Vite violente: una storia di violenza sfiorata

“Mezzo metro, mezzo metro ha separato la punta del mio coltello dalla pancia dei due uomini. In cinquanta centimetri si sono concentrati, per pochi secondi, i miei ventinove anni passati e gran parte di quelli futuri, ammassati insieme, confusi. La mia vera fortuna, il mio biglietto vincente, che solo da poco sto imparando a riconoscere come tale, consiste nel non aver accorciato quello spazio a tutti gli effetti vitale”

 

di A. M.

 

Credo ci siano parole che non riescono a dare un quadro completo della situazione che evocano. Ecco, è in questo modo che mi sento di definire il termine “violenza”, nel mio caso, quando la pronuncio o scrivo, è come se aprissi una botola sotto cui si cela un buco, un lungo e stretto tunnel a misura d’uomo che sprofonda giù nel terreno, buio e verticale. Un buco tutto mio, scavato con le mie mani. Un buco iniziato con le dita di un bambino e finito, per adesso, con quelle di un ragazzo di trent’anni. Il mio rapporto con le autorità, di qualunque genere, che io ricordi è sempre stato conflittuale. Irrequietezza e timidezza mi hanno accompagnato fin dalla tenera età, un mix che mal controllato è in grado di produrre parecchi danni, dato che entrambe hanno la straordinaria capacità di escluderti dalla vita sociale. Ho avuto grandi difficoltà nell’accettarmi, soprattutto nel periodo adolescenziale e il mio primo passo verso l’isolamento credo di averlo fatto sul finire della scuola dell’obbligo, attratto più dai comportamenti “deviati” di alcuni compagni “difficili”, che dall’idea di costruirmi un futuro studiando.

È strano come la ribellione alle regole mi abbia impaurito, da un lato, e stregato, se non addirittura affascinato, dall’altro. Non ne ho mai fatto una questione di soldi, ma più di menefreghismo, come dire “io non sono come voi, perché quello che voi fate non mi piace, non mi interessa”. Ho iniziato così a sottrarre sempre più tempo alla scuola preferendo coltivare il mio egoismo e creando le basi del dolore che tanto hanno mutato oltre che la mia vita, quella di chi mi ha voluto e tuttora mi vuole bene. A quell’età non è che facessi nulla di eclatante o che avesse potuto destare preoccupazione, erano piccole cose per lo più comuni a tutti i ragazzini del mondo, come mascherare brutti voti o uscire di nascosto il pomeriggio per andare a giocare a basket o calcio nel parchetto del quartiere, oppure fumare le prime sigarette a casa di un amico o nascosti nel retro della scuola; insomma niente che qualche sgridata di madre non potesse raddrizzare, anche se, per quanto mi riguarda, non funzionò. Il secondo passo, fondamentale per come poi si sviluppò il mio futuro, fu quello di aggiungere al tabacco qualche piccolo pezzetto di hascisc; la prima volta che mi fumai una canna fu sempre a scuola, in prima liceo scientifico, durante la ricreazione e anche là ci eravamo nascosti dietro l’ingresso secondario della struttura. In poco tempo ci ritrovammo, creammo un gruppo di ragazzi il cui minimo comun denominatore era l’intolleranza alla legge, qualunque essa fosse, ognuno aveva le sue ragioni.

 

Nessuno di noi veniva da realtà particolarmente disagiate

 

Nessuno di noi veniva da realtà particolarmente disagiate, non eravamo né ricchi né poveri, eravamo figli della classe media, figli a cui i genitori non avrebbero mai fatto mancare niente proprio perché parecchi di loro la povertà l’avevano conosciuta molto bene. Nel mio caso sono riuscito a buttare via tutti gli sforzi, umani più che economici, di cui si erano fatti carico con la stessa rapidità tipica di chi perde un patrimonio al gioco. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non eravamo per nulla considerati come persone “alla moda” o “coraggiose” o “ribelli”, anzi, direi che nel nostro caso era esattamente l’opposto: nella piccola società scolastica, sia per la maggior parte degli allievi che degli insegnanti, rappresentavamo un certo tipo di emarginazione, da un lato voluta, ma dall’altro in nessun modo contrastata, nel senso che l’autorità, cioè il gruppo docente, era più interessato a metterci i bastoni tra le ruote che a cercare di capire le motivazioni del nostro “lasciarci andare”. Questo è stato un punto cruciale della mia educazione, nei miei quattro anni di liceo capii che chi andava avanti spesso non era per intelligenza o meriti, ma per la sua capacità di adattarsi e di rigirarsi le regole a proprio piacimento, le stesse che noi, al contrario, ignoravamo e disprezzavamo.

Non sopportavo quasi nessuno dei miei compagni di classe, pronti a calpestarsi a vicenda pur di strappare un buon voto ma sempre con l’aureola in testa. Ripensandoci a freddo, presumo che molti fossero intimoriti più dal voto negativo che dall’idea di non imparare niente, si preoccupavano esclusivamente di cosa sarebbe accaduto una volta rientrati tra le mura domestiche, delle male parole del padre o della madre o dei piccoli privilegi che gli sarebbero stati tolti per castigo.

Comunque, non furono mai in grado di bocciarmi, perché con pochi sforzi, riuscivo sempre a cavarmela all’ultimo. Non usavo trucchi particolari, semplicemente mi mettevo a studiare solo quando le cose si mettevano male e questo li faceva imbestialire, logorando irrimediabilmente il mio rapporto con la maggior parte degli insegnanti.

Motivo per cui all’età di diciassette anni lasciai definitivamente la scuola e mi ritrovai letteralmente per strada, ma anche il resto della compagnia fu costretto, in un modo o nell’altro, a lasciare l’istituto. Il liceo era a conoscenza di quello che facevamo, come dargli torto, tutte le mattine, prima di entrare nell’edificio, ci si trovava sulle panchine di una viuzza defilata e si fumava come pazzi, era diventata una “piazza” a tutti gli effetti, ogni tanto arrivava un controllo delle forze dell’ordine, ma non ci importava niente, l’idea di finire nei guai con la giustizia non era assolutamente presa in considerazione. Nel frattempo la mia era diventata un’innegabile tossicodipendenza, infatti al primo spinello seguì quasi subito l’uso di droghe sintetiche e alcool. Vorrei specificare che, per me, non fu il bisogno di passare a “qualcosa di più forte” come quando si cerca di demonizzare l’argomento, spersonalizzandolo, ma semplicemente una sorta di attrazione fatale, perché gli stupefacenti, tutti, sono buoni e finché non ne sei succube, ti fanno stare bene. Certo fu difficile nascondere i miei comportamenti in casa e la prima volta che mi “beccarono” risale all’età di quindici o sedici anni. Per la mia famiglia fu terribile scoprire dalle analisi a cui mi dovetti sottoporre, che nel mio corpo scorrazzavano i generi più disparati di narcotici. Ricordo i pianti di mia madre, piangeva di notte per non farsi sentire, ma le lacrime che mi dedicava arrivavano puntualmente alle mie orecchie. Una sensazione orribile, un senso di colpa che ti comprime, eppure neanche questo riuscì a farmi smettere, figurarsi la punizione che mi imposero. Abbandonata la scuola mi trasferii a Londra, per seguire quella che era la passione del momento, i rave illegali, adoravo quell’ambiente e quella musica, mi facevano sentire a mio agio.

Lassù mi mantenni lavoricchiando qua e là, spesso dormivo negli squatter (case occupate), raramente pagavo per un affitto, mangiavo quando capitava e l’abuso di droghe era all’ordine del giorno. Le sostanze a Londra si trovavano con estrema semplicità e a prezzi stracciati rispetto all’Italia. Ci rimasi per un anno, quando tornai ero psicologicamente devastato e con la ragazza che frequentavo allora incinta, di comune accordo decidemmo per l’aborto, senza ragionarci troppo, ma neppure questo mi fece riflettere. Forse perché non mi importava, vedevo un figlio solo come impedimento al mio divertimento e poi con certezza non sarebbe cresciuto in un ambiente sano. Qualche tempo dopo ebbi un crollo, un grave esaurimento nervoso, mi ritrovai dentro il corpo di un ventenne con la testa di un bambino, retrocessi, divenni stupido, “rimasi sotto”. Ci vollero anni per ripulirmi da quello choc, gradualmente sostituii la roba sintetica con l’alcool a tempo pieno, passai vari lavori fino a trovare il mestiere che tuttora svolgo, il tecnico delle luci. Inutile dire che da situazioni del genere si esce pesantemente umiliati e in solitudine, gli amici spariscono e le difficoltà per farsene di nuovi sono enormi, soprattutto perché ormai si è diventati altro, il carattere e l’attitudine alla vita sono cambiati, irrimediabilmente, costruendoti intorno mura spesse, alte ed efficienti come quelle delle carceri.

 

Me ne stavo in casa con la mia scorta di stupefacenti, non avevo bisogno di altro

 

La svolta lavorativa fu un ottimo stimolo per riprendere il controllo, essendo un’occupazione che comporta rischi per se stessi e per gli altri, ti responsabilizza e se non stai al gioco, come ci sei entrato ti buttano fuori. Avevo abbandonato le sostanze chimiche, ma il lupo perde il pelo e non il vizio, così iniziai ad assumere cocaina, visto che lo stipendio me lo permetteva e io ero diventato bravissimo nel gestirmi, per cui non facevo mai troppa fatica ad alzarmi la mattina.

Questa è l’unica motivazione, oltre ad una buona dose di fortuna, per cui, fino a poco tempo fa, la mia fedina penale era immacolata. Uscii definitivamente di casa a ventiquattro anni e per qualche tempo riuscii a conciliare gli ottimi risultati professionali con l’abuso di coca, che poi si trascinò dietro anche l’eroina, a cui però non mi sono mai assoggettato, proprio perché sapevo perfettamente a cosa sarei andato incontro. Ora non mi sento di affermare che se avessi avuto una seria “educazione” sull’uso e sui rischi derivanti dal consumo di droghe, qualunque esse fossero, la mia vita avrebbe preso una direzione diversa, anzi, temo che avrei fatto le stesse identiche scelte. Tuttavia, magari, sarei riuscito a smussare qualche angolo contenendo i danni. Invece, nell’età della mia adolescenza che ha coinciso con la seconda metà degli anni novanta, l’unica “arma di difesa” utilizzata dalle istituzioni consisteva nel ripetere all’unisono “la droga fa male, stateci lontani! “, contribuendo in tal modo ad accrescere notevolmente la curiosità e quell’atteggiamento tipico che i divieti assoluti, privi di spiegazioni oggettive, esercitano su ragazzini di quindici o sedici anni, riconsegnando un risultato opposto a quello desiderato.

Quando ripenso ai periodi più bui della mia esperienza, mi ricordo bene come la mia unica preoccupazione fosse la ricerca del piacere confezionato e null’altro, chissà quante cose mi sono perso e quante altre mi sono sfuggite sotto gli occhi.

Nonostante abbia conosciuto molta gente nuova, non sono più stato capace di instaurare legami affettivi, triste da dire, ma a serate di baldoria nei locali, spesso preferivo la solitudine, me ne stavo in casa con la mia scorta di stupefacenti, semplicemente perché era tutto quello di cui avevo bisogno. Un giorno però, stufo di non tenere mai un soldo in tasca dopo tutte le giornate passate a far fatica, decisi di trasferirmi in montagna per inseguire la passione per la neve, abbandonata da ragazzino e sostituita da altri tipi d’emozioni. Ci stetti circa due anni, e forse posso dire che sia stato uno dei periodi più felici della mia vita, andavo a fare snowboard tutti i giorni di pausa, mi ero allontanato quasi definitivamente da quei vizi così pericolosi e, cosa più importante di tutte, avevo un progetto di vita, per quanto semplice fosse, volevo diventare il più bravo possibile in quello sport. Il lavoro andava bene, avevo affittato una casetta e mi ero comprato pure una macchina scassata che mi trasportava dappertutto; a ripensarci sembra quasi un film, ma non lo è, infatti nel 2008/2009 arrivò questa maledetta crisi. In pochi mesi i problemi  si moltiplicarono e io non fui abbastanza pronto e veloce nel trovare soluzioni, dovetti ritornare in città, una città tra le più grigie, false e infelici che abbia mai visto.

Questo fu un periodo estremamente cupo, i soldi scarseggiavano e la noia irruppe prepotentemente nella mia vita, ricominciai a bere, principalmente da solo. Passai i due anni a seguire prima dell’arresto per la maggior parte del tempo chiuso in casa; il piano era semplice: risarcire un debito contratto con la banca e mettere via denaro a sufficienza per acchiappare l’aereo e trasferirmi in Australia, insomma emigrare. Mi riuscì in parte, ma il risvolto umano non fu certo dei migliori: tutti gli sforzi intrapresi per allontanarmi da uno stile di vita che non mi portava mai a niente sono svaniti nel nulla e mi sono ritrovato ancora una volta circondato dalla mancanza di prospettive con l’eccezione della fuga. Giorno dopo giorno incamerai rabbia e odio contro me stesso e contro questo mondo che

mi riesce difficile da capire e a cui faccio fatica ad adattarmi.

Sicuramente sono io, io ho dei grossi problemi nel confondermi tra la folla facendo finta di niente e non sono abbastanza forte per convivere con certe nefandezze, non riesco per esempio a mimetizzarmi in un mondo del lavoro che troppo frequentemente predilige la logica del profitto all’intelligenza, trascinandosi dietro innumerevoli morti di cui nessuno parla mai. Non posso vedere tutta quella serie di controlli messi in atto solo dopo tragedie, utili a multare e totalmente inefficaci sul fronte della prevenzione, come dire passata la festa gabbato lo santo.

 

Un gesto violento, la certezza che “da adesso non sarò più quello di prima”

 

E alla fine ci sono cascato. Una sera d’estate andai a bere un paio di birre per i fatti miei in un locale, poi mi rimisi in macchina per tornare a casa. All’altezza di un grosso incrocio, due uomini attraversarono a piedi col rosso mentre stavo passando, nacque un battibecco, mi fermai e presi il coltello da cucina che mi ero dimenticato in macchina dal pomeriggio, lo nascosi nei pantaloni e sotto la maglietta. A questo punto non ho intenzione di giustificarmi con un “non so cosa mi abbia preso”, lo sapevo benissimo, mi sono detto “se vogliono menarmi si dovranno applicare”. E così, lucidamente, si impadronì di me stesso quel personaggio costruito negli anni per autodifesa, quel lato caratteriale per cui desidero che la gente non abbia stima ma paura di me, quella persona a cui bisogna fare attenzione anche solo nel rivolgergli la parola. Il tutto durò meno di cinque minuti, parole grosse e poi si avvicinarono, io estrassi il coltello. Quando ci ripenso, rivedo ancora l’istante in cui l’impugnai e il pensiero preciso che mi venne in mente: “da adesso non sarò più quello di prima” e così e stato. Chi mi stava di fronte indietreggiò istintivamente e si allontanò di qualche metro. Risalii in macchina, notai che i due soggetti presero il numero di targa, me ne tornai a casa e mi addormentai.

Circa tre ore dopo arrivarono una decina di carabinieri, tra cui le due “vittime”, e mi arrestarono. Mi portarono prima in questura e poi in galera, accusandomi di tentato omicidio.

Una volta arrivato a San Vittore (era l’alba), mi lasciano in una cella vuota con una panca, mi sdraio e penso: è tutto uno scherzo, tra poco mi diranno: “paura eh? vabbé vattene via e non farti più vedere”. Ma non è vero, mi chiamano per il rituale: foto, deposito oggetti, perquisizione. Appena entrato nell’edificio sento quell’odore, quello schifo di odore, che sa di muffa coperta da prodotti per la pulizia e poi echi a non finire di voci, chiacchiericcio, porte che si aprono e si chiudono, ferro contro ferro. Almeno fa fresco, è estate.

Mi portano in cella, entro, un disastro: 11 persone che mi guardano in un quadrato che, compreso il cesso, avrà misurato 5 mt per lato, finestre smontate o aperte o chiuse, quel maledetto odore, cavi elettrici scoperchiati (deformazione professionale), “letti” a castello impilati su tre piani, 12 posti in totale, io mi becco l’unico vuoto, in basso. Nascosti sotto le brande ci sono le borse con i vestiti e gli effetti personali, alcuni con degli asciugamani fanno delle sorte di tendine tra i due piani per crearsi un minimo di isolamento; saluto, metto giù lo zaino, butto su il lenzuolo che mi hanno dato sul materasso di spugna marrone marcio e pieno di macchie, mi sdraio, dormo. Quando mi alzo vado in bagno (senza porta chiaramente), lo squallore non finisce: i sanitari sono un buco nel pavimento, qualche centimetro in là un lavandino da battaglia, incrostato di ruggine, un tavolino rettangolare con su il fornelletto del gas e quattro stoviglie, di fronte i panni stesi. Vado a urinare e uno dei ragazzi, che poi erano tutti slavi, mi dice di fare attenzione, dopo aver pigiato il bottone per tirare l’acqua, bisogna rimettere il pezzo di coltello di plastica perché altrimenti continua a scorrere. Torno alla branda e mi riaddormento. Nel primo pomeriggio arriva l’assistente che dice: doccia e aria. Non ho voglia, ma giustamente un altro mi invita con pacatezza ad andare a lavarmi. Non me lo faccio ripetere, capisco che non bisogna lasciarsi andare e che la situazione è estremamente tesa e gli equilibri si possono rompere per niente. Prendo l’asciugamano e il docciaschiuma, esco, giro a sinistra, due passi di numero e entro nel locale docce: esattamente come il bagno, la differenza sta nella posizione del buco, qua è sopra la tua testa. Mi lavo con le mutande, direttive del carcere, intanto di polizia penitenziaria a controllare le docce non ce n’è.

Nel pomeriggio mi chiamano per un colloquio, non mi ricordo come veniva chiamata questa figura, ma il suo lavoro era di illustrarmi a grandi linee la situazione. Appena faccio due gradini ho un forte conato di vomito, una vera schifezza di succhi gastrici e pezzi di cena che non ero riuscito a digerire, mi trattengo, me la tengo in bocca la mistura, scendo in fretta al primo piano e chiedo a un assistente un bagno, niente di fatto; leggo il numero di stanza sul bigliettino e mi presento in queste condizioni, l’uomo urla “deve vomitare portatelo in bagno” e così hanno fatto.

Dopo il colloquio chiesi uno spazzolino da denti e il dentifricio, l’ho visto solo la sera prima che lasciassi il carcere per la detenzione domiciliare.

Arriva la sera, scambio due parole con i miei compagni di sventura, mi offrono da mangiare, da bere, sigarette e persino dolci, senza che io avessi niente con cui ricambiare. Ancora oggi se ci penso rimango a bocca aperta, il loro comportamento stride pesantemente col luogo, alla faccia degli immigrati cattivi che la destra italiana identifica con l’unico e prioritario male del paese.

Il secondo giorno mi sento un pelo più tranquillo, ma è solo una sensazione; alcuni dei ragazzi continuano a chiedermi da dove vengo, io rispondo e il più anziano, non per età, ma per anni passati in quella cella, mi fa capire chiaramente che ero stato messo in un gruppo di stranieri per punizione, come se tutto il resto non bastasse.

 

Quando guardo mia madre rivedo su di lei i miei errori, la mia violenta visione della vita

 

Arrivo così al colloquio col gip (credo si chiami così), premesso che dalla stazione dei carabinieri ero riuscito a telefonare a mio fratello lasciandogli un messaggio sulla segreteria telefonica, non sapevo minimamente se avessero trovato un avvocato. Arrivo in questa stanzetta all’americana, ma con stile

tutto italiano: un buco con due sedie e una parete a specchio. Poco dopo entra quest’uomo magrolino sulla cinquantina, col viso pieno di rughe e la pelle segnata dalla fatica, che mi racconta di esser stato arrestato per stalking, ma che in realtà la giovane moglie mezza tossica era scappata con tutto quello che avevano e lui voleva solo riprendersi ciò che era suo, io a dir la verità non voglio ascoltarlo, sono già schiacciato dalle mie di preoccupazioni, per cui faccio solo dei cenni con la testa e non gli rispondo. Si apre la porta e fuori c’è un quarantenne che si presenta come il mio avvocato, chiamato dalla mia famiglia. Dopo le presentazioni e un piccolo colloquio, entriamo dal giudice: una signora anziana, accompagnata da una ragazza della mia età che dava l’impressione di cappuccetto rosso in mezzo ai lupi. Appena mi vede glielo leggo negli occhi, ha già deciso la mia colpevolezza, saranno stati i tatuaggi, la testa rasata, l’abbigliamento che ricorda gli anarchici, o forse l’insieme di tutto. Le do la mia versione dei fatti, non crede ad una parola. A quel punto ho cercato di sembrare il più stupido possibile, forse quella avrebbe potuto essere un’attenuante. Ma niente, la decisione fu: “rimane in carcere”. Anche all’avvocato dissi, in un secondo colloquio, se si potevano acquisire i filmati delle telecamere (nella zona del fattaccio è strapieno, stradali e private), ma lui mi rispose che ci sarebbero voluti mesi e avrei dovuto rinunciare al processo per direttissima e seguire il normale iter penale (e comunque chi aveva tutti quei soldi da sborsare?). Bella roba, anni per avere un giusto processo, salvo poi magari risultare la pena inflitta minore del tempo passato in carcerazione preventiva. Patteggiamento, unica soluzione.

Il quinto giorno andai al processo, il giudice dopo aver letto anche le mie dichiarazioni, concluse che tra quello che affermavo io e le motivazioni dei carabinieri cambiava poco, per cui mi affibbiò 2 anni e 4 mesi di detenzione domiciliare + 5000 euro di risarcimento per carabiniere. Gli ho dovuto pure chiedere scusa in aula, le scuse meno sincere della mia vita (ho fatto in modo che tutti se ne accorgessero).

Ora vivo da 17 mesi in un ambiente che nulla ha che vedere con la galera, è una cascina ristrutturata (la casa dei miei genitori), nel mezzo di un bosco. Da 17 mesi le uniche persone con cui parlo sono mia madre e mio padre, a volte qualche zio, cugino, fratello (capisco perfettamente che non possono essere sempre qui).

Per fortuna ho ottenuto 3 sconti di pena da 45 gg ciascuno, per cui il peggio è passato e a luglio sarò libero, ma non nel senso assoluto del termine, perché ho un peso di svariate migliaia di euro che incombe sul mio futuro. Quindi col c. che tutto finisce dopo aver scontato la pena (anche perché con il precedente che mi ritrovo qualsiasi possibilità di rifarmi una vita al di fuori dell’eurozona è totalmente vana) e che la legge è uguale per tutti, abbiano il coraggio di togliere o quantomeno modificare quella frase nei tribunali.

Mezzo metro, mezzo metro ha separato la punta del coltello dalla pancia dei due uomini. In cinquanta centimetri si sono concentrati, per pochi secondi, i miei ventinove anni passati e gran parte di quelli futuri, ammassati insieme, confusi, compressi senza alcun criterio e logica.

La mia vera fortuna, il mio biglietto vincente, che solo da poco sto imparando a riconoscere come tale, consiste nel non aver accorciato quello spazio a tutti gli effetti vitale. Ora non voglio analizzare il reato e le sue circostanze, ci hanno già pensato un Giudice e un Tribunale e che lo si voglia accettare o no, ormai c’è poco da fare. Potrei dirvi che mi hanno accusato con più severità di quanto meritassi, come potrei anche dire che se non mi fossi indebitato fino al collo per poter pagare un buon avvocato, difficilmente starei qui a scrivere le mie riflessioni.

Oppure potrei lasciar intendere che pur di non passare anni chiuso dentro un barattolo come uno scarafaggio in attesa del mio processo “giusto ed equo” (che mai avrei avuto a causa delle insormontabili spese legali), ho preferito, senza pensarci due volte, patteggiare e dichiararmi colpevole, scontando così la mia pena in un domicilio, ma non senza difficoltà. Non senza controlli serrati a qualsiasi ora del giorno e della notte, non senza la possibilità di commettere un minimo errore e vedersi revocato irrimediabilmente il “beneficio”, non senza gravi problemi familiari o di chi ti ospita, non senza la probabilità di veder scomparire amici, parenti, figli, moglie o compagna che sia, non senza l’azzeramento dei rapporti sociali, non senza disagio vecchio e nuovo, non senza quella aggravante di abbandono e senso d’ inutilità a cui si è sottoposti e che più pesa sulla psiche, non senza rabbia e cattiveria che ti allontanano sempre più da un’esistenza pacifica, prima di tutto con te stesso. Comunque sia sarebbero solo parole, tuttavia non cambia la realtà dei fatti, ho sbagliato, ancora una volta e pesantemente, devastando ulteriormente oltre la mia persona, coloro che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di amarmi. Quando guardo mia madre rivedo su di lei i miei errori, le mie malefatte, la mia violenta ed egoista visione della vita, è come guardarsi allo specchio, è terribile, le ho distrutto la vita. Questa è la punizione più straziante a cui mi sono dovuto sottoporre e che credo mai riuscirò a metabolizzare.

E io, tutto sommato, mi ritengo molto fortunato rispetto a tanti altri. Mi viene in mente quella vicenda del senegalese che s’è beccato più di dieci anni per aver venduto cd piratati o quell’altro che a Bolzano s’è preso più di un anno per aver rubato 3 euro di spesa al supermercato e chissà quanti altri casi se ne stanno ben nascosti in quelle galere che chiamano hotel.