterato da sostanze stupefacenti; è dunque solo una proposta di facciata, una risposta emotiva e irrazionale. Non ha nessun senso rincorrere l’emotività indotta da fatti di cronaca seppur gravi. Del resto, come hanno già spiegato stamattina i criminologi, la stampa coltiva l’emotività. Questo sforzo culturale nuovo però non può coinvolgere solo gli esterni, e cioè chi racconta delle vicende del carcere, ma deve necessariamente investire tutti gli operatori del settore.

E allora qui voglio dire che è necessario un radicale mutamento anche del modello detentivo, che non può più essere ispirato alle categorie della passività e della segregazione. Le sentenze della Cedu da un lato ci hanno indotto in errore perché hanno apparentemente ridotto la questione dell’umanità in carcere alla questione dei metri quadrati, come se sopra i tre metri quadrati tutto andasse bene. La stessa Corte in realtà lo dice nelle sentenze: anche se hai assicurato i tre metri quadrati a un detenuto, comunque devi mutare il volto, il modo di detenere una persona. E quindi ecco alcuni provvedimenti, alcuni segnali di inversione di tendenza che si rinvengono nelle circolari dell’Amministrazione ed anche in una circolare molto importante sull’umanizzazione della pena emanata dal Provveditorato per il Triveneto, dove si richiede un diverso approccio nella detenzione. Volevo poi fare un accenno al tema della vittima. Mi dispiace contraddire il professor Pugiotto, con cui sono spesso in sintonia, però non è vero che nella liberazione condizionale le vittime vengono interpellate dai magistrati di Sorveglianza; le vittime non vengono mai interpellate, non esiste assolutamente il perdono privato e soprattutto la liberazione condizionale non è un perdono.

Ecco io vorrei anche che fossero abolite due parole: l’unica cosa che non mi piace della legge Gozzini, che è per altro bellissima, è la parola “premio”, “permesso-premio”. Non esiste un premio legale, questo ha indotto anche gli esterni ad un equivoco enorme: non esiste una progressione premiale, né il “beneficio”, che è la seconda parola che è da abolire, perché il giudice non fa del bene al detenuto se lo fa uscire, non gli dà un premio, semplicemente fa in modo che attraverso uno strumento che consente limitati spazi di autonomia, attraverso dei progressivi tentativi di reinserimento, possa realizzarsi la funzione essenziale della pena e cioè l’effettiva rieducazione. È quasi una volontà oggettiva, uno scopo esteriore che prescinde dalla premialità.

Quindi, soprattutto nella parte finale della carcerazione, è ragionevole, perché è utile, che il detenuto possa progressivamente reinserirsi nella società, sempre che abbia superato quell’atteggiamento di innocentismo, di rimozione del senso di colpa, di mancata rivisitazione del suo passato che passa anche attraverso, perché lo dice la norma di un altro articolo 27 (quello del Regolamento), la riflessione sulle proprie condotte antigiuridiche e la volontà di attuare opere di riparazione. La vittima perciò entra nel percorso non perché la coinvolgiamo noi operatori, ma solo perché noi vogliamo capire qual è l’atteggiamento del condannato nei confronti del danno che ha provocato, che è il danno non solo che ha provocato ai propri familiari, che è la prima cosa di cui si duole il condannato, ma il danno che ha provocato innanzitutto alle vittime e ai familiari della vittime. Quindi nelle liberazioni condizionali che concede la magistratura di Sorveglianza, e sono poche perché legate al ‘sicuro ravvedimento’, condizione difficilissima da provare, non esiste il coinvolgimento della vittima. Allora è necessario in ogni caso che la magistratura di Sorveglianza, che gioca spesso sulla difensiva, diventi invece una parte attiva nell’utilizzo e nella promozione degli strumenti rieducativi.

Ho letto in una bellissima relazione di Mauro Palma che è necessaria una lettura rinnovata e propositiva dei rapporti istituzionali tra magistratura e amministrazione penitenziaria. Per esempio l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe essere lei per prima a proporre il detenuto per una misura alternativa, non dove essere il detenuto per primo o il suo difensore ad attivarsi, dovrebbe essere l’amministrazione a dire: per noi il detenuto è pronto. E questo non sempre avviene. È indispensabile ad esempio una condivisione delle scelte della magistratura di Sorveglianza. Faccio un altro esempio, quello dei sex offenders, un settore delicatissimo, perché per questa categoria di condannati sono stati introdotti dei limiti molto forti per l’accesso alle misure – non so se giustamente o ingiustamente – comunque dobbiamo prendere atto che con varie leggi che si sono succedute dal 2009 si richiede ad esempio almeno un anno di osservazione con lo psicologo e poi, quando la violenza è effettuata nei confronti dei minori, si richiede un progetto psicoterapeutico – secondo la convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori dall’abuso e dallo sfruttamento sessuale – al quale il detenuto deve aderire per poter accedere ai benefici. Quindi vedete, quando dite che il magistrato non dà i permessi, dietro c’è anche tutta una serie di vincoli, preclusioni, paletti che limitano la scelta e sono degli ostacoli spesso insuperabili.

Ecco su questo io credo che ci vorrebbe il massimo di condivisione tra la magistratura e gli operatori penitenziari, mentre vedo che restiamo su mondi abbastanza distanti, anche perché devo dire che

l’Amministrazione penitenziaria su questo settore non ha voluto investire sui percorsi terapeutici, sulle professionalità da coinvolgere, sui programmi rieducativi che dovrebbero iniziare già in carcere per poi essere continuati all’esterno in misura alternativa.

Vengo rapidamente alla riforma. Ho fatto parte di una Commissione di Studio presso l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia in tema di Ordinamento penitenziario e misure alternative, la Commissione ora si è sciolta. In questa Commissione, fatta solo da tecnici, ci è stato chiesto di presentare una relazione al ministro con una bozza di progetto di riforma. Allora alcune cose, poi modificate, sono state introdotte nel decreto 146; peraltro noi avevamo anche chiesto di poterle sviluppare ed approfondire per alcune materie più complesse, per esempio quella del reclamo giurisdizionale, ma non c’è stato il tempo. Secondo me quello che dice il decreto sui diritti è un sensibile passo in avanti sul fronte della tutela, però forse c’era la necessità di una meditazione ulteriore, spero che in sede di conversione qualche rilievo che ci siamo permessi di fare con l’Associazione Nazionale Magistrati in sede di audizione alla Commissione Giustizia della Camera, venga raccolto. A parte la liberazione anticipata speciale, di cui proprio non ci siamo occupati, nella Commissione di studio alcuni piccoli ritocchi all’Ordinamento Penitenziario sono stati suggeriti nell’ottica dell’incentivazione delle misure alternative e della semplificazione delle procedure di sorveglianza, proprio per non distogliere dal suo lavoro principale il magistrato di Sorveglianza, il quale purtroppo a volte si occupa di cose minimali, svolge attività seriali, un po’ burocratiche, che lo allontanano da quello che dovrebbe essere il ruolo fondamentale: essere da un lato il giudice della rieducazione e dall’altro il giudice dei diritti delle persone detenute. Il presupposto di entrambe le funzioni è l’accesso in carcere; quindi, più il magistrato di Sorveglianza viene distolto dai suoi compiti di sorveglianza all’interno degli istituti di pena, più ne risente la sua funzione, sia quella rieducativa, in quanto il magistrato non viene a conoscere il detenuto di cui deve promuovere il reinserimento, sia quella della tutela dei diritti, perché non è in grado di accorgersi quando nel trattamento si verificano le violazioni dei diritti.

L’istituto della liberazione anticipata speciale ci impegnerà molto perché non abbiamo personale, non abbiamo carta per stampare le relazioni e i provvedimenti, siamo stati invasi a Padova da 450 domande solo nel giro di una settimana per la rivalutazione dei semestri già concessi. Capisco che ogni detenuto tiene a questa aggiunta, però noi siamo letteralmente bloccati, nel senso che non faremo altro, quindi sarà più difficile avere un affidamento in prova, perché per come è stata congegnata questa liberazione anticipata speciale la procedura è macchinosa e lenta, per cui dobbiamo recuperare i semestri, vedere se dopo c’è stata una continuità nel percorso rieducativo, vedere se è in espiazione un reato compreso nell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Sarà veramente un’impresa poter reggere questo sistema, però noi ce la metteremo tutta con la collaborazione del personale, degli educatori e della Polizia penitenziaria in carcere. Ma il decreto 146 è comunque importante perché introduce, dopo tanti anni, il rimedio giurisdizionale, cosa di cui pochi parlano nei commenti alla norma.

Finisco semplicemente dicendo il catalogo delle cose da fare. Parto subito dal punto più dolente: “l’ergastolo ostativo”; c’è una questione di costituzionalità dell’ergastolo, non dell’ergastolo ostativo. È la pena dell’ergastolo che si pone tendenzialmente in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione, perché una pena perpetua non può essere rieducativa. L’ergastolo ostativo che si basa sul presupposto, quello della mancata collaborazione, introdotto negli anni 90 dopo le grandi stragi di mafia e che investe soltanto alcune particolari categorie di reati, non lo ha inventato il magistrato di Sorveglianza, perché sta scritto nella legge e soprattutto discende dal tipo di reato. Se sei condannato per quel reato non puoi avere nessun beneficio, tranne la liberazione anticipata, se non collabori con la giustizia.

La collaborazione con la giustizia non vuol dire necessariamente fare la spia, ma dire tutto quello che so e se non lo posso più fare, per vari motivi, ad esempio perché ormai la giustizia ha fatto già piena luce sul fatto, esiste la categoria della collaborazione impossibile che viene riconosciuta dal tribunale di Sorveglianza e dunque l’ergastolo si apre. Sicuramente i problemi ci sono e sono di natura giuridica, ma sicuramente questo è un settore su cui bisognerebbe mettere mano, ergastolo ostativo ed ergastolo, ma anche l’articolo 4bis andrebbe rivisto se non abolito, perché è il portato di una concezione arcaica che dovrebbe scomparire dal nostro Ordinamento penitenziario, dove se un soggetto ha dimostrato con il suo comportamento successivo di essere cambiato non può portarsi appresso per tutta la vita questa nota negativa che discende solo dalla natura del reato compiuto. Io ci credo che l’uomo possa cambiare, se no non farei il magistrato di Sorveglianza. Non possono esserci delle assurde presunzioni di pericolosità, i profili di pericolosità di una persona e la meritevolezza degli strumenti rieducativi devono essere affidati esclusivamente al giudizio della magistratura. Quindi l’art.4bis va necessariamente riformato, se non abolito del tutto. Da ultimo, le leggi carcerogene. Allora qui devo dire che si segnalano dei piccoli, timidi passi in avanti, in particolare per la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, e su questo il decreto legge ha inciso non in maniera dirompente, però creando un’ipotesi del fatto lieve come reato autonomo e portando la pena massima ad anni tre. Questo sicuramente dal punto di vista del tasso di carcerizzazione avrà un effetto importante, si apre uno squarcio su quella normativa assurda che ha voluto stabilire delle pene alte per il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti anche di modesta entità, e quindi io credo che da questo punto di vista i piccoli tentativi di riforma siano da apprezzare.

Infine la legge ex Cirielli su cui devo dire il decreto di questa estate ha già dato un bel colpo, perché il decreto n. 78, poi convertito nella legge 94, ha cominciato a togliere una serie di preclusioni che erano state imposte dalla legge ex Cirielli sui recidivi. Del resto il carcere è pieno di recidivi, quindi se si mettono delle preclusioni sui recidivi per l’accesso alle misure alternative è evidente l’effetto perverso che si riversa sul carcere.

Chiudo qui, ma vorrei solo aggiungere che il binomio “nuova cultura giuridica” e “interventi riformatori intelligenti”, non dominati dalla paura, può sicuramente portare a più uomini recuperati, e più uomini recuperati alla società significa più sicurezza e anche più giustizia.

 

 

 

 

Noi abbiamo un tipo di legislazione simbolica e reattiva rispetto alla cronaca

Ma è però una legislazione che in realtà prescinde totalmente dai dati criminologici

 

di Valerio Spigarelli, avvocato, Presidente

dell’Unione delle Camere Penali Italiane

 

Il decreto contro il sovraffollamento è un compromesso, fatto male, alla cui base stanno alcune delle esigenze di porre rimedio alla situazione delle carceri di cui si è discusso qui oggi, e su cui però pesa anche l’ipoteca di un’informazione che manca a sua volta di preventiva informazione. Allora, per partire dal modello costituzionale della pena, mi chiedo se esso abbia una sua diffusione. O se piuttosto le idee che caratterizzano questo modello costituzionale della pena siano sconosciute perché non praticate dall’informazione, a favore di un’idea invece vendicativa della pena,o se vogliamo dirlo in maniera più elegante, assolutamente retributiva della pena in quanto più facile da comunicare. Ed anche questo purtroppo produce ciclicamente degli arretramenti nel sistema penale.

Alcuni degli esempi che sono stati fatti oggi li evito, ma su di uno ritorno, ed è quello dell’omicidio stradale che però potrebbe anche essere quello del femminicidio che però potrebbe essere anche quello del decreto sulla “violenza sessuale”. Noi abbiamo un tipo di legislazione simbolica e reattiva rispetto alla cronaca, ma che ignora in realtà proprio i dati di cronaca. È verissimo che la politica italiana ha delegato alla magistratura molto di quello che non le avrebbe dovuto delegare, ma non è meno vero che la classe politica italiana, rispetto allo strumento legislativo penale, prescinde totalmente dai dati criminologici. Allora noi stiamo discutendo, anzi parlando a una platea che fa parte dell’informazione: voi giornalisti state scrivendo dell’emergenza omicidi stradali, però ieri, sul Corriere della Sera si è finalmente dato un numero, e non in senso figurativo del termine, ma un dato reale, che ci spiega che gli omicidi stradali sono in calo, anzi si sono dimezzati dalle riforme del 2006 in poi. Il che significa che abbiamo un dato, che ci dice che l’emergenza non c’è, riflettiamo sul perché non c’è.

Tra il 2006 e il 2008, si è registrata una stretta sanzionatoria, che io ritengo parossistica, che ha prodotto degli effetti. Se l’effetto è stato anche il calo degli omicidi io lo posso pure prendere per buono, ma devo allora concludere che non c’è alcuna emergenza in atto per questo fenomeno, però devo anche sottolineare, sulla base della mia esperienza, un altro aspetto del problema: io non ho mai fatto nei primi vent’anni di professione un processo per omissione di soccorso, il mio studio oggi invece fa un numero significativo di processi per omissione di soccorso. Questo è il gatto che si morde la coda, tanto più tu alzi il livello della pena, tanto più in certi casi induci, in categorie sociali che sono lontane dalla devianza, comportamenti che invece rientrano nel delitto.

C’è un bellissimo libro, Il falò delle vanità di Tom Wolf, che racconta come un broker di Manhattan finisca per diventare un perfetto criminale solo perché viene coinvolto in un incidente stradale che poi lo conduce al crollo della sua vita. Quando le pene erano più basse erano pochi a non fermarsi per prestare soccorso, oggi sono tantissimi. Questo è un primo punto fondamentale.

Io prima sentivo parlare del decreto legge sul femminicidio sul quale io sono stato l’unico critico ad agosto, anche perché evidentemente tutti gli altri erano distratti, ma anche qui abbiamo una legislazione emergenziale senza emergenza. Non voglio dire che non ci sia il problema della violenza sulle donne, figuriamoci, ma non c’è l’emergenza che legittima, dal punto di vista costituzionale, un decreto legge. Perché attenzione! i decreti legge sono un “esproprio legittimo” del diritto del parlamento a fare le leggi, che si giustifica solo nel caso di necessità straordinarie ed urgenti, che i dati criminologici sulla violenza di genere smentiscono. Del resto, sul tema dei reati sessuali – chiamiamoli cosi – ciò si è ripetuto nel corso del tempo sempre. Il giorno che fu emanato il decreto legge Maroni - per altro largamente incostituzionale come poi è stato riconosciuto successivamente, quello che introduceva la custodia in carcere obbligatoria per tutti i tipi di violenze sessuali - il ministro Maroni – ma non la prendete come indicazione di carattere politico perché i governi di sinistra hanno fatto esattamente la stessa cosa - che firmava un decreto che diceva: “Visto il dilagare del fenomeno della violenza sessuale…”, fece una conferenza stampa e diede merito al suo esecutivo di avere operato in maniera tale, che la violenza sessuale era in calo. Vi ricordate Altan e la vignetta con la frase “certe volte ho delle idee che non condivido?!”, c’era proprio da dirgli allora: ma lei l’ha mai vista quella vignetta? C’era da dire, c’era da alzare la mano quel giorno, in conferenza stampa, per dire: ma scusi, stamane per legge lei non ha affermato il contrario? E non ha fatto una legge sul contrario? Allora questo è il punto fondamentale secondo me che agita la nostra discussione, perché noi possiamo tentare di fare delle riforme, anche delle riforme tendenzialmente illuminate, però ci deve essere una accettabilità sociale di queste riforme che non può passare attraverso i luoghi comuni ma per i dati veri.

Prendiamo il caso del mancato rientro nel carcere di Marassi di qualche tempo fa, ricordate che can can? C’ha messo del suo anche un’ottima persona come il direttore del carcere di Genova, perché ha detto cose che noi umani non volevamo sentire, perché semplicemente non vere. Quale è diventata la notizia in quel contesto? La notizia che ha invaso la cronaca era che fosse possibile avere un permesso premio senza che il direttore, le istituzioni carcerarie, la magistratura di Sorveglianza sapessero che cosa avevi combinato precedentemente. Questa non era una notizia, era una balla, era una balla che per smentirla bastava interrogare non un avvocato, non un magistrato, ma un ex detenuto qualsiasi, che gli avrebbe raccontato quello che sapevamo tutti, e cioè che i precedenti penali sono registrati, eccome. Eppure è stata o non è stata la notizia che ha campeggiato per una settimana sui media nazionali, perché quella se fosse stata vera era la notizia dell’uomo che morde il cane: ti tengo in galera e non so neanche perché ci stai. Ma non era vero, e si è chiesta una stretta sui permessi in base ad un falso presupposto.

Potrei continuare con altri argomenti da questo punto di vista, però c’è una questione centrale in discussione ed è che nessun cronista sportivo fa la cronaca di una partita dicendo “a un certo punto un signore che era vestito in maniera diversa dagli altri ha preso una cosa tonda e l’ha messa sul cerchietto bianco”, perché non conosce le regole del football. Nessuno farebbe una cronaca simile, perché riderebbe tutta l’Italia. Eppure io sono andato a fare un convegno su “Giustizia e informazione”, su “Carcere e informazione” al Consiglio Superiore della Magistratura insieme al mio amico Antonio Polito, che è un grande giornalista italiano che è stato direttore di un giornale, che tra l’altro è anche attento a questi temi. In macchina parlavamo di intercettazioni, e di pubblicazione delle intercettazioni, e io gli ho detto: “Sai, l’articolo 114 del Codice di procedura penale dice questo …”. Antonio, che è una persona simpatica e di grande spirito, mi ha chiesto: “Ma cosa è questo 114?”, e io gli ho spiegato “È una norma che regola la pubblicazione degli atti del processo penale”. Lui poi molto simpaticamente, siccome è un tipo sveglio, quando siamo arrivati ha praticamente dettagliato all’uditorio, nei 20 minuti successivi, su quello che diceva il 114 che aveva appena appreso cinque minuti prima, ma fino ad allora non lo conosceva. Io lo dico scherzando, con il sorriso sulle labbra, ma è significativo, è la prova di una maniera di informare che prescinde totalmente dal dato tecnico, e guardate che quando si parla della magistratura di Sorveglianza è importante sapere di che si parla, perché la materia è molto tecnica.

Noi abbiamo avuto, giustamente in molti casi, meno giustamente in altri casi, il problema dell’aggressione alla giurisdizione in questo Paese negli ultimi anni da parte della politica, lo conoscete tutti il tema. Ma l’unico spezzone della giurisdizione che in forza dei propri provvedimenti ha avuto delle ispezioni politiche è stata la magistratura di Sorveglianza. Di fronte ad alcuni provvedimenti della magistratura di Sorveglianza, da destra o da sinistra o da tutte e due le parti si diceva: andate a controllare che cosa ha fatto quel giudice, perché ha deciso in quel modo. Ma voi vi immaginate una stampa che dice: andate a controllare che cosa ha fatto la Boccassini o che cosa ha fatto un altro procuratore della Repubblica? S’incendia l’Italia dell’informazione giudiziaria, tutti strepiterebbero che si deve rispettare l’indipendenza della magistratura. La libertà della giurisdizione vale per tutti, ma non per la Sorveglianza. Perché quest’aspetto della giurisdizione sembra quasi una non giurisdizione.

Una delle cose che io mi sono sforzato di fare da quando rivesto questa carica, è portare gli avvocati dentro al carcere a vedere come ci si campa. Una delle misure che io avevo proposto a proposito delle riforme dell’Ordinamento giudiziario e di quello forense era far fare un po’ di galera obbligatoria agli avvocati che vogliono fare i penalisti prima di iniziare a fare la professione, e un po’ anche ai magistrati! un po’ l’abbiamo fatto perché abbiamo incominciato a entrare nelle carceri a fare delle visite per conoscere la sua realtà. Anche perché c’era una parte consistente della avvocatura penale che considerava “processo” tutto quello che arrivava alla sentenza esecutiva, e qualche cosa di diverso, di minore, quello che veniva dopo. Allora, ancheper tentare di appropriarci di un ruolo sociale, per entrare diciamo dalla porta giusta, l’avvocatura non soltanto ha tentato di fare una battaglia contro quello che si diceva prima, la legislazione penale simbolica, la cattiva informazione su questo mondo, le soluzioni che vengono prese sotto il ricatto vero o inventato dell’emergenza della sicurezza, ma anche di appropriarsi di un ruolo rispetto a una cornice di diritti fondamentali che dentro il carcere tocchi con mano essere venuta meno.

Però anche qui a mio modo di vedere c’è una invisibilità di diritti che non può venire meno. Il 41 bis è nel catalogo delle cose che io ritengo debbano essere espunte per ritornare alla Costituzione, cosi come l’ergastolo ostativo, anzi cosi come l’ergastolo comune. Ma il 41 bis va raccontato. Perché bisogna dire cos’è il 41 bis, non è maggior sicurezza, perché la maggior sicurezza, doverosa per un certo tipo di detenuti che possono mantenere dei rapporti con l’esterno, si fa in altra maniera e non di nuovo con una cosa così simbolica, cosi fortemente simbolica come la sottoposizione al carcere duro.

Qualche giorno fa il ministro Alfano ha chiesto l’aggravamento del carcere duro, una cosa comica, tanto che il super procuratore nazionale antimafia ha sostanzialmente detto: «Sì, ma ci spiega come? perché più di cosi francamente non sappiamo cosa fare». Sembra una battuta ma è avvenuto esattamente cosi, allora rispetto a questo tipo di questione che cosa bisogna fare? ma soprattutto cosa fare rispetto a un circuito informativo che non è consapevole del tipo dei diritti che sono in discussione, dei pericoli che un certo tipo di informazione può provocare. Torno a dire, lo dico prima di tutto per noi avvocati, poi lo dico per l’informazione, chi fa il giornalista non può dimenticare quello che è avvenuto a Brindisi un paio di anni fa. Vi ricordate? ci fu un attentato di fronte a una scuola, morì una bambina, successe che un sospettato, un sospettato perché un’indagine penale parte dal sospetto, fu portato in Questura. Il problema è che quando lo portarono in Questura contestualmente venne data la notizia ai cronisti di Brindisi, quindi contestualmente si arrivò all’identificazione di questa persona, e sotto la Questura si radunò una folla. Io scrissi un documento che si chiamava “E se li avessero linciati?”. Perché erano più di uno, stavolta se li avessero linciati, chi si metteva a piangere?

Probabilmente si metteva a piangere anche una parte dell’informazione, perché successe che dettero nome e cognome del sospettato, poi andarono sotto casa del sospettato a tentare di descrivere “il mostro”, addirittura con ricostruzioni psicologiche della possibile evidente colpevolezza dell’uomo. Ma, visto che questo non c’entrava niente, nel giro di poche ore con un interrogatorio di polizia tutto si chiarì e fu mandato via dalla Questura a piedi – a suo rischio e pericolo – perché fuori c’era la folla, dopodiché l’informazione fece delle splendide – Bruno Vespa è maestro in questo – fece delle splendide interviste al sospettato dicendo: “Eh, l’ha passatabrutta lei…”. Come con il presunto stupratore della Caffarella, che gli fece pure la rampogna “Però lei si deve comportare bene la prossima volta…”.

Allora questo è un punto in discussione, questo è il punto della deontologia, la deontologia io l’ho letta, nel codice dei giornalisti c’è scritto che le persone in manette non dovrebbero essere riprese. Una deontologia preventiva che dovrebbe impedire le forche caudine sotto le Questure, quando

piegano la testa delle persone appositamente per mostrarle ai fotografi. E la deontologia riguarda per esempio come si descrive la legge Gozzini. La Gozzini viene dipinta come quello che assolutamente non è, una sorta di regalia ai cattivi. Io non voglio fare il buonista da questo punto di vista, perché io mi sono scocciato di essere un buonista e di essere rappresentato come quello buono, io non sono buono, io sono pratico, io sono un contabile dei costi/benefici e dico che fa meglio la Gozzini sulla sicurezza che l’orgia di retorica che ogni volta leggo sui giornali quando si parla della Gozzini.

Ahimè per la verità venendo in treno la retorica l’ho ascoltata da un rappresentante del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Infatti a proposito del Decreto Legge Cancellieri che allunga la liberazione anticipata l’ex dirigente del Dap, Sebastiano Ardita, in Commissione giustizia ha detto che è un indulto mascherato. Ha detto una cosa che non sta né in cielo né in terra, e l’ha detto per rafforzare quella parte del Decreto Legge che è la più inconciliabile con la Costituzione. Nel ‘92 a sangue caldo di Falcone e Borsellino sulle strade, si tentò anche, nel costruire praticamente il sistema del 4 bis pieno di preclusioni oggettive e soggettive, di stabilire che pure la liberazione anticipata doveva rientrare in quelle preclusioni, ma lì però ci si fermò. Ci si fermò perché molti costituzionalisti dissero «Guardate che non è possibile proprio negare totalmente qualsiasi beneficio nel sistema di doppio binario, perché così si vanifica la funzione di emenda della pena, che è scritta in Costituzione”. Con quello che ha detto Ardita, l’altro giorno di fronte alla Commissione giustizia, si sta tentando esattamente di fare questo, disegnare un sistema incostituzionale. Allora ci vuole deontologia, ci vuole conoscenza e ci vuole anche uno sguardo non provincialmente esterofilo su quello che avviene fuori.

Quando noi parliamo della Cirielli, quando noi parliamo dell’orgia dei Decreti sicurezza che in realtà hanno fatto male alla sicurezza in questo Paese, ci dimentichiamo di dire che i nostri legislatori non sanno neanche cosa imitano. Perché tutto quello che è avvenuto nel nostro Paese tra il ‘90 e il 2000 era già successo negli Stati Uniti venti anni prima. Lì avevano inventato le parole d’ordine – Tre colpi e sei fuori -, e la teoria delle finestre rotte. “Tre colpi e sei fuori” significava che se tu violi la legge una volta hai tutto l’apparato sanzionatorio, ma anche tutto quello che l’ordinamento ti può dare per essere recuperato, se lo fai due volte pure, ma alla terza, secondo un’ottica schiettamente puritana, hai esaurito il bonus, e quindi anche se guidi in stato di ebbrezza ti prendi una pena strepitosa e non esci più, buttano la chiave. La teoria delle finestre rotte significa che se tu con la fionda rompi un vetro, non meriti la pena della rottura del vetro, meriti una pena più alta perché, rompendo quel vetro, permetti il degrado di quella via, e quindi dai una formidabile mano alla criminalità. Per questo non meriti la pena per quel che hai fatto, ma per quel che succederà. Bene, queste teorizzazioni negli Stati Uniti hanno fallito perché hanno portato ad una cancerizzazione di massa che è diventato il maggior problema, e senza nessun beneficio rispetto alla lotta al crimine. Gli americani lo riconoscono, perché hanno la sicurezza che è esattamente quella di prima se non peggio, ma in più hanno oltre 2 milioni di detenuti. Allora il nostro legislatore ha accolto queste teorie quando lì stavano abbandonando quella strada, e non per bontà, è che lì sono pragmatici, e nemmeno perché hanno la stessa nostra Costituzione, e neppure la stessa filosofia sulla pena che invece dovrebbe esserci qui per via della Costituzione, ma semplicemente perché sono seri nel valutare l’effetto e l’impatto delle leggi. E l’effetto e l’impatto delle leggi talvolta si misura anche sui numeri, ed è incredibile che questi numeri certe volte scompaiono sulla stampa.

Mettiamola come vi pare, ma in fondo è semplicemente una questione di onestà intellettuale.