Capitolo primo:

Con gli occhi della paura

 

“La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari”. Sono parole di Tzvetan Todorov, teorico della letteratura e saggista, da cui partono due criminologi, Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, per analizzare, nel loro libro “Oltre la paura”, la realtà vista “con gli occhi della paura”: “Si pretende di vivere una vita asettica, priva di rischi, a partire dall’idea diffusa che ogni conflitto possa essere sedato. La paura sostiene così una domanda di sicurezza che impone nelle risposte politiche un codice binario amico/nemico, che porta addirittura a riproporre nuove forme di discriminazione istituzionale e a situazioni che ricordano da vicino i linciaggi americani di inizi del ‘900”.

 

 

 

Con questo tipo di informazione, i cittadini non sono più al sicuro

In realtà, credo che siano solo più spaventati

 

di Clirim Bitri, Ristretti Orizzonti

 

Qualche settimana fa il governo emana un Decreto Legge per far fronte all’emergenza delle carceri, la stessa sera non rientra nel carcere di Genova dal permesso Bartolomeo Gagliano, un detenuto con una

storia pesante di più omicidi e di una patologia psichiatrica grave, la notizia occupa le prime pagine dei giornali nazionali e i programmi televisivi di prima serata, con tutta quella propaganda sembrava che bastava aprire la porta di casa e dietro c’era un feroce killer pronto a farti del male, Il giorno dopo un altro mancato rientro dal permesso e la notizia si attacca alla prima e sembra che i non rientri siano all’ordine del giorno, anche se il non rientro dai permessi riguarda meno dell’1% dei detenuti che usufruiscono di questa opportunità e più del 99% torna in carcere rispettando le regole. Viene convocato il ministro in Parlamento, viene chiesto il trasferimento del direttore del carcere e viene aperta un’indagine sull’operato del magistrato di Sorveglianza. Io non vorrei mai subire quello che hanno subito i magistrati che hanno concesso i permessi ai due evasi, anche se avevano fatto bene il proprio lavoro, e forse al posto loro ci penserei molto prima di concedere un altro beneficio. E le conseguenze le pagano sempre quei detenuti che sarebbero nelle condizioni per beneficiare di permessi e misure alternative, e spesso vedono un rallentamento del loro percorso, dovuto al clima che si è creato nel Paese e che spesso frena le decisioni dei magistrati. Ottenere una misura alternativa è molto difficile, e poi è difficile anche usufruirne in modo corretto, perché non sei libero, hai un programma preciso e delle regole molto rigide da rispettare, ma quello che è più importante è che per chi viene inserito gradualmente nella società la recidiva cala sensibilmente, da quasi il 70% di chi esce a fine pena a meno del 20% di chi beneficia delle misure alternative. Sarebbe bello che la recidiva fosse vicina allo zero, ma non bisogna dimenticare che comunque c’è un 50% di differenza tra chi usufruisce delle misure alternative e chi invece sconta la pena rinchiuso fino all’ultimo giorno. Ma nonostante questi siano i dati reali, frutto di ricerche approfondite, ho letto di recente un articolo dell’ex magistrato Bruno Tinti che faceva i conti della pena che dovrebbe scontare un assassino: secondo lui fra liberazione anticipata, semilibertà e affidamento, in cinque anni l’assassino avrebbe finito la pena. Non so come lui abbia fatto questi conti, ma io conosco delle persone che sono da più di dieci anni in carcere senza mai essere uscite neppure per un giorno in permesso, anche se non hanno ucciso nessuno. Bisogna combattere la criminalità, mettere in carcere chi è veramente pericoloso per la società (mentre oggi in carcere ci sono anche moltissime persone che hanno bisogno piuttosto di cure, come i tossicodipendenti), ma non credo che con questo tipo di informazione i cittadini siano più al sicuro, credo che siano solo più spaventati.

 

Ornella Favero:

Io aggiungo un dato: nel 2012 ci sono stati a Padova 989 permessi e 3 mancati rientri. Qualcuno potrebbe dire: sì, ma quei mancati rientri sono persone che mettono a rischio la mia vita e la mia sicurezza, quindi meglio che se ne stiano dentro tutti a scontare la loro pena fino all’ultimo giorno. Ecco su questo bisogna essere chiari: la certezza assoluta che non ci sia rischio nel far uscire le persone prima dal carcere con i permessi o le misure alternative non esiste, però attenzione sul piatto della bilancia non è che va messo in conto semplicemente il mancato rientro, va messo in conto il dato, che va sottolineato con forza, che, per le persone che non fanno nessun percorso, la recidiva negli anni successivi alla fine della pena è intorno al 70% a fronte del 19% di chi invece comincia a uscire con i permessi e poi con le misure alternative. Quindi il rischio legato al fatto che le persone non facciano un percorso risocializzante viene tutto spostato alla fine, ma anche ingigantito. Perciò attenzione, il rischio complessivamente è molto più forte se la persona non fa un percorso di uscita graduale dal carcere.

 

 

 

 

A volte, titoli di giornali e telegiornali incidono in modo negativo sulle nostre vite

L’angoscia che nasce in noi dopo questi titoli è tanta e ti ferma e ti impedisce di guardare al futuro, di progettare un futuro

 

di Lejdi Shalari, Ristretti Orizzonti

 

Mi chiamo Lejdi, vengo dall’Albania, e volevo raccontarvi un episodio, un breve episodio della mia storia, che riguarda in qualche modo la questione della paura. Non posso fare a meno di fare riferimento anch’io alla storia del mancato rientro dal permesso del detenuto Bartolomeo Gagliano, e della paura e dell’ansia che questo fatto ha provocato in me. Io sono in carcere da più di sei anni e da un po’ di mesi mi hanno chiuso quella che si chiama “sintesi”, la relazione che contiene i risultati dell’attività di osservazione del detenuto svolta dagli operatori e del programma di trattamento, nella quale la direzione e l’equipe del carcere hanno dato parere favorevole al fatto che io possa iniziare un percorso verso l’esterno, con l’accesso ai permessi premio. Così ho presentato la mia prima richiesta di permesso nel mese di novembre, però la prima volta che un detenuto presenta questa richiesta avvisa la famiglia, alla quale spiega di aver chiesto un permesso, e le persone che vivono al di fuori di questo posto iniziano inevitabilmente a pensare che il giorno per il quale ho chiesto il permesso uscirò veramente, però non è affatto così, non esiste nessun automatismo nella concessione di questi permessi. Ecco allora perché la paura è piombata in me, dentro di me, come è successo a tanti miei compagni detenuti che sono in attesa di un permesso, dopo la fuga di Gagliano e l’altro evaso che hanno provocato un grande interesse mediatico, diciamo che in quei giorni accendevi la TV e tutti i telegiornali avevano come prima storia “l’evaso di Genova”. Certo era una notizia importante, ma data così, come se questo significasse che i permessi premio sono una misura pericolosa, e non come succede nella maggioranza dei casi un modo per far rientrare le persone nella società gradualmente, ha creato un enorme e ingiustificato allarme sociale. A volte, i titoli di giornali e telegiornali incidono in modo negativo sulle nostre vite e sulle vite delle nostre famiglie, creando scoop fatti sulla pelle degli altri, e questo non mi sembra un modo giusto di fare informazione. L’angoscia che nasce in noi dopo questi titoli è tanta e ti ferma e ti impedisce di guardare al futuro, di progettare un futuro. Magari tutto questo che sto dicendo non influisce sulle decisioni dei magistrati o di chi deve decidere della nostra vita, però è certo che sarebbe meglio non darle, certe notizie imprecise, superficiali, fuorvianti.

 

 

 

 

Personalmente, io la futura libertà la sto vivendo con grande paura

So che devo ritornare fuori in punta di piedi, per poter affrontare la società con tutti i problemi che essa comporta dopo che uno si è fatto tanti anni di carcere

 

di Paolo Cambedda, Ristretti Orizzonti

 

Sono Paolo, è da circa vent’anni che sono in galera e per fortuna mi manca poco ad uscire. Ieri, durante un incontro, uno dei tantissimi incontri che abbiamo avuto con gli studenti, una studentessa ci ha rivolto una domanda e io l’ho fatta mia, me ne sono appropriato perché rappresenta un po’ il centro dei miei pensieri da quando il mio fine pena è diventato molto vicino. La domanda era come pensiamo di affrontare la libertà dopo aver passato tanti anni dentro. Ecco io personalmente la futura libertà la sto vivendo con grande paura, la sto vivendo con grande paura nel senso che così d’impatto credo di trovare molte difficoltà a ricucire quello strappo che si è creato tra me e la mia famiglia a causa della lunga carcerazione, cosa che desidero fortemente fare. Dopo di che devo anche tessere quella tela per ricucire il rapporto con la realtà della vita libera e ritornare fuori in punta di piedi, per poter affrontare la società con tutti i problemi che essa comporta dopo che uno si è fatto tanti anni di carcere. È chiaro che se a me fosse stata data prima, in passato, la possibilità di affrontare questo grosso, per me grosso, problema e mi fosse stata concessa l’opportunità di affrontarlo con più gradualità, sarebbe stato tutto molto più facile e meno traumatico. Questo volevo dire. Vi ringrazio tutti per l’attenzione che ci prestate, ma sono di poche parole, appunto perché durante tutti questi anni di carcere ho perso pure quella naturale capacità di relazionarsi con le persone.

 

 

 

 

 

Oltre la paura

La paura diventa un criterio per la protezione dei propri spazi vitali (casa, automobile), ri-orienta i programmi sociali degli enti locali, ridisegna gli spazi pubblici e ridefinisce la vita sociale

 

di Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia,

Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico

dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano.

Tra le sue pubblicazioni, Cosmologieviolente e Oltre la paura

 

Sono Adolfo Ceretti, e insieme a Roberto Cornelli ho scritto il libro “Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica”, pubblicato da Feltrinelli nel 2013. La riflessione che vi proporrò – i cui temi portanti sono tratti in larga parte da questo volume – costituirà la prima parte di un ragionamento più articolato, che sarà portato a conclusione da Cornelli.

1.      Partiamo dalla vita quotidiana, da un gesto quasi automatico: accenderela televisione. Come spesso accade iniziano ad affollarsi davanti a noi delle immagini, delle notizie, dei commenti esperti su crimini efferati e giuste punizioni. Che siano telegiornali, talk show o fiction poco importa. A essere toccate, a essere snudate sono le nostre paure più radicali. I crimini violenti, agiti o rappresentati mediaticamente, proiettano un’ombra nel sociale e fanno riaffiorare in noi delle angosce profonde che chiedono prepotentemente di essere sedate. Le passioni, le emozioni vissute dai rei, dalle vittime e da tutti noi dopo la commissione di un delitto brutale ci rendono, infatti, ancora più consapevoli di abitare in un mondo che appare disorientante e minaccioso, e si attorcigliano intorno a una risposta punitiva ritenuta immancabilmente incapace di soddisfare qualsivoglia criterio della giustizia. È per governare queste tensioni che gli uomini, fin dagli albori, hanno edificato i sistemi dei delitti e delle pene. Alcune domande si impongono subito spontanee: “Perché, all’alba del terzo millennio, queste paure ancestrali minano delle sicurezze che solo qualche lustro addietro sembravano inattaccabili?”. “Per quali ragioni i sentimenti delle vittime dei reati e lo sdegno dell’opinione pubblica, reificati dai massmedia, mettono sempre più frequentemente sotto scacco le scelte politiche da assumere in campo penale?” Sia ben chiaro. Ciò non accade solo in Italia ma dovunque nel mondo, per esempio nei Paesi anglosassoni. È sotto gli occhi di tutti il radicale cambiamento dei toni, dei linguaggi che accompagnano, negli ultimi decenni, i discorsi sulla questione criminale. Detto altrimenti, il sentire collettivo viene sempre più veicolato dalla politica per affrontare e risolvere i problemi della sfera penale fino a diventare, esso stesso, l’obiettivo principale delle risposte da dare.

 

2.      In Italia, per comprendere le ragioni di questo mutamento ritengo che si debba rinviare all’insanabile dissidio che, a partire dai primi anni 90, vede fronteggiarsi due schieramenti e due visioni contrapposte. Da un lato le formazioni politiche populiste, le quali sostengono con convinzione e con un successo sempre crescente che ogni decisione che riguarda i controllo della criminalità e le risposte di carattere penale devono essere colte dagli sguardi incrociati dell’opinione pubblica, indipendentemente dall’opinione degli esperti. Dall’altro una parte consistente del mondo accademico della società civile e la magistratura, che si pongono quali ultimi e ormai vulnerabili baluardi dello stato di diritto costituzionale. Ho più volte ripetuto, però, che quello che ho appena delineato rappresenta l’aspetto hollywoodiano di una questione epocale che investe, con accenti e modulazioni differenti, quasi tutte le democrazie tardo-moderne. Le ragioni più profonde di questo mutamento, che riporta le passioni legate al crimine, le paure e il sentire collettivo al centro della politica, vanno dunque cercate altrove, propriamente su un piano antropologico-giuridico. In breve, se è vero, come è vero, che è stata la paura reciproca – di ciascuno verso ogni altro – a spingere gli uomini a uscire da uno stato di guerra di tutti contro tutti, a rinunciare al proprio diritto a tutto e ad affidarsi a un soggetto terzo, lo Stato, in grado di contenere e controllare la violenza degli uomini attraverso l’affermazione di un ordine sociale e condiviso e la promessa di pace e sicurezza, il riemergere prepotente delle passioni, delle emozioni individuali e collettive legate agli effetti distruttivi del crimine ha certamente a che fare, oggi, con l’evaporazione di questo progetto politico che ha contraddistinto la modernità. Come è noto, l’asse attorno al quale ruota tutto il processo di cura della violenza è, a partire da quest’epoca, quello della giustizia penale e del suo potere di punire, che dissuade i cittadini dal ricorrere alla vendetta privata. A prospettare all’individuo un futuro radioso di pace e prosperità è stata la fiducia nella possibilità di contenere la violenza dell’uomo attraverso il suo ingabbiamento – inteso weberianamente come gestione razionale e burocratica –nelle istituzioni penali. Oggi, detto in maniera secca, è in gioco la perdita, da parte dello Stato, del “monopolio della violenza legittima”. Per molti motivi – indagati da filosofi, sociologi, politologi, criminologi e giuristi – lo Stato ha perso la propria centralità, e le protezioni reali e simboliche che esso garantiva si stanno disperdendo, non trovando ancora un nuovo soggetto intorno al quale ricostituirsi. Ed è proprio in questi momenti di crisi che la violenza e la paura che essa suscita sono contenute con sempre minore effettività dagli apparati del potere statuale, e riemergono in un modo violento.

 

3.      Se queste riflessioni hanno un senso, lo ha anche affermare che noi viviamo in un’epoca che si contrappone ad altri periodi della modernità, in cui la fiducia costituiva la caratteristica essenziale del sentire collettivo. Quello che intendo dire è che le inquietudini che assediano i nostri corpi non sono – come un’autorevole parte della letteratura su questi temi pretenderebbe – semplicemente l’esito di una manipolazione politica o massmediatica – che ne costituiscono se mai la base di appoggio. Sotto questa angolatura la paura della violenza, in particolare, s’impone oggi come quella esperienza affettiva, quella passione – scrive Cornelli e io con lui nelle pagine iniziali del nostro libro – che più di altre è in grado di metterci in guardia da quanto percepiamo stia accadendo intorno a noi, e ha ormai assunto la funzione di ordinare gli avvenimenti collettivi intorno a nuclei di significato condivisi. La paura entra prepotentemente nella politica, quella vera, vale a dire nelle decisioni mediatiche, che organizzano la vita sociale e prima ancora nella mentalità e nelle sensibilità che competono nell’orientare quelle decisioni. Non c’è destra né sinistra che tenga. La paura si impone nei rapporti tra istituzioni fino a diventare, per esempio, la condicio sine qua non dell’accesso ai finanziamenti pubblici: se non si descrive il proprio territorio come insicuro e caratterizzato da allarme sociale, non si ottengono finanziamenti per riqualificare quartieri degradati, per realizzare i piani di illuminazione nei parchi e per aumentare la qualità dei servizi. La paura diventa un criterio per la protezione dei propri spazi vitali (casa, automobile), ri-orienta i programmi sociali degli enti locali, ridisegna gli spazi pubblici e ridefinisce la vita sociale.

 

4.      I criminologi sono anche, e talvolta soprattutto, dei ricercatori empirici. Una domanda legittima, semplice e ineludibile che dobbiamo porci è allora la seguente: l’analisi delle tendenze della criminalità in Italia giustificano questo viraggio collettivo verso un senso di insicurezza diffuso? Su questi temi Cornelli è maestro, e mi appresto quindi ad anticipare rapsodicamente quanto egli dirà poi in modo più completo. Diciamo che, in estrema sintesi, poiché si trattadi un’analisi assai complessa, chei passaggi fondamentali della storia della criminalità registrati negli ultimi 70 anni in Italia sono fondamentalmente due:

a) la svolta tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, in cui i delitti aumentano – nel complesso – vistosamente: in particolare i furti quasi quadruplicano nel giro di pochi anni; a loro volta gli omicidi (volontari, preterintenzionali, e infanticidi),dopo un lungo periodo di diminuzione iniziano a crescere. Ricordo solo a me stesso che questi sono i decenni in cui esplodono i fenomeni del terrorismo e della lotta armata, e inizia a registrarsi anche il salto di qualità della criminalità organizzata di stampo mafioso;

b) la tendenziale diminuzione di omicidi e furti negli ultimi 20 anni – confermata anche, all’inizio di quest’anno, dai dati del 2013. Come rileva lo stesso ISTAT, nonostante la criminalità e la sicurezzasiano state nel corso degli ultimi due decenni una delle maggiori preoccupazioni dei cittadini, in questo arco temporale si è registrata una significativa riduzione dei reati denunciati più gravi come l’omicidio, nonché di quelli dal forte impatto mediatico come la rapina e i furti in abitazioni. Per tutti e tre questi reati la tendenza alla diminuzione è più accentuata in Italia rispetto agli altri Paesi europei e, con riferimento al 2009 (dato disponibile più recente per un confronto internazionale) i valori italiani risultano inferiori a quelli della media europea calcolata su 27 Stati membri. Rispetto ai principali Paesi europei solo la Germania mostra valori costantemente inferiori all’Italia, mentre Francia e Regno Unito si posizionano sempre al di sopra. Naturalmente, se si cercano le ragioni per cui in Italia gli omicidi si contraggono o crescono, l’ago della bilancia è quasi sempre la criminalità organizzata. La crescita e la diminuzione del tasso di omicidi si sono concentrate nelle regioni meridionali con il più alto radicamento di organizzazioni mafiose; nel 2010 gli omicidi sono stati circa un terzo di quelli registrati nel 1992, con una forte contrazione proprio di quelli di stampo mafioso. Se il ragionamento di Roberto e mio… tiene, allora la propagazione sociale della paura non dipende da una sommatoria in crescita delle paure individuali; e neppuresembra essere l’effetto di una crescita di violenza nelle città; e probabilmente non è neanche semplicemente l’esito programmato di una manipolazione politico- mediatica. Emerge, invece, una rinnovata centralità del sentimento della paura come passionecollettiva intesa come uno stato affettivo diffuso che si costruisce culturalmente in relazione a una certa idea di società, e come apparatosignificante, che orienta le mentalità e le sensibilità e il modo in cui percepiamo quello che sta intorno a noi. In questa condizione di indeterminatezza la paura segnala l’imminenza di una crisi di sistema. ZygmuntBauman scrive, a tal proposito, che “la paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante,priva di un indirizzo o diuna causa chiari”.

 

5.    Nel nostro percorso si è reso necessario anche capire come, in un contesto generale così frammentato, le paure si impadroniscono dei corpi. L’abbiamo fatto analizzando alcuni efferati omicidi assurti alla cronaca, e che hanno sconvolto molto, spesso, l’opinione pubblica. Ricordo qui la morte di MaricicaHahaianu nel quartiere Anagnina, a Roma. Maricica, una cittadina romena, cade a terra colpita da un pugno sferrato da un cittadino italiano, il fatto avviene davanti alle telecamere della metropolitana; nel quartiere Antonini, a Milano, nel 2010 un tassista viene brutalmente aggredito da più persone dopo aver inavvertitamente ucciso, con la sua macchina, un piccolo cane cocker, di proprietà di una ragazza abitante in quel quartiere; ancora, in via Padova, a Milano, un ragazzo egiziano viene ucciso da un giovane dominicano in seguito a un diverbio nato per dei commenti riguardanti una ragazza. A Rosarno, sempre all’inizio del 2010, decine di cittadini extracomunitari, dopo essere stati aggrediti, sono costretti a lasciare immediatamente la cittadina e le loro modestissime abitazioni per evitare di essere linciati in pubblico. E poi non ci si può dimenticare dei roghi dei campi Rom, che sono avvenuti un po’ ovunque in Italia. Nell’analizzare queste situazioni Cornelli e io abbiamo rilevato che chi ha commesso questi delitti è molto spesso totalmente incapace di partecipare emotivamente alle vite degli altri. E questa “incapacità” quando si parla, per esempio, di attacchi ai Rom – che affascinano e spaventano – assurge a livelli altissimi. Il termine Rom sembra, infatti, essere diventato sinonimo di ogni nefandezza, per le illegalità di cui sono accusati, per le condizioni di vita deprecabili di cui sono considerati responsabili e per la loro supposta natura di nomadi, incompatibile e non integrabile in una vita civile. La costruzione di un campo Rom in un’area urbana spezza un equilibrio e rimanda immediatamente ai caratteri dello sconfinamento, in base al quale il confine di un corpo, singolare o collettivo, individuale o politico, viene valicato, insidiato e, dunque, alterato, trasformato e corrotto. Sono questioni serissime per gli equilibri della civile convivenza, che non sempre vengono captati dalla stampa con le dovute cautele. Ciò che prima era sano, sicuro, identico a se stesso – un quartiere – è ora esposto a una contaminazione che rischia di devastarlo. L’esigenza di immunizzazione che deriva da queste minacce diventa un perno di rotazione simbolica e materiale dei nostri sistemi sociali. L’imperativo, per molti, è diventato quello di respingere e allontanare i pericoli percepiti come attacchi esterni, quali essi siano: migranti clandestini, terroristi, delinquenti sessuali, persone incivili. È questa un’idea di società che si sta facendo pericolosamente largo. La priorità di voler vivere una vita asettica, priva di rischi di contaminazione si nutre dell’idea, ormai interiorizzata dalla coscienza sociale, che ogni conflitto possa essere governato e debba essere rimosso. Non vogliamo assolutamente dover pensare alla complessità che questi eventi producono. Meglio convincersi che tutto debba essere rimesso a posto, in ordine. E che cosa meglio della sfera penale si presta a funzionare da deposito delle istanze di immunizzazione? Cosa, meglio della sfera penale costituisce un luogo in cui l’illusione dell’immunità può prendere forma per differenziare “noi” da “loro”, riducendo le tensioni a scontro tra normalità e devianza? Nella dottrina penalistica si è imposto negli ultimi anni un modello di pensiero che si autodefinisce come il “diritto penale del nemico”, che GüntherJakobs contrappone al “diritto penale del cittadino”.Tale concezione mette in risalto l’esistenza di un codice binario nella legislazione penale: garantista per gli inclusi, repressivo per gli “altri”. Per Jakobs il “nemico” è colui che, nel suo comportamento, per la sua occupazione professionale o attraverso il vincolo a un’organizzazione ha, in forma presuntivamente duratura, rifiutato volontariamente lo status di cittadino, per auto-convertirsi in nemico del sistema. Per ciò stesso, lo Stato si auto-legittimerebbe a offrire ai cittadini una protezione rafforzata da coloro che si pongono all’esterno del sistema di convivenza civile (terroristi, delinquenti sessuali, trafficanti di stupefacenti, mafiosi), ammettendosi, in ragione della pericolosità propria del tipo di autore, l’applicazione di misure di sicurezza, spesso nella veste di pene, in una fase antecedente alla realizzazione della condotta penalmente rilevante.

 

6. Nel terminare – e prima di lasciare la parola a Cornelli che dovrà anche affrontare la pars construensdi questo iter condiviso – desidero osservare che l’alternativa di fronte alla quale si è posti rispetto a queste opzioni quadro è secca: se non si vuole vivere in una società insicura, allora occorre proteggersi fino in fondo da ogni rischio e chiedere alle istituzioni di fare altrettanto. Il paradigma securitario funziona da calamita che polarizza le decisioni pubbliche e le scelte individuali. Tutto ciò che respinge e immunizza è positivo, tutto ciò che accoglie e che apre al dialogo è negativo. Di più. Il paradigma securitario induce ad assumere una “coerenza politica” che proietta in un futuro che appare inevitabile. Ma vogliamo davvero rassegnarci a immaginare e progettare un mondo alla BladeRunner, milioni di piccole case sovrastate da un palazzo di 400 piani, quello della polizia, che domina il paesaggio urbano? Chi ha scritto questo libro pensaovviamente di no. Lasciando laparola a Cornelli lo invito a indagareancora sul perché la paura si èimpossessata, come passione collettiva, di molti di noi, e su come invece pensiamo che sia possibile, almeno da un punto di vista filosofico politico, iniziare a progettare qualche cosa di meglio e di diverso di una visione securitaria.

 

 

 

 

Perché aumenta il controllo penale sulla vita delle persone?

In realtà l’aumento delle incarcerazioni non è in relazione all’andamento della criminalità, ma incarcerazione e criminalità sono due fenomeni tendenzialmente distanti, che rispondono a logiche parzialmente diverse

 

di Roberto Cornelli, Professore Aggregato di Criminologia dell’Università

di Milano Bicocca, coautore del saggio Oltre la paura (Feltrinelli, 2013)

 

Una premessa rispetto al cosiddetto “pianeta carcere”, espressione che evoca una certa idea di separatezza del Penitenziario dalla vita sociale. Come criminologi siamo abituati a lavorare in un’altra ottica: oggi siamo in carcere, ieri eravamo alla Scuola Superiore della Polizia di Stato e domani saremo in alcuni quartieri periferici a lavorare con chi – istituzioni, associazioni e comitati – pensa e gestisce progetti di prevenzione sociale e comunitaria Evidentemente per chi fa il criminologo esiste un solo pianeta, il pianeta in cui viviamo tutti e nel quale ci sono anche violenza, sopraffazione, violazione dei diritti, e ci sono le risorse per non distogliere lo sguardo da queste che sono e rimangono vicende pienamente umane.

 

1.      Vorrei innanzitutto ritornare sul tema della paura nella società contemporanea, leggendolo in relazione all’andamento delle incarcerazioni; di seguito, fornire delle suggestioni per comprendere la relazione tra politica e paura oggi, già tematizzata egregiamente dal Professor Ceretti; infine, affrontare una questione che reputiamo importante anche a fini preventivi e che riguarda la forza dell’esempio. Si tratta di tre spunti di riflessione – tratti perlopiù dal volume Oltrela paura – che spero invitino a ulteriori approfondimenti chi svolge la professione importante e delicatissima di giornalista.

 

2.      Complessivamente nei Paesi occidentali, negli ultimi trenta o  quarant’anni, si riscontra un aumento  considerevole delle incarcerazioni. Questo è un dato assodato nella letteratura criminologica contemporanea. Negli Stati Uniti, per esempio, l’aumento è stato vertiginoso: sulla base dei dati del U.S.  Bureau of Justice Statistics, nel periodo che va dagli inizi degli anni Settanta al 2010 si è verificato un incremento di oltre 7 volte il tasso d’incarcerazione: al 31 dicembre di quell’anno sono presenti 730 detenuti ogni 100 mila residenti (in valore assoluto: 2.266.832). In Europa (Occidentale) i tassi di istituzionalizzazione penitenziaria sono notevolmente più bassi rispetto a quelli degli Stati Uniti e, almeno dagli anni Cinquanta fino al 1990, l’Italia è tra i Paesi europei quello con meno detenuti (35.469 presenti al 31 dicembre 1991). Nell’arco del ventennio successivo il recupero dell’Italia è stato rapidissimo: al 31 luglio del 2012 sono recluse 66.009 persone, con un tasso per 100 mila abitanti di 108. Il dato è superiore a quelli della Francia (102, all’1 luglio 2012) e della Germania (83, all’1 marzo 2012), ma comunque inferiore a quelli della Spagna (151, al 27 luglio 2012) e di Inghilterra e Galles (154, al 31 agosto 2012). Contestualmente, anche l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (la c.d. area penale esterna) si dilata notevolmente, caratterizzandosi non tanto come modalità sostitutiva rispetto al carcere, ma piuttosto come area di esecuzione penale complementare: tali misure operano “come ‘integratori di sistema’, che intervengono insieme o dopo o a fianco o in luogo, ma sempre correlati con una pena detentiva”. Basti considerare che fino al 1992 le misure alternative alla detenzione non interessano più di 10.000 detenuti all’anno, e che a partire dal 1993 fino a metà degli anni Duemila riguardano sempre più persone, con la punta massima, nel 2004, di 50.228 detenuti. Negli ultimi anni si registra, invece, una flessione nel loro utilizzo (21.122 nel 2009), quasi certamente dovuta all’indulto concesso con la legge n. 241 del 31 luglio 2006. Alla luce di questi dati potremmo dire quindi che, complessivamente, si registra in Italia un aumento del controllo penale sulla vita delle persone.

 

3.      A questo punto, la prima domanda che dovremmo porci è la seguente: perché aumentano così considerevolmente le incarcerazioni? In altri termini, perché aumenta il controllo penale sulla vita delle persone? E, soprattutto,perché in Italia aumenta a partire dagli anni Novanta e non prima? I dati che Adolfo Ceretti prima sintetizzava con riferimento all’andamento della criminalità in Italia negli ultimi decenni forniscono due indicazioni fondamentali: innanzitutto si registra un aumento dei reati contro il patrimonio negli anni Settanta che ha portato in particolare i furti a quadruplicarsi nel giro di pochi anni e, negli ultimi dieci anni, sia pure con livelli non più paragonabili a quelli degli anni Sessanta, a diminuire; inoltre, si rileva una tendenziale diminuzione degli omicidi a partire dagli anni Novanta. Da qui un dato: il tasso d’incarcerazione, per andamento ma anche per dimensione, non è in relazione, come molti di noi potrebbero pensare, al tasso di criminalità: incarcerazione e criminalità sono due fenomeni tendenzialmente distanti, che rispondono a logiche parzialmente diverse. Su questo si potrebbe dire molto, parlando per esempio di due livelli di criminalizzazione che agiscono con finalità coerenti,ma diverse: la prima per stabilire i confini della moralità pubblica, la seconda per incapacitare i soggetti ritenuti pericolosi. Non potendo, per esigenze di tempo, soffermarci su questa distinzione, rilevo come difficilmente si possa imputare l’aumento del tasso di istituzionalizzazione in carcere a partire dagli anni Novanta all’andamento della criminalità. La risposta va cercata altrove, e, con Adolfo Ceretti, sostengo che sia proprio il mutamento dei toni, del linguaggio e della visione rispetto alla questione criminale a sostenere politiche penali che amplificano la necessità di ricorrere alla risorsa penitenziaria. In particolare è il tema della “paura della criminalità”, poco dibattuto e certamente poco presente nelle agende politiche e mediatiche fino alla fine degli anni Ottanta, tranne alcuni casi eclatanti, a imporsi come tema politico fondamentale a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Emerge sulle prime pagine dei giornali e negli editoriali, nelle aperture dei telegiornali e nei programmi delle forze politiche di tutto l’arco costituzionale. Si rileva, in questo senso, una connessione forte tra il tema della paura della criminalità e il tasso d’incarcerazione in aumento: sulla spinta dei continui allarmi sicurezza si assiste, nel corso degli anni Novanta, a una vera e propria torsione della legislazione penale. Com’è noto, in Italia a metà degli anni Settanta s’istituzionalizza il modello rieducativo attraverso la riforma dell’Ordinamento penitenziario e l’introduzione delle misure alternative alla detenzione (legge n. 354/75). Purtuttavia, le pratiche correzionali si collocano in un contesto legislativo e culturale fortemente ambivalente, che porta a un loro utilizzo più in chiave di controllo penale diffuso che di risocializzazione. Da un lato la riforma del 1974 (decreto legge n. 99, convertito nella legge n. 220), con la quale si attribuiscono ai giudici maggiori discrezionalità nel mitigare le sanzioni da applicare nei casi concreti, la legge 689/81 (Modifiche al sistema penale), con la quale si prosegue nel solco della decarcerizzazione, e la riforma del processo penale a carico di imputati minorenni del 1988 (Dpr 448/1988) risultano coerenti con i principi rieducativi. Dall’altro lato la legislazione penale inizia immediatamente a risentire della richiesta di maggiore fermezza – in particolare rispetto a fenomeni criminali emergenti, quali terrorismo, lotta armata e criminalità organizzata. L’ottica emergenziale caratterizza i provvedimenti di inasprimento del trattamento sanzionatorio dei delitti di rapina, estorsione, sequestro di persona, ricettazione (legge 14 ottobre 1974 n. 497; legge22 maggio 1975 n. 152) e sequestro di persona a scopo di estorsione (legge 18 maggio 1987 n. 191; legge 30 dicembre 1980 n. 894). Gli anni Ottanta e Novanta si caratterizzano fortemente per il processo di ipertrofizzazione del diritto penale. Si assiste a un’espansione dell’area del penalmente rilevantemindue direzioni: nella tutela dei nuovi interessi caratteristici della società tecnologicamente avanzata del tardo capitalismo (dal diritto penale valutario a quello dei mercati finanziari, dal diritto penale tributario a quello dell’urbanistica e del lavoro) e nella repressione della criminalità organizzata. È con la legge n. 128 del 26 marzo 2001, nota come “pacchetto sicurezza”, che si registra certamente il punto di torsione di una legislazione che va orientandosi, nel primo decennio del Duemila, in una direzione decisamente repressiva (si pensi alla Legge Cirielli, alla legge Fini-Giovanardi e alla legislazione sull’immigrazione), strutturando una politica penale immediatamente influenzabile dalle campagne di allarme sociale, e che apre la stagione dei “pacchetti sicurezza”di cui i più noti sono senz’altro quelli denominati “decreti Maroni” della fine del primo decennio del Duemila. Nella legge del 2001 sono previste – secondo le parole dell’allora ministro della Giustizia Piero Fassino – “misure che assicurano maggiore certezza della pena, accelerazione dei processi, ampliamento dei poteri di indagine della polizia, inasprimento della severità per reati che destano forte allarme sociale”. Valga per tutti l’esempio del nuovo art. 624- bis del Codice penale che configura come autonome figure di reato le due ipotesi – antecedentemente previste solo come circostanze aggravanti – del “furto in abitazione” e del “furto con strappo”. Questa modifica normativa obbedisce a una “duplice ratio”: da un lato rendere più rigoroso il trattamento punitivo, dall’altro rimarcare, in virtù appunto della loro trasformazione in figure criminose a sé stanti, il maggiore disvalore penale insito in queste due forme di furto. La legislazione penale di questi ultimi anni non solo è stata l’esito di campagne allarmistiche, ma ha anche alimentato, a sua volta, un clima sociale di allarme sui temi della criminalità e della sicurezza:la paura, una volta entrata nella politica, alimenta un circolo vizioso di allarmi e risposte securitarie da cui è difficile uscire.

 

4.      Ma perché proprio a metà degli anni Novanta la paura invade l’agenda politica e mediatica? Non possiamo dilungarci troppo su questo quesito, che ci porta però a fare memoria di una parte a volte rimossa  della nostra storia recente. Potremmo dire, in breve,che nel corso degli anni Novanta in Italia le persone hanno vissuto in diretta e simultaneamente, in un continuo rimando tra esperienza personale,discorso pubblico e rappresentazione mass-mediatica:

a)      il crollo di un sistema politico che aveva caratterizzato l’Italia a partire dal Dopoguerra, individuandone la causa nell’avidità e nella corruzione dei suoi esponenti. Scandali e casi di corruzione sono presenti nella storia italiana già a partire dagli anni Cinquanta, ma non hanno avuto effettive conseguenze politiche fino agli inizi degli anni Novanta. Proprio a partire dall’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio 1992, le notizie sulla diffusa corruzione politica in tutti i settori della vita pubblica e sull’endemico finanziamento illecito dei partiti provocarono, perla prima volta, una forte delegittimazione dei leader dei due più importanti partiti di governo dicentro-sinistra: DC e PSI. La “questione morale” esplose in modo inaspettato coinvolgendo quasi tutti i partiti dell’arco costituzionale;una sorta di “rivoluzione”che ha avuto come protagonista e luogo privilegiato la magistratura. Le inchieste di un organo indipendente,percepito come neutrale e apolitico  perlomeno fino alla controffensiva mediatica di delegittimazione della magistratura diede lo stimolo a molti settori della società italiana per recidere iloro legami con i partiti tradizionali. L’insoddisfazione si espresse inizialmente come rabbia/indignazione verso i politici e sostegno ai giudici di “Mani Pulite”;

b)      la crisi economica, percepita come esito di un’incapacità politica di gestire l’economia ma anche imprenditoriale di competere sul piano globale L’impegno europeista, concretizzatosi nel corso degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, introdusse nella vita politica italiana una serie di vincoli sulla politica economica che agirono come parametri di giudizio sempre più severi sulle politiche governative del recente passato. I giudizi tecnici sull’ampiezza del debito pubblico si intersecarono con l’opinione diffusa sulla degradazione del sistema dei partiti che avevano occupato posizioni governative negli anni Ottanta, sulle diffuse pratiche di corruzione, sull’incapacità di affrontare le emergenze del Paese con misure efficaci di breve periodo. Inoltre, la fine del bipolarismo Est-Ovest accentuò anche la costituzione di nuovi assetti economici sul piano globale e in tal modo contribuì a svelare la debolezza degli Stati nazionali,e dell’Italia in particolare, nel governare i processi economici, percepita come incapacità delle classi dirigenti nell’affrontare i problemi quotidiani delle persone;

c)      l’“invasione” degli immigrati, rappresentata da navi sovraffollate e sperimentata dall’incontro quotidiano con “lavavetri” e altre presenze simili. Nel corso dagli anni Novanta, l’intensificarsi del fenomeno migratorio di portata comunque inferiore a quanto stava accadendo in altri Paesi europei, ma soprattutto la percezione diffusa di un’“emergenza immigrazione” che si articolò intorno alla costruzione del “clandestino” come individuo socialmente pericoloso  portarono a inasprire le misure legislative: dal Decreto Dini del 1995, alla Legge Turco-Napolitano del 1998 fino alla Legge Bossi-Fini del 2002. L’opinione pubblica – a volte incitando all’inasprimento delle misurelegislative, altre volte incitata dai discorsi politici e istituzionali che accompagnavano il processo di formazione delle leggi – iniziò a concentrarsi ossessivamente sulla presenza di stranieri in Italia, posizionandola al centro del vortice di eventi critici che caratterizzarono quegli anni. L’“emergenza immigrazione” – sostenuta e legittimata da dati statistici, spesso malamente interpretati, opinioni e proclami di giornalisti, esperti e politici – invase le vite degli italiani, intersecando altre emergenze nazionali. Espressioni di senso comune quali: “gli stranieri ci portano via il lavoro e le case popolari”; “continuano a sbarcare e i politici non fanno niente per fermarli”; “le nuove mafie invadono l’Italia”; “non hanno rispetto per niente e nessuno” – stimolarono la percezione diffusa di una stretta relazione tra immigrazione, crisi economica, inadeguatezza della politica, violenza diffusa e degrado urbano, e, al tempo stesso, cementarono nella sensibilità collettiva la contiguità dell’intolleranza nei confronti degli stranieri con sentimenti di precarietà economica, di sfiducia nella politica, di preoccupazione per la propria incolumità e di sdegno per le condizioni di vita nei quartieri periferici;

d)      la “forza brutale” delle mafie,manifestatasi nelle stragi degli anni 1992 e 1993, la loro infiltrazione nel sistema politico ed economico, e l’ingresso in Italia delle cd. “mafie straniere”. Ad aumentare il caos politi costituzionale e a destabilizzare la società italiana concorsero anche una serie di stragi mafiose. Il 23 maggio 1992 mille chili di esplosivo fecero saltare l’autostrada presso Palermo, all’altezza di Capaci, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta. Il 19 luglio dello stesso anno un’autobomba esplose in via D’Amelio uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Falcone e Borsellino erano due dei magistrati più impegnati nelle inchieste antimafia condotte, già a partire dagli anni Ottanta, dal pool investigativo coordinato da Antonio Caponnetto. A queste stragi ne seguirono altre l’anno seguente: il 14 maggio a Roma un’autobomba esplose senza provocare vittime in via Fauro; il 27 maggio a Firenze un’altra autobomba esplose in via dei Georgofili, davanti alla galleria degli Uffizi, provocando cinque morti e trenta feriti; il 27 luglio una terza autobomba esplose in Via Palestro a Milano, provocando cinque vittime. Nella stessa notte scoppiarono due autobombe a Roma, contro la Basilica di San Giovanni in Laterano e contro la Chiesa di San Giorgio al Velabro. La militarizzazione del territorio di alcune Regioni italiane, attuata attraverso l’invio dell’esercito, costituì il segnale evidente di uno “stato di guerra”, di una crisi dell’ordine pubblico e del sistema democratico non più gestibile con strumenti ordinari. Nell’opinione di molti l’uso dell’esercito apparve come una risposta necessaria per riaffermare la sovranità statuale, anche se ne rendeva evidente, al tempo stesso, la fragilità. Il rafforzamento, in alcune zone e in alcuni strati sociali del Paese, dello spirito antimafia della società civile, che già negli anni Ottanta andava diffondendosi, dopo un primo periodo – soprattutto nelle elezioni amministrative del giugno e dell’autunno del 1993 – in cui si espresse in un orientamento politico di sostegno a volti nuovi e “puliti”, col tempo produsse effetti di sostegno al solo operato dei magistrati dei pool antimafia. I risultati di inchieste – recenti o datate ma comunque finalmente disponibili sui mass-media  palesavano una contiguità tra politici di spicco ed esponenti delle organizzazioni criminali. Tutto questo incentivò la diffusione di sentimenti di indignazione e di “anti politica” già presenti nel Paese. Se, dopo Capaci, la reazione di rabbia produsse iniziative solo qualche anno prima inconcepibili, già nei momenti successivi alla strage di Via D’Amelio, il sentimento collettivo volgeva verso la disperazione. In estrema sintesi, rabbia, disperazione, indignazione, preoccupazione, frustrazione, sfiducia e paure di vario genere trovaronouna modalità di espressione nella scena sociale e politica come paura della criminalità, del disordine e dello straniero. Il sistema dei mass-media concorse in modo determinante all’affermazione dell’insoddisfazione, dell’indignazione, della preoccupazione e della sfiducia ormai dilaganti e contribuì a cristallizzarle nell’immaginario collettivo come “domanda di sicurezza”. Nei molti articoli ed editoriali apparsi sulle prime pagine dei più importanti quotidiani, di ieri come di oggi – i luoghi comuni si confondono con le opinioni esperte, il riferimento a dati statistici “incontrovertibili”sull’aumento della criminalità e dell’insicurezza s’intrecciano con accuse d’inefficienza della classe politica – soprattutto di “lassismo”e “buonismo” – e di latitanza dello Stato, la denuncia di aumento dei pericoli urbani dovuti all’immigrazione clandestina si accompagna al richiamo a soluzioni politiche d’Oltreoceano – la “mitica” Tolleranza Zero – da importare, semplicemente. Se le istituzioni sono lontane, corrotte e inefficienti, la magistratura si occupa solo dei grandi processi, la polizia arresta ma il giorno dopo i criminali sono liberi, la mafia fa quello che vuole con la connivenza della classe politica e delle istituzioni, gli immigrati“occupano” le strade e le piazze e fanno ciò che vogliono  questo, con una certa approssimazione, è il catalogo dei discorsi di senso comune che dai mass-media rimbalzano nei bar, per strada, nelle case, ma anche nei discorsi istituzionali e politici e, a volte, nei rapporti di ricerca, il cittadino rimane “solo”, abbandonato dalle istituzioni e diffidente verso gli altri. Indignazione e perdita dei punti di riferimento costituiscono i tratti essenziali del rapporto tra cittadini e istituzioni a partire dagli anni Novanta. In questo clima culturale affrontare i problemi quotidiani assume sempre più la connotazione di una “lotta per la sopravvivenza”. Lo stato di guerra di tutti contro tutti riemerge nell’immaginario collettivo e, con esso, il tema della violenza e della “paura di avere paura”. Nel vortice delle crisi socio-economiche e politico-istituzionali, le esperienze quotidiane e i discorsi pubblici si popolano di situazioni che evocano un regresso della civiltà a forme di barbarie economiche, sociali e civili, in cui ciascuno torna a essere nemico di ogni altro, e suscitano il timore di un ritorno a una condizione in cui ciascuno deve temere la violenza degli altri e difendersi da essa. L’hobbesiano homo homini lupus è il riferimento simbolico disponibile culturalmente per percepire la crisi della civiltà moderna. Così, la sensazione di fine del mondo, accompagnata dalla perdita della fiducia nell’idea stessa di progresso porta alla ribalta, a tutti i livelli della vita sociale, il tema della violenza, che domina le forme culturali (mentalità e sensibilità) e orienta gli schemi di percezione individuale. Il timore di tornare a uno stato di “paura continua” caratterizza le esperienze quotidiane e i discorsi pubblici e preme sulle istituzioni, perché adottino “soluzioni definitive” al problema della violenza nella società.

 

5.      In questo scenario le politiche di sicurezza tendono a dare una risposta irriflessiva alla domanda di sicurezza, trasformandosi in “politiche della paura”: mi riferisco con tale termine alle misure repressive  e restrittive delle libertà o incentivanti la giustizia fai-da-te, all’ampia articolazione di istituzioni, vecchie e nuove, che si occupano di paura e controllo, e ai discorsi che esplicitamente supportano misure e istituzioni. Le politiche della paura si nutrono di un orientamento diffuso a ritenere derogabili i diritti fondamentali e si legittimano come “soluzioni finali” alla violenza e alla paura; si giustificano agli occhi della cittadinanza per la loro capacità di proteggere, ma nei fatti generano effetti controproducenti perché incrementano il senso di crisi e di sfiducia, contribuendo a cementarlo come tratto culturale condiviso. La paura può essere vista dunque come un segnale d’allarme del fatto che le istituzioni non sono più ritenute credibili e affidabili da parte dei cittadini nell’affrontare i problemi della città e della società, e se le istituzioni non sono in grado di affrontare i problemi quotidiani della vita delle persone, come possono essere credibili nel tutelarle di fronte a fatti che riguardano l’incolumità personale? È questo l’anello di congiunzione tra il declino dello stato sociale e una maggiore richiesta sociale di aumento delle pene, che comporta un investimento – non solo simbolico sullo Stato penale. Avviene una sorta di scambio, definito da un’immagine molto efficace del sociologo Pierre Bourdieu: all’arretramento della mano sinistra dello Stato, cioè delle politiche del welfare e nel campo educativo, sociale (compreso l’assistenzialismo penale), corrisponde un forte aumento della mano destra dello Stato, cioè del controllo sulla vita delle persone e di un approccio nei confronti della criminalità di tipo repressivo. Questo scambio ha comportato anche uno spostamento di risorse: l’industria della sicurezza, per esempio, è uno dei pochi settori ad avere subito meno gli effetti della crisi e ad aver aumentato il proprio fatturato, negli anni in cui la recessione si faceva sentire in molti altri settori industriali. Ebbene, molte industrie della sicurezza hanno tra i loro principali committenti il sistema istituzionale pubblico: quanti istituti di vigilanza privata girano di notte a controllare gli edifici pubblici? Quanti luoghi pubblici, come le Università per esempio, hanno appaltato il servizio di sicurezza a istituti di vigilanza privata? Quante telecamere vengono acquisite dal sistema pubblico per controllare strade, accessi, parchi? Quanto incidono le commesse pubbliche nello stimolare la ricerca e la produzione di nuovi dispositivi tecnologici (si pensi ai braccialetti elettronici)? Il fatturato dell’industria della sicurezza svela già uno spostamento di risorse pubbliche da progetti di prevenzione a progetti di controllo.

 

6.      Per concludere, penso ci sia necessità di rimettere al centro delle nostre professioni, di accademici, di operatori pubblici e di giornalisti, una responsabilità nel parlare di questi argomenti così delicati per la vita delle persone e, in definitiva,per la nostra stessa democrazia, con cognizione di causa e senza puntare sul sensazionale: se, per esempio, chiediamo a un campione di cittadini se ritengono che in Italia la criminalità sia aumentata o diminuita negli ultimi tre anni, questi probabilmente in maggioranza (o almeno così dicono alcuni risultati di ricerca) rispondono che è aumentata. Eppure non è così, ma loro non possono saperlo perché non è richiesto ai cittadini di essere criminologi e di leggere le statistiche criminali in serie storica. In più, se a partire da questa risposta si costruisce la notizia (meglio, il titolo della notizia) puntando sul fatto che la maggior parte dei cittadini ha paura della criminalità, quando non è di paura che si stava parlando (bensì di valutazione del rischio criminale in Italia: i dati dimostrano che in domande centrate sull’insicurezza le percentuali di risposta sono notevolmente più basse), allora si capisce come si rischi di alimentare un clima di allarme, anche laddove magari non c’è. Ma penso anche che ci sia l’urgenza di ridare fiato nelle narrazioni quotidiane alle tantissime esperienze che ci sono di prevenzione, che costituiscono, come Adolfo Ceretti e io le abbiamo definite nell’ultima parte del libro Oltre la paura, delle pratiche esemplari. Ci proponiamo, attraverso la forza dell’esempio di cui parla il filosofo Alessandro Ferrara, di indicare la praticabilità e l’efficacia di interventi e di politiche che, sviluppando capacità individuali e competenze sociali, sono anche in grado di prevenire le sofferenze urbane e contrarre il campo penale. Un esempio, dunque, per dimostrare che ci sono percorsi che, seppur privi di una narrazione che li tiene insieme e capace di dare loro una valenza politica, investono su fiducia, reciprocità, riconoscimento, eguale rispetto, capacità e diritti. A partire da questo percorso si possono costruire progetti inclusivi più efficaci della legge penale nell’avvicinarsi a società più giuste. Il caso che indichiamo come pratica esemplare è quello noto come il Sistema di Abreu: nel 1975, in un garage della Candelaria, uno dei quartieri poveri della capitale del Venezuela, il Maestro José Antonio Abreu consegna uno strumento musicale a undici bambini, iniziando a insegnare loro a fare musica. È lì che nasce quello che diverrà nel giro di qualche anno il Sistema nazionale di orchestre giovanili e infantili. L’intuizione di Abreu è stata quella di affrontare il problema delle sofferenze urbane fuori da una logica assistenziale e caritatevole, per dotare le persone di capacità. Il Maestro individua fin da subito l’orchestra quale microcosmo di una società ideale, il luogo d’elezione per l’offerta di eguali opportunità, una via di riscatto esistenziale per i ragazzi dei quartieri più degradati e miseri. Il Sistema coinvolge oggi più di 350.000 giovani e bambini provenienti, quasi al 90%, da famiglie povere o emarginate, e opera attraverso la musica, concepita come mezzo che rende possibile l’integrazione sociale di differenti gruppi della popolazione venezuelana. La Inter-American Development Bank, che ha finanziato in parte il progetto, descrive tutto ciò di cui stiamo parlando come un programma che si rivolge alle “comunità povere e vulnerabili” e che si “impegna per ridurre i tassi di povertà, permettendo a un numero sempre maggiore di bambini e di giovani di uscire da uno stato di marginalità”. È lo stesso Abreu a ricordare sempre che per i bambini coinvolti in il Sistema la musica è sostanzialmente l’unica strada per conferire una dignità sociale al loro futuro. Se guardiamo alla violenza nella sua dimensione relazionale e sullo sfondo dello spaesamento urbano, tipico delle nostre comunità, possiamo riconoscere che quest’esempio di promozione delle capacità, di eguali opportunità e di dignità umana ha ricadute rilevanti anche in termini di prevenzione della criminalità. Da esempi come questi occorre ripartire, con un po’ di coraggio nel fare il proprio lavoro.