Un incontro in redazione con Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca

Una difficile riflessione sul comportamento violento

 

È importante cercare di capire che cosa pensano le persone nel momento stesso in cui stanno commettendo un gesto violento, perché tutte le persone, quando hanno agito violentemente, hanno deciso di ascoltare e di rispondere alla loro comunità fantasma, che gli ha dato via libera, e loro hanno agito coerentemente. Ma come è possibile allora costruire la possibilità di diventare più dialettici con la propria comunità fantasma violenta?

 

A cura della Redazione

 

Affrontare il tema della violenza  all’interno di un carcere, non in un colloquio individuale tra detenuto e operatori, ma in un gruppo di discussione dove uomini che la violenza l’hanno usata davvero si confrontano con uno dei più attenti e profondi studiosi della materia: questo è successo nella redazione di Ristretti Orizzonti, che ha incontrato Adolfo Ceretti  per iniziare una riflessione attenta, complicata, importante sull’agire violento, ma anche sulle parole della violenza.

 

Ornella Favero: Con Adolfo Ceretti sono anni che organizziamo i nostri convegni facendo proprio affidamento sulla sua capacità di sostenerci, confrontarsi con noi, guidarci, lui è un criminologo e uno dei massimi esperti di giustizia riparativa e di mediazione penale, del rapporto tra vittime e autori di reato. Però oggi vogliamo affrontare un tema un po’ diverso, che lui ha approfondito nel suo libro “Cosmologie violente”, il tema appunto della violenza.

Adolfo Ceretti: Sono molto contento di essere qui. È tanto tempo che volevo venire a trovarvi in una forma meno ufficiale di quella che mi vede abitualmente, a fianco di Ornella e di altri della vostra Redazione, condurre il convegno di fine maggio, che è ormai divenuto un appuntamento fisso, atteso da centinaia di operatori nel campo della giustizia. Per chi non mi conosce ricordo che insegno Criminologia nell’Università di Milano-Bicocca, sia presso la Facoltà di Giurisprudenza che quella di Psicologia. Sono infatti laureato in giurisprudenza, ma sono anche psicologo. Si tratta di due campi del sapere incommensurabili, che parlano spesso dentro di me con i loro linguaggi radicalmente differenti.

È nelle vesti di criminologo che ho incontrato il tema della violenza. Ho scritto qualche anno addietro, insieme a Lorenzo Natali, un giovane e validissimo ricercatore, un libro che si intitola “Cosmologie violente, percorsi di vite criminali”(Raffaello Cortina Editore), ed è proprio ai contenuti di questo volume che dedicherò il nostro incontro. È un libro accademico, molto complesso. Ma la sfida di oggi è particolare. Proverò ad affrontare i temi che lo attraversano direttamente con voi, che potete avere incontrato in molte situazioni – direttamente o indirettamente – il comportamento violento. In altre parole, la sfida che oggi voglio proporvi è quella di iniziare una riflessione condivisa sul comportamento violento, partendo da concetti a prima vista difficili, ma che proveremo a familiarizzare insieme. Di certo vi perderete un po’, soprattutto all’inizio, ma io mi impegnerò per aiutarvi a tornare sulla concretezza di questo tema.

Prima di iniziare, desidero esplicitare che il lavoro di ricerca mio e di Lorenzo si è svolto principalmente per mezzo di alcune interviste che abbiamo svolto nella casa di Reclusione di Milano Opera, dove alcuni detenuti che stavano scontando delle pene lunghe per aver commesso delitti quali omicidi, lesioni gravi e violenze sessuali, hanno accettato di dialogare intorno ai reati che avevano commesso. Le persone che hanno accolto il nostro invito erano solo maschi (nessuna risposto alla nostra richiesta). Lorenzo e io li abbiamo incontrati anche per 7/8 ore – naturalmente non di fila – registrando i colloqui che, in seguito, abbiamo sbobinato. Ogni parola che è stata pronunciata è stata dunque trascritta.

Le ipotesi sulla genesi e sul senso del gesto violento che sosteniamo nel libro si alimentano dunque delle conversazioni che abbiamo effettuato.

Occorre subito aggiungere che il vero motore e ispiratore del nostro lavoro scientifico è stato un nostro collega statunitense, Lonnie Athens, i cui contributi accademici sono stati il nostro costante punto di riferimento. In sostanza, Lorenzo e io abbiamo provato a testare le sue ipotesi, edificate e messe a punto negli Stati Uniti, anche in Italia. Vi è da dire che Athens è una persona molto particolare. Oltre a essere un brillante studioso, una sua peculiarità è di essere nato e cresciuto nei sobborghi di una grande metropoli americana, in una famiglia altamente deviante. Suo padre, Pete, era un uomo che lo ha costantemente picchiato lungo tutta la sua preadolescenza e adolescenza, fino a quando Lonnie, diventato ormai fisicamente adulto, un giorno, in risposta a un ennesimo attacco ha preso suo padre per il collo e gli ha intimato: “Papà, se tu provi a picchiarmi ancora una volta, io ti ammazzo”.

Deve essere stato molto credibile il nostro Lonnie, perché suo padre non l’ha mai più toccato. In quello stesso momento, come è narrato in una sua biografia, egli ha deciso che l’unico scopo da dare alla sua vita era quello di comprendere da dove viene il comportamento violento. Athens, che fino a quel momento era una persona che tutti avrebbero ritenuto deputata a diventare a sua volta un uomo profondamente violento, si è iscritto prima alla facoltà di sociologia, poi a quella di giurisprudenza, ed è diventato uno dei più raffinati e affermati studiosi su questo tema.

Naturalmente, quello che reputo molto importante è che tutti voi abbiate la possibilità di confrontarvi con le cose che dico e di capire quali domande suscitino dentro di voi. Se esprimerò concetti troppo

difficili mi fermerò e li ripeterò. Non c’è nessuna fretta.

Quando parlo di violenza, qui, io non parlo di violenza psicologica. Meglio, la violenza psicologica può entrare nel merito dei discorsi che stiamo facendo, ma quando mi riferisco al termine violenza lo intendo qui, secondo quanto sostiene un noto penalista italiano, Francesco Viganò, “la violenza come attacco al corpo”. Detto altrimenti, è la violenza fisica quella di cui ci occupiamo e che cerchiamo di spiegare. Infatti, quando Natali e io siamo entrati in carcere per incontrare le persone che avevano commesso i delitti dei quali stavamo parlando, abbiamo cercato di aiutarli ad entrare in un flusso narrativo, in un racconto della loro vita violenta. Ma, soprattutto, noi chiedevamo loro come si rappresentavano, ovviamente nel momento in cui interloquivano con noi, i loro gesti violenti. Per il nostro impianto teorico è molto importante mettere a fuoco che cosa pensano, che cosa si dicono, le persone nel momento stesso in cui stanno commettendo un gesto violento.

Molti psicologi sostengono che quando le persone commettono dei reati violenti, li commettono in una dimensione di non pensiero. Senza entrare nel merito o in polemica con questa affermazione, noi sosteniamo che nella maggior parte dei casi, anche nel momento in cui le persone commettono un gesto violento, parlano – anche se in modo ellittico, sincopato – con se stesse, e si dicono qualcosa. In sintesi, una delle domande sempre presenti nelle nostre interviste era: “Che cosa ti dicevi mentre stavi uccidendo quell’uomo?”.

Per darvi un’idea concreta di quello che vado affermando vi leggerò un brano tratto da un’intervista. Le parole sono molto forti, a tratti sconvolgenti. Nel caso di specie si tratta di un omicidio di un nero commesso da un bianco in una città del nord: “Mentre lui parlava io pensavo: ‘Guarda questi merdosi che vengono qui in Italia e vogliono farsi i fatti loro, qui in Italia, non è una cosa giusta’. Io me l’ero presa perché lui voleva violentare quella ragazza, quella è stata la causa scatenante, però non fino al punto di ucciderlo. La foga, la cattiveria pura, mi è uscita dopo. Ormai stava già succedendo di tutto, stava accadendo una cosa che non avevo previsto, ma che può accadere anche se non è detto che accada, cercavo di non farla accadere, perché io non sono il giustiziere che va in giro ad ammazzare la gente. Anche se tante volte mi metto nelle condizioni di giudicare le persone, è successo esattamente con questo qui, è scattato un giudizio perché lui è un negro, il punto primo è che lui è un negro, questa è una convinzione fondata che io ho di loro, loro sono degli animali e io sono una persona. Può anche sembrare contraddittorio, perché dici tanto dei negri e poi ascolti la musica di Bob Marley, però essere giamaicano è una cosa, perché quello non è un vero negro. I negri sono delle bestie, io lo vedo anche con gli arabi e con i marocchini, ti portano a essere razzista. Anche se questi ultimi sono bianchi mi fanno schifo lo stesso per come si comportano, perché non sono degli uomini che prendono delle posizioni. Poi quando li prendi uno a uno si dimostrano degli emeriti deficienti, io, invece, in compagnia di altre persone o da solo sono sempre lo stesso, perché io sono così, ho questa posizione qui. Queste persone invece quando sono in branco e gli vai a sparare addosso, fanno tutti i pecoroni e se ne scappano davanti a una sola persona, secondo me non sono uomini, sono delle bestie. Non parlo di tutti i negri, parlo di questi animali qua che vivono solo bene in branco, la cosa che non mi piace è proprio quella, perché se io devo farti qualcosa non vengo da te insieme al branco, vengo io, io in quanto persona e come tale vengo e ti faccio del male, per dire il male come il bene”.

Ecco: questo brano di intervista è, secondo me, estremamente utile per iniziare a svolgere una riflessione collettiva. A partire da ora affronteremo i concetti più difficili. Cercherò di renderli più semplici e accessibili possibile.

Ora, questa persona racconta che cosa si diceva nel momento precedente e in quello in cui uccide.

Sono pensieri ovviamente impregnati di emozioni, con-fusi. Eppure emerge in modo estremamente chiaro che cosa l’autore di questo omicidio pensa, nel momento in cui lo commette, di una persona che ha il colore della pelle diverso dal suo, o che arriva da un paese diverso. Egli aggiunge che la sua vittima è assolutamente “sacrificabile”, “uccidibile”, e cerca di spiegarne anche le ragioni.

Ciò che desidero rimarcare è che quest’uomo, come tutti gli altri che abbiamo intervistato, era stato periziato e giudicato capace di intendere e di volere. Ciò contribuisce ad erodere un altro mito che i criminologi hanno alimentato per decenni: quello psicopatologico.

“Mito psicopatologico” è un’espressione complessa attraverso la quale per molti decenni si è proposto di pensare che chi commetteva atti violenti era affetto, nella maggior parte dei casi, da problemi di natura psichiatrica. Ricerche longitudinali svolte in molte università del pianeta nel corso di decenni hanno progressivamente dimostrato che questa ipotesi era scorretta. Non è affatto vero, in buona sostanza, che la maggior parte dei comportamenti violenti è tenuta da soggetti mentalmente alienati. Anzi, è vero semmai il contrario. Più in dettaglio, è stato dimostrato che certe forme di sofferenza psichica possono incidere sul comportamento violento, cioè contribuire a causare un atto violento, ma ciò accade quasi sempre se le persone in questione sono dei maschi che hanno un’età compresa tra i 20 e i 35 anni e che oltre a un disturbo di personalità (antisociale, border) fanno uso di sostanze stupefacenti, principalmente la cocaina. Fatta salva questa relazione tra vari fattori, è difficile pensare che la malattia mentale sia di per sé una spiegazione decisiva del comportamento violento. Perché, possiamo chiederci, esistono tantissime persone che soffrono di serie patologie e non commettono reati violenti? Un piccolo esempio: esistono fratelli che crescono nello stesso ambiente familiare e sociale, e uno dei due diviene un lavoratore onestissimo, l’altro un delinquente violento. La scommessa, per noi, è di comprendere dunque come per qualcuno, e non per qualcun altro, la violenza possa divenire nel corso della sua vita uno strumento normale di risoluzione di un conflitto.

Per spiegare adeguatamente questo passaggio occorrono molti strumenti teorici. Se fossimo seduti in un’aula universitaria dovremmo citare svariati autori e bibliografie ben precise. Ma in questo contesto, che reputo molto più interessante, perché stiamo parlando tra uomini di qualche cosa che riguarda tutti (un comportamento violento lo può tenere chiunque, davvero chiunque) il metodo che seguirò sarà diverso. Non accademico, ma dialogico.

Abbiamo accennato alle “cosmologie violente”. Avete idea di che cosa sia un cosmo? Ciascuno di noi è un cosmo… Iniziamo a metterci dentro alla prospettiva che ciascuno di noi è un insieme di pensieri, emozioni e di visioni del mondo. Ognuno di noi ha degli occhi e guarda il mondo, ognuno di noi è un cosmo perché è un insieme infinito di modi di guardare il mondo, e a noi interessa capire come ciascuno guarda il mondo. Ciascuno di noi prende alcune decisioni. Quando prendiamo una decisione, gli psicologi del profondo insegnano che non siamo perfettamente consapevoli di tutto quello che stiamo decidendo di fare, perché il senso, la provenienza dei nostri comportamenti è oscuro, anche quando proviamo a interrogarci su di essi. E ciò accade perché il significato profondo dei nostri gesti proviene da un luogo che gli psicoanalisti chiamano “inconscio”. Quando voi cercate di pensare a quello che state facendo o che avete fatto (compresi i vostri reati), vi rendete conto che non tutto – o meglio ben poco – vi è sempre chiaro. Qualche cosa vi arriva in modo sorprendente senza che voi riusciate a dare un nome a quello che sta accadendo, e che riusciate a dire “io sto facendo questo perché questo è quello che io voglio davvero fare”. Appena pronunciamo queste parole sentiamo che qualcosa sfugge. Che nulla è limpido. C’è da qualche parte qualche forza che ci sta guidando, o meglio che ci sta spingendo ad agire, rispetto alla quale noi non sappiamo dire esattamente che cosa sta accadendo. I nostri movimenti psichici sono estremamente complessi da individuare. Però quello che per noi è importante capire, qui e ora, è che noi abbiamo una significativa possibilità e capacità di dialogare con noi stessi. In altri termini, noi possiamo parlare con noi stessi e dirci delle cose significative.

Torniamo con la mente al brano che abbiamo letto. L’intervistato affermava che lui voleva uccidere, innanzitutto, perché l’altro era un “negro”. I criminologi definiscono questi crimini “crimini dell’odio”. In breve, puoi cominciare a odiare delle persone perché appartengono a una “razza” diversa, ma per farlo tu te lo devi raccontare, te lo devi dire e ripetere, devi ascoltare quello che ti dici. Da qualche parte, dentro di te, devono risuonare certe parole perché, arrivato a un certo punto, tu le possa agire.

Provate ora a fare un piccolo esercizio, molto banale. Provate a pensare di essere di fronte a un apparecchio televisivo e di dover scegliere un programma. Che so, un film, una partita di calcio o un talk show. Per poter scegliere anche un programma televisivo dovete parlare con voi stessi, dovete dirvi qualche cosa di significativo. In estrema sintesi, ciò che Natali e io indaghiamo riguarda quello che le persone si dicono quandomdecidono di fare qualcosa di estremamente inquietante, e cioè commettere

un gesto violento. Ci chiediamo come entrano in contatto con se stessi coloro che prendono quella drammatica decisione.

Se queste premesse sono chiare, la domanda che ora desidero porvi è la seguente: quando cerco di dirmi qualcosa, io parlo solo con me stesso o, viceversa, sto parlando anche con qualcun altro?

Per fare un passo avanti rispetto a questo ragionamento – che so essere molto complesso – dobbiamo ora concordare su un altro punto. Se è verosimile che noi, tranne in casi molto rari, non siamo determinati dalla malattia mentale, non siamo neppure una fotocopia di quello che ci circonda. Ovvero, se io cresco in un ambiente violento, che accetta culturalmente la violenza, non necessariamente sarò una decalcomania di quell’ambiente, la fotocopia esatta di quello che accade là fuori. Una prova lampante di quello che vi sto suggerendo è proprio la storia di Lonnie Athens, che a un certo punto della sua vita ha fatto una scelta ben lontana dalla devianza.

Lo sforzo che stiamo facendo, passo dopo passo, è quello di provare a capire come nasce il comportamento violento, e prima di tutto con chi parliamo davvero quando parliamo con noi stessi.

È chiaro quello che ho detto fino a ora?

 

Dritan Iberisha: Adesso tanti di noi probabilmente pensano a che cosa si sono detti nel momento in cui hanno tenuto un comportamento violento.

Adolfo Ceretti: È proprio su quello che vorrei che voi iniziaste a riflettere. Per chi mi conosce sa che quando parlo di questi temi non assumo un tono giudicante. Mi interesserebbe invece comprendere quanto ognuno dei presenti, compreso chi parla, può prendere in mano, sotto certi punti di vista, la sua vita cominciando a dialogare con se stesso, che è forse la cosa più importante che ciascuno di noi può fare nel corso della sua esistenza, a prescindere da dove si trova, da quello che sta facendo, dalla situazione che sta vivendo. Noi siamo vivi, e uomini, solo se riusciamo a essere autoriflessivi, altrimenti ci lasciamo vivere in una dimensione passiva e poco interessante.

 

Sandro Calderoni: Sicuramente tutti noi avremo pensato o detto qualcosa nel momento in cui abbiamo fatto delle azioni violente. Secondo me l’atto violento è però un linguaggio, un linguaggio che impari, è come tu dicevi del criminologo Lonnie Athens che è nato in una situazione violenta, e poi magari può aver cambiato perché ha trovato un altro linguaggio. Ma se da ragazzo impari un linguaggio, se litighi e magari vai a casa e hai degli amici o dei famigliari che ti chiedono perché non hai reagito, tu impari un linguaggio che è quello della reazione di essere violento anche tu, e magari di incominciare per primo. Perché c’è una cultura dietro, una cultura che non è solo tua, che tu acquisisci in base al posto dove cresci. È vero che non tutti nei posti, che sono malfamati, crescono in quel modo li, perché se hai avuto un’opportunità di cambiare modo e linguaggio, cioè di vedere altre cose, secondo me è quello che ti dà l’arma magari per dire: aspetta e vediamo un attimo invece di agire in un certo modo.

Adolfo Ceretti: Quando hai detto che l’atto violento è “un linguaggio”, mio e soltanto mio, mi sono quasi commosso, perché è esattamente lì dove sto cercando di arrivare. Vuol dire che siamo sintonici. Visto che ci intendiamo, proviamo ad andare avanti. Ce la fate?

Provo allora a introdurre un concetto, quello di comunità fantasma”, che è molto in sintonia con quello che stavi dicendo tu, Sandro, adesso. Partiamo da un dato di fatto. Quotidianamente tutti noi viviamo delle emozioni, e queste emozioni, queste passioni, questi sentimenti sociali – quali l’orgoglio, la vergogna, la felicità, la tristezza, l’odio, il rancore, il risentimento, la rabbia – sono emozioni e sentimenti che proviamo spesso repentinamente e prepotentemente. Ti odio: cosa vuol dire “ti odio”? Se cominciassimo a soffermarci su che cosa significa odiare qualcuno, fino al punto da ucciderlo, ognuno di noi direbbe qualcosa di profondamene diverso da quello che sostiene un altro. Di conseguenza, quello che desidero aggiungere è che nella visione che Lorenzo e io abbiamo del comportamento violento, è molto importante condividere il fatto che le emozioni per noi non hanno un significato universale. La rabbia, l’odio, il rancore non sono dei concetti che possiamo definire solo in astratto, con parole che tutti condivideranno perché sono “vere” per ciascuno di noi. Certo, una parte del significato del termine rabbia è sempre definibile in termini generali. Ma se vogliamo capire che cos’è la rabbia per te, o per te, dobbiamo ovviamente ascoltare quello che ciascuno si dice quando la nomina, perché ognuno di noi è un cosmo, ognuno di noi è una trama di complicatissimi simboli, rappresentazioni, pensieri che ci portiamo dentro e che esprimiamo appoggiandoci a un costante dialogo che intrecciamo con quella che, insieme ad Athens, definiamo “comunità fantasma”.

 

Carmelo Musumeci: Io ultimamente ho letto un libro, “L’effetto Lucifero”, che parla di quell’esperimento fatto negli Stati Uniti negli anni 60, dove sono state prese delle persone “normali” all’università, degli studenti, di cui alcuni hanno fatto la parte dei detenuti e altri degli agenti. Ebbene, questo esperimento dopo 15 giorni è stato interrotto, perché ne è scaturita una violenza inaudita, cioè ognuno è entrato talmente nella parte che sono stati costretti a interromperlo. Questo mi sembrava un po’ in contrasto con quello che sta dicendo lei adesso.

Adolfo Ceretti: È una domanda molto acuta e anche molto pertinente. Per rispondere dobbiamo introdurre una distinzione che ho omesso di fare all’inizio: quella tra i comportamenti violenti collettivi e individuali. Oggi, e nel libro scritto con Natali, discutiamo delle violenze individuali. Quando si agisce violentemente in gruppo si mettono in moto dinamiche diverse da quelle che sto descrivendo, anche se vi sono molti collegamenti con quello che sto dicendo. Nelle violenze collettive registriamo, nei soggetti che formano i gruppi che agiscono distruttivamente, dei cambiamenti molto più repentini, immediati di quelli che portano un soggetto singolo a formarsi una cosmologia violenta.

 

Carmelo Musumeci: Come è successo in Iraq con gli americani…

Adolfo Ceretti: Bravissimo. Chi è diventato un torturatore, e tra essi certamente i soldati americani in Iraq, le masse di persone che prendono attivamente parte ai genocidi, alle pulizie etniche e agli stupri collettivi, sono tutti esempi di forme collettive di violenza. Purtroppo sono infiniti. Ci sono biografie che hanno dell’incredibile. Sfogliando alcune storie di vita degli “affiliati” alle Tigri di Arkan si legge di persone notoriamente miti, che per hobby coltivavano i gerani sul terrazzo. Ebbene, gli stessi individui, tre mesi dopo essere entrati in questo gruppo paramilitare, sono stai accusati di aver commesso uno stupro etnico. La questione allora è la seguente: che cosa è accaduto nel mezzo? Qui, le domande e le risposte sono diverse da quelle che stavamo provando a edificare tutti assieme, perché noi stavamo discutendo di violenze individuali, di persone che arrivano ad attaccare il corpo di qualcun altro non all’interno di dinamiche gruppali, ma da sole.

Provo allora a tornare al mio ragionamento, che si era arrestato alle soglie della domanda: che cos’è una “comunità fantasma”? Beh… tanto per cominciare tutti noi abbiamo una comunità fantasma, che con Lorenzo definiamo spesso anche come un “parlamento interiore”. Quando parliamo con noi stessi per prendere una decisione, in realtà non dialoghiamo soltanto con noi stessi. La proposta che emerge dagli studi dell’interazionismo simbolico quando affronta questi temi è che quando dialoghiamo con noi stessi noi dialoghiamo anche con “i nostri altri significativi”. Chi sono gli altri significativi? Provo a rispondere in modo molto concreto, così che se vi interessa recepire questo concetto non lo dimenticherete mai più. Partiamo dal presupposto che ognuno di noi interloquisce, appunto, con un parlamento interiore. Avete presente com’è composto un parlamento? In un’aula siedono i componenti del Parlamento. C’è una maggioranza, una minoranza. Quando facciamo riferimento al parlamento interiore al posto di deputati e senatori vi sono le persone che contano, che hanno avuto e/o hanno un ruolo centrale, decisivo, nella nostra vita.

Sono, in altre parole, i nostri interlocutori principali – per esempio i genitori, chi ci ha educati, i preti, il capo della gang, un maestro di scuola. Ognuno di noi è abitato da un parlamento interiore. Quando interloquiamo con noi stessi lo facciamo attraverso gli occhi e le parole delle persone che contano per noi, che in quel preciso momento hanno la “maggioranza” nel nostro parlamento interiore. Per esempio, quando scrivo un libro penso sempre al giudizio di quelle quattro o cinque persone che hanno la maggioranza nel mio parlamento interiore. Se giudicheranno bene il libro, anche se venderò solo dieci copie io vivrò quella pubblicazione come un successo, o un insuccesso in caso di critica. Ma anche quando uno si innamora non si innamora mai da solo… Lo sappiamo perfettamente. Ci si innamora sempre dovendo attraversare il giudizio degli altri. Ci chiediamo: piacerà a mia madre, a mia sorella, ai miei amici? Tradotto nel nostro linguaggio sappiamo perfettamente quanto il giudizio degli “altri significativi” ha un potere determinante nell’indirizzare la nostra vita.

Lo stesso ragionamento lo si può lentamente far migrare verso la questione della violenza. La nostra proposta teorica è che quando si inizia a commettere sistematicamente dei gesti violenti lo si fa dialogando in accordo con un altro significativo. Per esempio, se tu hai popolato il tuo parlamento interiore soltanto di altri significativi non violenti, è quasi impensabile che tu possa compiere un atto violento, a meno che non sia un gesto d’impeto o di legittima difesa. Pensate al caso in cui un uomo tiene sua figlia per mano e qualcuno cerca di rapirgliela. Lì, tu sei disposto a fare qualunque cosa.

Oppure, pensate al caso in cui si è attaccati da qualcuno che vuole rapinarvi, puntandovi un coltello alla gola. Per difendervi siete disposti a fare qualunque cosa. Ma pensare e agire per distruggere la vita di un altro senza essere preventivamente attaccati e messi in pericolo… beh… a mio giudizio lo puoi, lo riesci a fare forse solo se sei in sintonia con un altro significativo che ti suggerisce che quel conflitto lo puoi risolvere anche con la violenza.

Un punto molto importante da rimarcare è che la nostra comunità fantasma/parlamento interiore non è una fotocopia della “comunità fisica” che abitiamo, perché la comunità fisica, cioè il contesto socio-ambientale dentro al quale siamo gettati, composto da tutte le relazioni familiari e sociali che ci compongono, tende a formare comunità fantasma differenti, a seconda di come ciascuno di noi filtra simbolicamente l’ambiente sociale in cui vive.

Torniamo all’episodio dell’omicidio del signore nero che ho già richiamato più volte. L’autore del delitto era uscito da dieci giorni dal carcere, dove era stato recluso per spaccio di stupefacenti. Era stato ospitato da un’amica, alla quale aveva chiesto di procurarsi un po’ di cocaina. Lei non sapeva a chi chiederla, e a un certo punto per procurarsela si era rivolta a quel signore nero, che a sua volta si era detto disponibile a fornirle la cocaina in cambio di sesso, non di soldi. Di fronte al rifiuto della donna l’uomo aveva cercato di violentarla. Non vi era riuscito, ma ci aveva provato. Poi le aveva lasciato un po’ di droga. La donna, in seguito a questo episodio, decise di raccontare al suo amico tutta la vicenda. Quest’ultimo, ovviamente dopo aver dialogato con la sua comunità fantasma, decise di uccidere il “nero” con quelle modalità terribili che abbiamo descritto. In una vicenda come questa incontriamo vari piani. C’è una situazione contingente, in cui una persona ne ha di fronte un’altra con la quale ha un conflitto, perché ha cercato di violentare una sua amica. Entrambi sono gettati dentro a una situazione che devono in qualche modo risolvere. Ognuno di noi quando inizia a dialogare con se stesso e con la propria comunità fantasma interpreta anche la situazione in cui è immerso. È lì che qualcuno può cominciare a dirsi, a differenza di altri: “Io questo lo ammazzo!”. D’accordo? Può avvenire? Anzi avviene, e anche spesso. La domanda, giunti a questo punto, diventa la seguente: come posso riuscire a dirmi qualcosa del genere? Come può essere credibile, nel mio parlamento interiore, il suggerimento che ricorrere alla violenza sia qualche cosa di non riprovevole ? Perché tutto ciò può avvenire?

 

Carmelo Musumeci: Quindi, in poche parole, decide la comunità fantasma, non decido io?

Adolfo Ceretti: No, certo che no! Bravissimo Carmelo, è proprio qui che volevo arrivare. Avete capito

tutti la domanda? È decisiva. Ognuno di noi è un cosmo, e quando parliamo con un interlocutore significativo del nostro parlamento interiore non obbediamo mai a un comando altrui, ma traduciamo questo messaggio in un linguaggio che è nostro, solo nostro, perché lo filtriamo attraverso il nostro Sé. Dobbiamo spiegare bene quello che tu hai chiesto, perché è uno dei punti decisivi di tutto il discorso.

Se avete un po’ di pazienza, per articolare meglio questa risposta vorrei farlo attraverso un esempio molto semplice ed estremamente indicativo. 1994. Ruanda. Genocidio. Un milione di morti a colpi di machete in poche settimane. Gli Hutu attaccano i Tutsi incitati da una radio, la radio Mille Colline, che sprona alla violenza. Come è possibile che nel conteggio del milione di morti ce ne siano anche 200 mila che appartengono all’etnia dei perpetratori, cioè di chi ha inflitto il genocidio? Semplicemente perchè 200 mila Hutu decidono di non prendere parte attivamente a quel genocidio, e per questa ragione vengono loro stessi sterminati a colpi di machete. Quello che sto cercando di farvi comprendere è che rispetto ai consigli, agli avvertimenti, agli ordini impartiti dalla nostra comunità fantasma c’è sempre una possibilità di autoriflettere, e c’è sempre uno spazio dialettico, di contrattazione.

Possiamo vivere in contesti sociali che accerchiano prepotentemente la nostra vita (basti pensare a un quartiere mafioso) e in quei luoghi alcune nostre convinzioni morali possono essere congelate, messe sotto scacco. Ma noi non siamo mai passivi rispetto a quello che accade. Viviamo in una costante dialettica con il mondo che ci circonda. Gli Hutu che non hanno voluto aderire al progetto genocidi ario sono lì a dimostrarlo, con il loro sacrifico umano. Pensiamo a che cosa è stato il nazismo e ai “crimini dell’obbedienza” che lo hanno contraddistinto. Nessuno di noi nasce necessariamente violento. Gran parte del comportamento di chi agisce con violenza noi lopossiamo comprendere attraverso l’accurata ricostruzione della sua comunità fantasma (violenta). Nel corso delle interviste Natali e io abbiamo potuto constatare che le persone che avevano commesso molti crimini violenti avevano alle loro spalle una socializzazione violenta – che noi definiamo “violentizzazione”. I nostri interlocutori erano stati cresciuti ed educati, come nel libro di Nicolai Lilin, Educazione siberiana, a ricorrere alla violenza per dirimere i conflitti – anche di leadership – con gli altri. Ma per quanto complesso vi invito, quando parliamo del comportamento violento, a non pensare in termini deterministici. L’ipotesi che vuole una relazione deterministica tra un’educazione violenta e una vita violenta va decisamente allontanata. È la vita stessa di Athens che lo dimostra! Siamo noi a decidere, a un certo punto del cammino, che possiamo cambiare, perché qualcosa sta cambiando anche intorno a noi. Lo vedremo meglio in un prossimo incontro, analizzando il concetto di “cambiamento drammatico di sé”. Al contempo, però, è altrettanto vero che quando troviamo qualcuno che ricorre normalmente alla violenza è accompagnato da una comunità fantasma violenta, che si è edificata in un percorso che definiamo, appunto, come “processo di violentizzazione”.

Come dicevo, Lilin descrive molto bene questo processo in termini letterari. Cosa vuol dire, per esempio, essere brutalizzati? Vuol dire che in molte vite di persone violente noi ritroviamo episodi in cui i futuri attori violenti subiscono un trattamento rozzo e crudele per mano di altri, e questo evento produce un impatto drammatico e durevole per il prosieguo delle loro vite.

Provate a pensare appunto a una persona adolescente o preadolescente, a un ragazzino che comincia a subire una serie di esperienze distruttive. Alcuni di voi le hanno certamente vissute. Alcuni di voi sono stati probabilmente brutalizzati e sottomessi in modo violento. Che cosa vuol dire essere sottomessi in modo violento? Vuol dire che una persona, che ricopre un ruolo sovraordinato, e che può essere tuo padre, tuo nonno, il capetto di una banda giovanile, il boss di una organizzazione della criminalità organizzata, inizia a esercitare su un giovane delle forme di dominio. È una relazione nella quale chi “sta sopra” esercita verticalmente il proprio potere nei confronti di chi “sta sotto”, ricorrendo alla violenza fisica per essere più credibile, e rendendo assai difficile al soggetto sottomesso la possibilità di liberarsi da questa imposizione.

Un altro modo per esercitare il proprio dominio in un processo di violentizzazione è quello dell’“orrificazione”. In questi casi, chi esercita un ruolo sovraordinato costringe chi è sottomesso ad assistere a una violenza nei confronti di qualcuno al quale è affettivamente molto legato. Assistere a scene di violenza – per esempio l’uccisione del tuo amato cane, il pestaggio di tua madre – è una tappa che precede sempre la fase di un addestramento violento, il cui obiettivo finale è di generare nel “discepolo” l’intrapresa di una condotta violenta.

Reputo che qui vi sono alcune persone che possono confermare che non è facile – e che non va dato per scontato, o per automatico – decidere di attaccare il corpo di qualcun altro. Bisogna aver edificato un Sé violento. Il che avviene soprattutto attraverso un addestramento violento. Per indurre l’agire violento, chi “sta sopra” inizia a insegnare che il mondo è abitato da persone malvagie e malefiche, compresi quelli a cui siamo affettivamente più legati, e che in situazioni ostili l’aggressione fisica è il mezzo più idoneo ed accettabile per prevalere nello scontro con i rivali. Insieme a Lorenzo, intervistando le persone che hanno accettato di parlare con noi, abbiamo sempre riscontrato che a un certo punto della loro vita i futuri attori violenti avevano incontrato una persona malefica che aveva esercitato questo tipo di autorità e di potere nei loro confronti.

Tutti noi sappiamo chi è un “coach” nel pugilato. È l’allenatore. Noi reputiamo che le persone che nel loro futuro ricorreranno costantemente alla violenza hanno in qualche momento della loro esistenza avuto un rapporto con qualcuno che ha svolto un ruolo simile a quello di un coach. Quest’ultimo li ha fortemente motivati ad avere relazioni violente. Quasi sempre c’è un momento di questo addestramento in cui chi “sta sotto” si pone questa domanda: “Quanta violenza posso ancora sopportare, quanta violenza posso ancora sopportare da quello che mi sta sopra?”. Per molte delle persone che abbiamo intervistato c’è stato un momento in cui esse si sono dette: “Basta, non ce la faccio più”. Dopo questo punto, per chi era sottomesso al dominio di qualcun altro, l’unica via di uscita era quella di dirsi: “Non scappo più, non vado più via, non cerco alleati, mi sottometto e basta. Non ce la posso più fare a sopportare tutta questa violenza”. Mettersi nelle mani della persona che ci “sta sopra” produce in un primo momento un sollievo, perché dopo tanto tempo non mi sento più in conflitto con qualcun altro. Ma in genere questo sollievo dura poco e lascia spazio a un vissuto di umiliazione, di rabbia, di desiderio di vendetta nei confronti di chi ricopre il ruolo sovraordinato. Questo stato di confusione è quello decisivo con cui si entra in una fase successiva, quella della belligeranza.

Quello che voglio sottolineare è che noi costruiamo lentamente una cosmologia violenta e diveniamo attori violenti non così d’improvviso, ma dentro a delle relazioni. Solo quando questo percorso di violentizzazione, di socializzazione alla violenza, è terminato, una persona è pronta per commettere un gesto violento accettando, senza nessun conflitto morale, che la violenza è qualche cosa che può tranquillamente appartenere al proprio arsenale sanzionatorio nei confronti degli altri. Non c’è nessun conflitto morale, a questo punto, nell’agire violentemente. L’etica pubblica, lo Stato, il Diritto penale, sono cose lontane, invisibili. Io ormai appartengo a un gruppo, a un mondo, a relazioni che mi suggeriscono in modo anche prepotente che la violenza è qualche cosa che può aiutarmi a risolvere, in modo molto semplice, situazioni molto complesse.

Nel corso di una delle nostre interviste un soggetto ha raccontato come è arrivato allo stadio della belligeranza, ovvero di quando ha iniziato a sperimentare la “bellezza della violenza”, perché occupare una posizione di dominio è molto gratificante per tutti, ovviamente. Basti pensare a ciò che riporta Athens in alcune sue pagine. Un detenuto da lui intervistato è arrivato a riscrivere un principio evangelico (“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”) in questa prospettiva: “Fai agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te, ma fallo prima di loro”, perché se lo fanno prima loro, tu sei finito.

A costo di essere pedante e noioso ribadisco però che anche quando siamo in presenza di un processo di violentizzazione non è mai automatico che questo si traduca in chi lo subisce in un delinquente aggressivo. Anche se la maggioranza, nel mio parlamento interiore, è formata da interlocutori violenti, il filtro simbolico dato dal nostro Sé lascia sempre una possibilità di pensare altrimenti. C’è sempre questa possibilità. Tutto ciò lo capiremo – come ho già anticipato – quando potremo affrontare il concetto di “cambiamento drammatico di sé”.

Per concludere e per riassumere. Abbiamo cercato di inquadrare alcuni concetti che aiutano a chiarirci che tutti noi siamo riflessivi, ovvero che tutti, nessuno escluso, dialoghiamo con noi stessi: siamo  riflessivi ogni volta che scegliamo un programma televisivo, che iniziamo una relazione amorosa, e anche quando ci comportiamo violentemente. Non c’è differenza sotto questo punto di vista.

Dialoghiamo con noi stessi, dialoghiamo con la nostra comunità fantasma ma siamo sempre noi che dialoghiamo con essa, motivo per cui siamo noi che decidiamo rispetto a quello che gli altri ci chiedono di fare o non fare. Sotto questo punto di vista sembra che il livello della nostra capacità di rispondere alle situazioni che incontriamo sia alto. Discorriamo con gli altri, con noi stessi, ascoltiamo i consigli e i suggerimenti della nostra comunità fantasma, ma poi decidiamo. In realtà non è così semplice. Tutto avviene dentro a una dimensione molto più opaca. Per esempio, il nostro inconscio interferisce prepotentemente in tutto questo percorso e questo ci rende sempre meno consapevoli di quanto riteniamo quando siamo chiamati a decidere. Ancora, ci sono dei momenti in cui siamo assordati dalla nostra comunità fantasma, che è così prepotente da non lasciarci nessuno spazio dialettico.

Ma non dimentichiamoci che, qualunque sia la posizione che noi occupiamo, possiamo sempre cambiare.

 

 

 

Dopo l’incontro con Adolfo Ceretti

Una infanzia che mi ha segnato violentemente tutta la vita

 

di Alain Canzian

 

Qualche giorno fa, qui da noi in redazione, è venuto il professor Adolfo Ceretti, un noto criminologo e anche esperto di giustizia riparativa. Non è stato molto semplice capire tutto quello che lui diceva, anche perché è un argomento che non ho mai affrontato prima. Ma parlando di violenza, molte cose sono venute alla mia mente, specialmente andando indietro con gli anni, fino a tornare alla mia giovinezza. Purtroppo ho perso mia madre in tenera età, avevo solo due anni, ed eravamo appena tornati dalla Francia dove i miei genitori erano stati costretti ad emigrare perché in quegli anni in Italia non c’era lavoro, io ero molto piccolo e non ho dei grandi ricordi, ma con il passare del tempo la mancanza di mia madre incominciò a farsi sentire. Fino all’età di 7 anni, quando mio padre si risposò, sono stato cresciuto dai miei nonni paterni che cercavano in tutti i modi di non farmi sentire quella grave perdita. Purtroppo questa matrigna non si presentò a noi, a me e mio fratello, come una amorevole madre e in un attimo i problemi non tardarono ad arrivare. Mio padre era sempre via tutta la settimana per lavoro, e non capiva quella violenza che noi giornalmente subivamo, il sabato era diventato il giorno delle botte perché lei, la matrigna, raccontava a mio padre di tutto e di più, invece noi avevamo solo il “difetto” di essere bambini. Passavano gli anni, e io non la potevo soffrire più, appena potevo scappavo dai nonni, per poi venire ripreso e riportato a casa. Io cercavo di raccontare le cose ai miei amati nonni, ma non sempre venivo creduto avendo un’età molto giovane. Le mie fughe da casa oramai non si contavano più e ogni volta andavo sempre più distante, non andavo più dai nonni, perché lì era il primo posto dove venivano a cercarmi. All’età di 11 anni, dopo la mia ennesima fuga, mi trovai in un paese dove avevano allestito un circo e con molte frottole convinsi i responsabili a tenermi con loro, ero felice, ora ero uno che dava da mangiare ai leoni e giravamo per tutte le cittadine del Veneto. Purtroppo anche quella bella storia finì, loro dovevano andare con il circo all’estero e non potevano più portarmi con loro, a malincuore dovetti lasciare quel posto a me molto caro. Incominciai a vagare senza meta, fino a che venni fermato da una pattuglia che mi riportò a casa. Per qualche giorno le cose sembravano a posto e un po’ ero anche contento, ma quella felicità non durò molto, e in un attimo ricominciarono le violenze e con quelle anche le fughe, lei la matrigna incominciò a portarmi da vari psicologi, anche per avere la coscienza a posto, che lei qualcosa stava facendo per me, e fui rinchiuso in un ospedale per malati di mente, avevo sì e no 12 anni. Ero quasi tutto il giorno legato con la camicia di forza, per paura che io scappassi, io gli dicevo “slegatemi, tanto non scappo”, ma non venivo creduto, io ci sarei anche stato lì piuttosto di tornare a casa con la “megera”. In un attimo di distrazione dei dottori scappai da una finestra, ero tornato alla libertà, ma purtroppo anche quella durò poco, e per l’ennesima volta fui preso e riportato a casa. Qualcuno volle capire tutte quelle mie ribellioni, e in una sede, da una Assistente sociale, per la prima volta sentii quella parola. “Suo figlio non ha nessun tipo di problema, il problema in questione è lei!”. Venni richiuso in un monastero, non ero più a casa ma purtroppo le violenze sulla mia persona non finirono, anzi questi che parlavano di Dio e del Paradiso, e menavano a più non posso, oramai avevo fatto il callo e lì ci rimasi per tre anni, finché dopo aver finito i miei studi ritornai, questa volta dai miei nonni. La mia vita cambiò e finalmente ripresi a vivere a tutti gli effetti da quelli che sempre mi avevano voluto bene, anche se tutto quello che avevo subito non si poteva cancellare con un “colpo di spugna”, oramai stavo crescendo e dentro di me rimaneva la rabbia e pensavo che dovevo in qualche modo fargliela pagare.

Ricordo che un giorno, mentre ero in macchina con un mio amico, la vidi (la matrigna), lei era in bicicletta

e io in un attimo la puntai, non so cosa sarebbe successo se il mio amico non mi avesse preso il volante, evitando un’inutile tragedia, e così ho imparato che non si può pagare una violenza con un’altra violenza, ma purtroppo questa mia infanzia mi ha segnato tutta la mia vita, una vita fatta di sofferenze, di quella droga che mi ha portato in carcere, anche di qualche piccola gioia.

 

 

 

 

Ho cercato di riflettere sulle ragioni che mi hanno spinto a commettere dei reati

 

di Clirim Bitri

 

Ho sentito qui in carcere per la prima volta i concetti di violentizzazione e parlamento interiore.

Io sono nato e cresciuto in un paese comunista, l’ALBANIA, da bambino sono stato viziato perché ero il più piccolo della famiglia, fino ai miei 14 anni mi è stato insegnato di amare la mia famiglia, non rubare, rispettare i più grandi, e che era necessario studiare. Ma prima di tutti questi principi dovevo AMARE lo Stato e ODIARE il Nemico.

Anni 90, crolla tutto, lo Stato diventa il nuovo NEMICO e il vecchio NEMICO diventa la terra promessa. Un trauma che non riesco a spiegare, tutto quello che ricordo è che si doveva distruggere il vecchio per costruire il nuovo. Ma del vecchio facevano parte i 14 anni della mia vita. Altri 4 anni di liceo fra incertezza e disordine perché si studiava ancora sui vecchi libri e si sperava nel nuovo futuro.

1996, decido di lasciare casa per andare nella terra promessa per realizzare i miei sogni (aiutare la famiglia e avere le risorse sufficienti per proseguire gli studi universitari).

Ma nella terra promessa trovo lavoro solo come bracciante agricolo malpagato, realtà che non corrispondeva ai miei obiettivi. Anche qui un altro trauma, anche qui delusione.

Da qui credo che arriva la mia violentizzazione. Si può dire che la mia violentizzazione deriva dal TRAUMA e dalla delusione?

Lontano dalla famiglia, abbandono gli studi, comincio a rubare e non rispettando nessuno entro in una strada che non conoscevo prima, e vedo che i miei obiettivi si stavano realizzando. Ma realizzandosi gli obiettivi, cambiavano i sogni. Ero diventato un giovane  adulto che credeva di poter fare tutto “prima io, dopo di me dio”.

Dal 1997 al 2001 ho accumulato 6 condanne e 15 anni di carcere. E qui è entrato in gioco il mio parlamento interiore che mi ha impedito di fare male ad altre persone, bastava che loro credessero che tu potevi farlo.

Alla fine a me mi ha salvato chi mi ha denunciato, sono stato latitante dal 2001 al 2009, un tempo che mi ha permesso di allontanarmi da quel giro.

 

 

 

Se io non sono riuscito a fermarmi, cosa fare per aiutare altri a fermarsi prima di commettere un atto violento?

 

di Ulderico Galassini

 

L’incontro con Adolfo Ceretti mi ha coinvolto richiedendo una attenzione e concentrazione non indifferenti. A tutti è rimasto impresso l’uso di definizioni quali: Parlamento interiore – Comunità fantasma che, mi pare di capire, interagiscono costantemente con ogni persona.

Personalmente l’incontro mi ha fatto riflettere parecchio e dolorosamente mi ha portato alla data più nera della mia famiglia, e in questa riflessione ho cercato di ripescare quella mia comunità fantasma, quel parlamento interiore, ma non penso che a distanza di tempo io sia in grado di riportare a galla quello che posso essermi detto in quei minuti terribili.

Mi è più facile ricordare le riflessioni dei tanti giorni precedenti e legati a situazioni lavorative, che mi toglievano la tranquillità dell’essere persona serena, distesa, e mi impedivano di gestire con consapevolezza nel mio lavoro ciò che fino a qualche mese addietro avevo seguito e gestito senza difficoltà.

In quella tremenda mattinata in cui ho cercato di distruggere, e in parte ho distrutto la mia famiglia, non ricordo dei dialoghi interiori ma dei comportamenti automatici e senza senso, che però mi hanno tolto anche la sensibilità dei sentimenti e delle emozioni, e portato a non capire che stavo distruggendo delle vite, eppure l’ho fatto, ma perché?

Questa comunità e parlamento sono ora ancora presenti dentro di me, ma non hanno o non vogliono rispondere ai miei perché, sono sempre attivi, ma non hanno deciso di raccontarmi, di spiegarmi perché non abbiano detto: fermati! Cosa stai facendo? Io so solo che per problemi di lavoro avevo paura di perdere tutto quello che avevamo raggiunto e invece ho perso, anzi ho distrutto non tanto le cose materiali, ma gli affetti più cari, mia moglie che era da 35 anni assieme a me, e ho ferito in tutti i sensi un figlio di 15 anni, che ora ne ha 21, e nonostante tutto non ha voluto abbandonarmi.

Non c’era mai stata nessuna brutalità tra di noi, ma condivisione di obiettivi e di scelte di vita. Forse qualcosa di simile alla violentizzazione è iniziata e si è innescata in modo subdolo in me, a partire da una forma di violenza che ho subito sul lavoro, un lavoro di direttore di banca che mi è sempre piaciuto, ma per farlo avevo bisogno di strumenti che per mesi non sono riuscito ad avere. La responsabilità che ho caricato su di me e il senso di impotenza nel non riuscire a rispondere a chi attendeva da me risposte, mi hanno portato a rinchiudere, a nascondere il disagio e la vergogna che mi assalivano ogni volta che i clienti mi chiedevano se avessi risolto i problemi. Così cercavo di fuggire dagli ambienti del paese più frequentati, avevo paura anche di entrare al bar di fronte al mio ufficio a bere un caffè. Perché? Tra tante persone c’erano pure quelle che da me attendevano risposte e mi vergognavo di non potergliele dare.

Col senno del poi penso che forse avrei dovuto cambiare lavoro, o prendermi un lungo periodo di aspettativa, non sapevo che ero in fase depressiva e tanto meno pensavo che avrei potuto arrivare a gesti estremi. Ma il mio “parlamento interiore” era pieno delle ossessioni e delle paure di fallire sul lavoro, e di non reggere il peso di un periodo di difficoltà. E allora se io non sono riuscito a fermarmi, cosa fare per aiutare altri a fermarsi prima di commettere un atto violento?

 

 

 

La violenza dello Stato sulle donne, madri figlie compagne di detenuti

Donne brutalizzate da consuetudini e leggi ottuse che rasentano il sadismo di Stato perché pretendono il distacco sociale, affettivo e sessuale dalle persone che amano

 

di Carmelo Musumeci

 

Quando sua figlia lo andava a trovare in carcere e la abbracciava gli rimaneva l’odore del suo amore per alcuni giorni.1

 

La Redazione di Ristretti Orizzonti si sta preparando alla giornata Nazionale di Studi dal titolo “Il male che si nasconde dentro di noi”.

Qualche giorno fa abbiamo discusso della violenza degli uomini contro le donne e a me è venuta in mente la violenza che lo Stato fa pagare alle compagne, alle madri e alle figlie che continuano ad amare i loro uomini, i figli e i padri dentro le mura di una prigione. Donne violentate e brutalizzate da divieti medievali, da consuetudini e leggi ottuse che rasentano il sadismo di Stato perché pretendono il distacco sociale, affettivo e sessuale dalle persone che amano.

La legalità è l’affermazione dei diritti, ma in carcere si fa fatica a trovarli specialmente quando si pensa che le nostre compagne non fanno l’amore con i loro uomini da decenni.

E ci sono molte figlie e madri che non ricevono un abbraccio, un bacio, una carezza perché i loro congiunti sono sottoposti al regime di tortura del 41 bis da anni e anni.

Eppure molte persone di buon senso ripetono che fra tutti i diritti, l’amore è quello più importante che non solo fa abbassare la recidiva più di qualsiasi altra cosa, ma è anche la medicina migliore perché chi ama e viene amato ritorna in carcere di meno.

Non ho niente contro gli animali anzi vorrei solo che anche i prigionieri avessero i loro stessi diritti come quello di scambiarsi effusioni, perché le sofferenze affettive non migliorano le persone ma, piuttosto, le peggiorano.

Poi per quale motivo la donna che ama un prigioniero non può fare l’amore con lui anche se non è responsabile del reato che ha commesso il suo compagno?

E soprattutto perché impedirle di ricevere e dare amore?

Non è ragionevole pensare di risolvere i problemi della delinquenza impedendo alle donne dei detenuti di essere amate.

Spero che in questo periodo in cui si parla molto della violenza che commettono gli uomini sulle donne si discuta anche della violenza che lo Stato infligge alle donne dei detenuti e degli uomini ombra (come si chiamano fra loro gli ergastolani ostativi), colpevoli di continuare ad amare fra le sbarre i loro congiunti. Nessuno parla e nessuno affronta il problema dell’amore in carcere, invece un giudice, in particolare quello di Sorveglianza, dovrebbe farlo e assumersi le sue responsabilità prendendo provvedimenti coraggiosi anche contro lo stesso Stato italiano.

 

1 “Gli uomini ombra”, di Carmelo Musumeci, Gabrielli Editori

 

 

 

 

La violenza delle parole, la violenza contro le istituzioni, la violenza della lotta

E poi la domanda che più ci sta a cuore: che cosa avrebbe potuto aiutarci a fermarci?

 

di Bruno Turci

 

Parole violente

Le parole, quelle che in qualche maniera richiamano alla violenza, quando diventano il linguaggio più praticato da una persona sono il sintomo di un malessere che può sfociare in una violenza non soltanto verbale, e anche se non si dovessero tradurre in violenza fisica, ne sarebbero comunque il presupposto principe. Le parole violente non sono le stesse per tutti, ma funzionano sempre come un campanello d’allarme che mette in guardia la mente e aiuta a fermarsi in tempo.

A me è capitato talvolta di usare delle parole violente proprio per avvisare, per prevenire, prima che la violenza degenerasse, per lanciare un segnale all’altro affinché capisse che oltre le parole ci sarebbe stata solo la violenza… talvolta le parole violente sono un estremo tentativo di difesa, utilizzate per non essere costretti a compiere gesti violenti. Questo, però, non vuol dire affatto che la violenza abbia qualche utilità per “esorcizzare se stessa”.

Personalmente mi è capitato di utilizzare, qualche volta, delle parole violente per “condurre a buon fine” dei reati. Ad esempio può capitare di usare parole violente durante lo svolgimento di una rapina, per costringere le persone a obbedire senza metterne a repentaglio l’incolumità e per garantirsi l’esito cercato con la commissione di un reato. Possono essere molte le circostanze in cui si utilizzano in maniera scientifica delle parole violente e in quei casi si tratta di violenza pura, giacché le persone a cui sono rivolte non possono sapere se a quelle parole si aggiungeranno azioni di violenza fisica, quelle persone resteranno traumatizzate per quelle parole, per quella violenza.

La violenza contro le istituzioni molto spesso è la conseguenza di un’evidente incapacità di relazione, del rifiuto di rielaborare antiche paure che si trascinano fin dall’infanzia e che hanno generato  un complesso d’inferiorità che infantilizza il pensiero e le azioni di chi lo subisce. Da questo si può affermare che la violenza riduce la qualità dei pensieri e della vita di coloro i quali ne fanno uso.

 

Istituzioni violente

Le istituzioni però rischiano di diventare il “nemico perfetto” per le persone private della libertà, incarcerate, rinchiuse in una cella sporca e stretta, troppo piccola per potervi contenere in maniera decorosa un numero così alto di persone, alle quali si riserva una detenzione per nulla attenta alle funzioni risocializzanti della pena. Le pessime condizioni in cui versano le carceri italiane determinano una detenzione che non rispetta l’umanità delle persone detenute e questo veicola la violenza contro le istituzioni, se non c’è rispetto per le persone detenute come si può credere che le persone detenute abbiano rispetto per le istituzioni?

In questo caso le persone detenute debbono difendersi e spesso lo fanno in maniera forte, violenta, per poter sperare di arrivare perlomeno a vedere da vicino le cause del male che le schiaccia. Questo è ciò che sta all’origine della violenza contro le istituzioni. Le istituzioni non raccolgono certe problematiche, non si fanno carico di risolvere i problemi che vivono le persone che sono costrette a subire le condizioni disumane, invivibili della pena che devono espiare. Pena che talvolta non dà speranza di vita e neppure speranza di morte, una vita sospesa… vite da ergastolani, sospensione delle garanzie della Carta Costituzionale. È il caso dell’ergastolo senza benefici, una condanna che non consente alle persone di sperare di uscire dal carcere se non dopo la morte. Paradossalmente in quei reparti d’isolamento le persone detenute non soffrono la disumanità del sovraffollamento, stanno tutti dentro le loro celle rigorosamente singole, la cui unica umanità è rappresentata dalle foto dei familiari, dei figli e dei nipoti. Una famiglia e affetti a cui non potranno mai sperare di potersi riunire, salvo che non venga cambiata la legge barbara che glielo impedisce. Questa è la violenza fredda e cinica di una legge figlia dell’emergenza criminale di oltre vent’anni fa.

In questi casi la situazione la salvano i direttori delle carceri. Certi direttori “illuminati” riescono a farsi carico, per l’istituto di pena che dirigono, delle difficoltà in cui vivono le persone detenute ed esercitano il potere che hanno per garantire loro una pena che abbia un “senso” e garantisca il rispetto delle leggi, che impongono il criterio della risocializzazione per tutti coloro i quali stanno scontando una pena.

 

Lotte violente

La violenza di certe lotte è uno dei principali nodi che impediscono che una lotta abbia successo. Le lotte a cui ho partecipato in carcere negli anni della mia detenzione sono state sempre caratterizzate da una violenza nei toni se non anche nelle modalità della lotta stessa.

Non so se esistono davvero lotte non violente, anche lo sciopero della fame è violento proprio per il modo in cui si caratterizza proponendosi di usare l’autolesionismo, di fare del male al proprio corpo. In questo senso è chiaro che una lotta è quasi sempre violenta. Si può affermare tranquillamente che molto spesso il motivo che sta alla base del fallimento di una lotta è da individuarsi nella violenza di cui non può liberarsi. La mia esperienza va in questa direzione, nel non aver saputo usare, per cambiare lo stato delle cose, strumenti che fossero privi di violenza.

Infine, credo che quello che ci potrebbe aiutare a fermarci prima di compiere un atto di violenza sia proprio il pensiero della nostra famiglia. Cioè quelle persone che, a volte inconsapevolmente, abbiamo trasformato nelle nostre vittime più eccellenti infliggendo loro le sofferenze peggiori. Proprio per questo hanno acquisito un tale potere su di noi. Sono i nostri genitori, i figli, la moglie, i fratelli, le sorelle. È la famiglia che ci ha sostenuti nei momenti più difficili, senza farci pesare l’infinita sofferenza che le è toccata in sorte per averci voluto bene. E sarà ancora la famiglia a farlo adesso con il seme della pazienza e dell’amore, a darci la forza di fermarci. Le famiglie sono il primo baluardo per il recupero alla legalità di una persona condannata. Per affidabilità e autorevolezza costituiscono il principale interlocutore per avviare a un percorso rieducativo i giovani. Le famiglie sono le prime vittime che un reo si porta dietro dal momento dell’arresto fino all’ultimo giorno. È proprio per questo che il loro ruolo nella nostra risocializzazione, nel reinserimento sociale è primario. Eppure la famiglia è quella parte che molto spesso viene colpevolizzata e penalizzata solo per il fatto che sono nostri parenti. I parenti dei mostri! Quanta violenza devono subire anche le persone che ci sono care!

 

 

 

 

Ero io che sceglievo di commettere reati

Ma oggi faccio ancora molta fatica a non ricordarmi dell’indifferenza di tante istituzioni, che non capiscono che la persona negli anni può essere davvero diversa dal suo passato, e negano di fatto la possibilità del cambiamento

 

di Luigi Guida

 

Sono un paio di mesi che, all’interno della redazione di Ristretti Orizzonti, stiamo discutendo per prepararci al convegno “Il male che si nasconde dentro di noi”, che è focalizzato sul tema della violenza. La nostra capo redattrice, Ornella Favero, ci ha chiesto di parlarne partendo non solo dai nostri reati, che sono quelli che ci hanno portato in carcere, ma da una riflessione molto più ampia e complessa, iniziando dal linguaggio, dalle parole che usiamo e dai comportamenti che adottiamo nella vita di tutti i giorni, che molto spesso sono quelli che ci hanno fatto rompere il legame con la società e quindi ci spingono a commettere reati e vivere in un mondo fatto di devianza.

Ci sarebbero tantissime cose da dire da parte mia in una occasione come è questa, visto che sono una persona che i primi reati li ha commessi per il gusto di trasgredire qualche regola, e per seguire la logica del gruppo di cui facevo parte, ma poi, con il tempo è diventato un vero stile di vita: ero io che sceglievo di commettere reati, era diventato quasi come fosse un lavoro e quindi la cosa più normale del mondo, ma non ci riesco. Forse perché, nonostante siano passati oltre due anni e mezzo da quando sono arrivato

qui a Padova, in un carcere dove per la prima volta si è cercato di mettermi a disposizione strumenti diversi da parte della direzione di un carcere rispetto al passato, per farmi riflettere sugli errori che ho commesso, e nonostante io abbia quindi maturato tantissime consapevolezze che prima non avevo, non è semplice fare una revisione realmente critica sul mio trascorso deviante, capire come e quali siano le reali ragioni che mi hanno spinto a passare gran parte della mia giovane età in carcere e le mie responsabilità in merito ai reati.

Faccio ancora molta fatica a non ricordarmi dell’indifferenza di tante istituzioni, che non capiscono che la persona negli anni può essere davvero diversa dal suo passato, e negano di fatto la possibilità del cambiamento.

Quindi vorrei partire dalle violenze delle istituzioni, che sarebbero quelle che dovrebbero educarci a cambiare il linguaggio e l’atteggiamento. Ma come lo si può fare in un ambiente carcerario dove invece di farti capire cosa sia la differenza tra il bene e il male, ti reprimono fino all’inverosimile, tenendoti stipato in spazi angusti, dove non puoi fare nulla se prima non trovi un accordo con gli altri coinquilini, spogliando così il detenuto di ogni possibilità di scelta, e quindi di assumersi le proprie responsabilità, e negandogli la propria dignità e talvolta, in casi più estremi, riducendolo a meno di un essere umano.

Ma questo è solo un piccolo esempio, perché all’interno delle carceri si vivono linguaggi e comportamenti violenti tutti i giorni, come può essere una domandina che fai e magari ti viene buttata o va persa perché non vai a genio a chi dovrebbe darti ascolto, alle mortificazioni che devono vivere le famiglie e i figli all’entrata dei colloqui, dove vengono perquisiti come se fossero dei criminali, e in tante realtà debbono passare quasi tutta la notte fuori dal carcere per potersi mettere in fila e arrivare alle dieci del mattino a fare un’ora di colloquio con il proprio congiunto, come succede sempre a Poggioreale. Ma mi fermo qui, perché altrimenti non so per quanto tempo dovrebbero sentirmi, tuttavia già le poche cose sopracitate potrebbero bastare per far capire come sia difficile per chi sta da questa parte partire solo dalla violenza dei propri errori, dimenticandosi di fatto di quella che ha vissuto in passato, e quella che in molti casi continua a vivere tutti i giorni.

Come faccio per esempio a non parlare del carcere da cui provengo, Genova, dove in una vasca di cemento di pochi metri quadri passeggiano oltre trecento persone di etnie diverse, che più che veri e propri criminali sono persone che si sono spinte a commettere reati perché non hanno saputo far fronte alle difficoltà della vita di tutti i giorni. E lo Stato ha contribuito a farli “rifugiare” nel mondo deviante, varando alcune leggi propagandistiche perché non ha saputo dare risposta in termini di politiche sociali, vedi la Bossi-Fini sull’immigrazione? Ma penso anche a tanti che ho visto qui dentro per effetto della Fini-Giovanardi, che ha rinchiuso in carcere anche quelle persone che avevano come unica colpa quella di acquistare un po’ di hascisc in più il fine settimana, e poi la ex Cirielli che toglie quasi ogni possibilità ai recidivi di accedere alle misure alternative, quindi di poter iniziare un percorso rieducativo vero, e in cambio la stessa legge favorisce però la prescrizione dei reati di chi ha buoni avvocati, i cosiddetti colletti bianchi che fanno reati del tipo finanziario riducendo magari intere famiglie sul lastrico. Quelli sono veri criminali e quindi il male più grande della società, ma per loro la punizione spesso non arriva mai, per quelli come me arriva sempre.

 

 

 

 

Non ho ricette per la recidiva, ma qualcosa ho capito

Ho capito che al mio primo arresto qualcuno mi avesse fatto vedere l’altra parte, quella che subisce il male che facciamo noi, se mi avessero imposto un confronto vero con la società, e con le vittime, avrebbe risparmiato tanta sofferenza a chi ha subito le mie azioni

 

di Clirim Bitri

 

Nella nostra redazione si fa un grande lavoro per capire le ragioni che riportano in carcere ex detenuti e per riflettere su quello che potrebbe impedire la recidiva. In condizioni normali, il recupero del reo dovrebbe avvenire attraverso tre linee principali LAVORO, SCUOLA e RELIGIONE. O almeno così dice l’Ordinamento Penitenziario. Io come detenuto mi sono fatto la domanda: cosa mi servirebbe davvero per non rischiare di ritornare di nuovo in carcere?

La Religione? La religione serve ed è importante in carcere, ma così come la fede è una strada per trovare la tranquillità interiore, non credo che potrà aiutarmi a inserirmi nella società dopo tanti anni d’interruzione della mia vita sociale, e ad affrontare i problemi quotidiani fuori dal carcere.

La Scuola? La scuola serve, mi serve per accrescere la mia cultura, è importante perché è un posto dove mi posso confrontare con persone esterne all’istituto e capire quello che si fa fuori, ma con la crisi che c’è, iniziare gli studi a un’età in cui uno dovrebbe averli finiti da tempo e dovendo aggiungere al curriculum la qualifica di “ex detenuto”, ho qualche dubbio che questo mi aiuterebbe a trovare lavoro fuori.

Il Lavoro? Il lavoro (se ci fosse) serve, serve a non umiliarmi per un po’ di tabacco o una sigaretta, è molto importante per aiutare la mia famiglia, ed è conveniente perché ti permette di avere qualche euro a fine pena. Ma come si sa, su 67000 detenuti, fanno un lavoro “vero” meno di 900.

E dopo vari anni di galera non ho ancora capito il valore rieducativo che ci può essere nel lavare il pavimento o avvitare bulloni tutto il giorno all’interno del carcere. Oltretutto gli ultimi tempi qui dentro incontri sempre più spesso persone che fino al momento del reato avevano lavorato onestamente, e quindi ti rendi conto che non basta il lavoro per essere rieducati.

Negli incontri che si fanno con gli studenti (progetto scuola/ carcere) ho visto delle persone detenute riflettere sulle loro azioni, ammettere che avevano sbagliato, senza ottenere nessun beneficio ma solo per onestà di fronte alle domande innocenti dei ragazzi. Quella ammissione del reato che avevano rifiutato davanti alle lusinghe della legge, che magari ti prometteva di abbassarti un terzo di pena se collaboravi.

Abbiamo riflettuto sull’importanza dei “benefici”, ma forse è meglio parlare di MISURE ALTERNATIVE, che preparano la strada per un rinserimento nella società di persone che stanno finendo di pagare il loro debito con la giustizia e iniziano a capire che fuori dal carcere le aspetta la pena senza fine della coscienza.

Oggi si fanno tante ipotesi su come si può abbassare la recidiva, e si danno tante risposte diverse, qualcuna convincente, altre meno.

Io non so quale sia la risposta giusta, ma so cosa mi sarebbe stato utile e avrebbe impedito a me di essere oggi qui: farmi capire, durante la mia prima carcerazione, che non ero in carcere solo perché avevo infranto la legge, ma che con le mie azioni avevo fatto male a delle persone.

E poi mi sarebbe stato utile non essere buttato in cella a non far niente, con l’ordine “rieducati”, perché dentro di me, a fine pena, so che sarebbe rimasta solo la convinzione che non dovevo più niente a nessuno, anzi avevo pagato più del dovuto. Ma farmi confrontare con chi aveva subito un reato, e quindi una autentica sofferenza, commesso da me o da qualche altro mio compagno, perché le sofferenze di cinque anni di galera sono state niente in confronto con quello che ho provato in due ore di colloquio con le vittime dei reati.

E nell’ultimo periodo della pena avrei dovuto essere messo in una misura alternativa svolgendo anche dei lavori sociali, che mi aiutassero a darmi un’alternativa alla vita di prima. E invece non avrei dovuto essere messo fuori all’ultimo giorno con l’invito a non tornare, perché sono tornato dai vecchi amici.

In carcere siamo dei delinquenti, ma siamo anche delle persone, delle persone tante volte poco responsabili, e molto egoiste, perché quando rubiamo una macchina vediamo il modello ma mai il proprietario, vedere il proprietario e i sacrifici che ha dovuto sostenere per comprare quella macchina forse ci insegnerebbe a non rubare.

Oggi sono qui ma se al mio primo arresto qualcuno mi avesse fatto vedere l’altra parte, quella che subisce il male che facciamo noi, se mi avesse imposto un confronto vero con la società, e con le vittime, avrebbe risparmiato tante sofferenze a chi ha subito le mie azioni, e a me avrebbe risparmiato tanti anni di carcere.

 

 

 

Quando la violenza si riveste di legalità

Ma perché? Se tu sbagli sei punito e se sbagliano gli organi che amministrano le nostre leggi tutto va bene?

 

di Santo Napoli

 

Ultimamente nella redazione di Ristretti stiamo parlando molto di violenza, e noi ne abbiamo fatta coi nostri reati, ma io vorrei parlare anche della violenza psicologica ed afflittiva arrecata dallo Stato alle persone detenute. Innanzi tutto so che le persone detenute devono scontare una pena e per chi vive fuori in libertà noi dobbiamo solo stare male, e anzi si dovrebbe buttare la chiave, ma in carcere non si sta bene e per alcune persone la chiave la si butta nel vero senso della parola, e chi sostiene il contrario vuol

dire che nelle nostre patrie galere non c’è mai stato e non ha idea delle condizioni di vita connesse al  sovraffollamento.

Io ho riflettuto molto sulla questione della violenza inflitta e penso che anche lo Stato non si comporti bene, ma con violenza e non come la legge stabilisce. È vero che una persona che commette un errore, grave o lieve che sia, deve essere punita, ma nella punizione non ci si dovrebbe accanire con violenza.  invece la violenza nella carcerazione c’è e deriva dal fatto che già vieni rinchiuso al di fuori del mondo, poi ancora ti fanno violenza quando a questa chiusura si aggiunge la sofferenza perché ti concedono solo sei ore di colloquio al mese con i familiari, ti fanno violenza quando ti concedono dieci miseri minuti a settimana di telefonata con i parenti, per non parlare di quei detenuti che hanno i colloqui limitati a uno o due al mese e due telefonate sempre al mese. In pochissime realtà come Padova quei minuti sono sessanta e già ti sembra un miracolo.

Poi ti fanno violenza quando un detenuto viene trasferito dalla sua regione ad un’altra regione e questo non ti permette più nemmeno di fare i colloqui con i tuoi, vuoi per la lontananza, vuoi perché i tuoi  genitori o non guidano, o non sono più in condizioni per farlo a causa di una malattia o non possono venire spesso a trovarti per motivi economici, e ce ne sono tanti ridotti in queste condizioni, cosi poi si  perdono i contatti con le persone care, che diventano sempre più rari e faticosi, in alcuni casi addirittura c’è chi viene abbandonato al suo destino  in carcere.

Ecco io penso che bisognerebbe riflettere di più anche su questi fattori e su questo tipo di violenza, uno che commette reati non si vuol sentire vittima e secondo me non c’è, però in alcuni casi lo diventi tuo malgrado, e questo non è legalmente e umanamente giusto. Ma allora perché se tu sbagli sei punito e se sbagliano gli organi che amministrano le nostre leggi tutto va bene? Questa è un’altra forma di violenza di cui secondo me discutere.

 

 

 

 

La violenza della Giustizia

Invece di scrivere della violenza dei cattivi parlerò di quella dei buoni: perché se dal carcere si esce umiliati, offesi, arrabbiati, accecati dall’odio, intrisi di dolore è peggio per noi, ma è anche peggio per la società

 

di Carmelo Musumeci

 

“L’ubbidienza non sempre è una virtù” (Don Milani)

 

La Redazione di “Ristretti Orizzonti”, nella casa di Reclusione di Padova, per Venerdì 17 maggio 2013 sta organizzando una “Giornata Nazionale di Studi” dal titolo “Il male che si nasconde dentro di noi”.

Il nostro Direttore, Ornella Favero, mi ha chiesto di scrivere qualcosa sull’argomento e lo faccio volentieri ma io sono un bastardo anarchico ed invece di scrivere della violenza dei cattivi parlerò di quella dei buoni, di quelli che hanno la fedina penale pulita e che vanno spesso a messa la domenica.

Inizierò a parlare dell’esistenza e della violenza in Italia della “Pena di Morte Viva”, una pena (tortura?) di morte a gocce, che ti preclude ogni speranza di tornare un giorno libero senza togliere la libertà a qualcun altro.

Ed è sbagliato dire, come fanno in molti, che assomiglia alla pena di morte, perché questa dell’ergastolo è molto peggiore dato che si sconta da vivo invece che da morto.

Ed è come essere morti rimanendo vivi perché con l’ergastolo continui a vivere, ma smetti di esistere.

Qualsiasi pena dovrebbe servire a migliorare (guarire) e non a distruggere, ma come fa una pena che non finisce mai a migliorarti? Non c’è nessuna giustizia a tenere una persona in catene tutta la vita, sotto un certo punto di vista ce n’è di più quando la ammazzi subito.

E che dire della violenza della giustizia istituzionale del carcere? Inizio a citare voci più autorevoli e credibili delle mie:

- Il capo dello Stato Napolitano tra i detenuti: “Lo Stato viola la Costituzione”. La voce gli si incrina prima di entrare al sesto raggio, dove si vive in otto e più in celle da quattro. Commentando la condanna di Strasburgo Napolitano ha detto che rappresenta “una mortificante conferma dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”

(Corriere della Sera 7/02/2013).

- Napolitano: sulle carceri l’Italia  si gioca l’onore. (La Stampa 7/02/2013)

- Il capo dello Stato in visita a San Vittore “Le nostre carceri vergogna per l’Italia”. (Il Fatto Quotidiano

7/02/2013).

- Napolitano in visita a San Vittore. È la prima volta di un Capo dello Stato. “Situazione insostenibile” violata la Costituzione. In celle dove dovrebbero stare due persone ne vivono quattro o addirittura sei. E negli spazi pensati per ospitare sei detenuti coabitano in dodici. (L’Unità 7/02/2013).

Benché la violenza burocratica/ istituzionale stimoli indignazione in tutti i ceti sociali, c’è chi lo  ritiene un male necessario, ma non è così, perché se dal carcere si esce umiliati, offesi, arrabbiati, accecati dall’odio, intrisi di dolore è peggio per noi, ma è anche peggio per la società. Infatti:

- Misure alternative, l’unica cura efficace. Luigi Pagano (Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria): ”Abbattano la recidiva dell’80%” (Avvenire 7/02/2013).

Purtroppo il carcere in Italia è il luogo più criminogeno di qualsiasi altro posto, ed è come andare in un ospedale dove, invece di farti guarire dal male, finiscono per ammazzarti con altro male, sofferenza ed illegalità.

- Resta alta la tensione nelle carceri italiane. Nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno tentato il suicidio, 7.317 gli atti di autolesionismo e 4.651 le colluttazioni. 56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”. (Ansa, 10 marzo 2013).

 

 

 

La vita in carcere oggi è fatta sempre più spesso di parole e gesti violenti

 

La vita in carcere è caratterizzata oggi più che mai da forme di violenza: perché, in condizioni di sovraffollamento, le persone perdono la loro dignità, sono più sole, e difficilmente possono essere ascoltate. E allora, ogni cosa può diventare fonte di ansia e di paura: il linguaggio delle sentenze e di tutte le forme di comunicazione che la persona detenuta ha con chi rappresenta la Legge, i rapporti con l’amministrazione, che comunque è quella che ti tiene rinchiuso, la convivenza tra detenuti che spesso non hanno niente da perdere, e niente che li possa aiutare a controllare la propria aggressività.

 

 

In carcere a volte feriscono anche le parole

 

di Ulderico Galassini

 

Cosa fanno i genitori con i figli? Sin dalla tenerissima età ti parlano, vogliono trasmetterti con le parole le loro emozioni e con gesti, carezze, abbracci, baci dimostrarti tutto il loro amore.

Ma poi nella vita impari che sia i gesti che le parole possono anche farti male.

Un’educazione civile dovrebbe essere sempre quella che ti aiuta a comunicare con chiarezza e tranquillità, per farti conoscere, capire, collaborare con gli altri. In carcere invece capita di avere a che fare con comunicazioni per motivi di giustizia, sia orali che scritte, che non sono sempre chiare e trasparenti, e a volte danno adito a molteplici interpretazioni e quindi finiscono per scatenare reazioni aggressive e violente. Io lo sto sperimentando da quando sono diventato responsabile di un reato e nell’accostarmi alla lettura di istanze, atti giudiziari, comunicazioni da e tra Tribunali, valutazioni di psichiatri, psicologi,

amministrazione penitenziaria, mi accorgo che mi mettono in difficoltà e mi provocano ansia.

Il fatto poi di essere detenuto, e quindi privo di autonomia, di dipendere in tutto dagli altri, di non  poter in alcun modo essere padrone della mia vita, ecco che fa aumentare la sensazione di disagio, di impotenza, la frustrazione perché non hai nessuna autorevolezza per controbattere a certe imposizioni e non hai neppure la possibilità di un dialogo, perché solitamente tutto ti viene comunicato per iscritto, e per capire le comunicazioni che ricevi dovresti avere sempre al tuo fianco un avvocato. Ma l’avvocato non è li a tua disposizione, e non sempre hai i soldi per pagarlo, non sempre hai qualche volontario sensibile e disponibile che ti può aiutare. Ecco che anche certe frasi che leggi negli atti che ti riguardano diventano ferite, fonti di stress che devi digerire, portare avanti nel tempo sino a che, magari dopo mesi o dopo anni, ti vengono date delle risposte che spesso non sono neppure quelle che speravi. Con queste premesse l’unica parola chiara e che aiuta a continuare a muoverti in questo labirinto è: Pazienza!

Ma se uno non ce la fa ad aspettare, se si convince di non avere speranze, quali risposte si dà? Non è un caso che da alcuni anni le cronache delle carceri sono piene dei suicidi o degli atti di autolesionismo di tante persone che qui dentro si sono sentite perse. Ecco che anche i silenzi di chi non dà risposta alle tue richieste, le lungaggini burocratiche, l’illegalità diffusa dovrebbero essere fermati in tutti i modi, perché in un contesto carcerario di tali dimensioni si rischia col tempo di diventare più criminali di quando si è entrati. E allora chi gestisce le politiche della sicurezza con gli slogan “tutti in galera” e “buttiamo le chiavi”, e cerca di convincere tutti che aumentare le pene significa fare positivamente prevenzione, non dice la verità. La verità è che le persone che restano per anni “parcheggiate” in carceri senza essere ascoltate, senza essere seguite, senza essere considerate nella loro umanità, perché sono troppe, perché non c’è personale a sufficienza, da queste galere usciranno solo più pericolose.

 

 

Quando si è in troppi si diventa numeri

 

di Angelo Meneghetti

 

 

Nei diversi incontri che si svolgono all’interno del carcere discutiamo spesso dei nostri comportamenti violenti, e di come è possibile mettere sotto controllo la nostra aggressività. Essendo detenuto, mi è molto difficile scrivere e parlare della violenza, perché non c’è solo la violenza dei reati, la violenza DENTRO al carcere è una cosa reale, a partire dai rumori insopportabili di sezioni dove dovrebbero esserci venticinque persone e ce ne stanno settantacinque. Anche un mazzo di quelle grosse chiavi che ci rinchiudono, se cade a terra dà origine a un frastuono violento, figuriamoci poi il tono della voce di tanti detenuti o dei pochi agenti che dovrebbero tenere sotto controllo un numero così enorme di persone.

Sento dire: visto che siete detenuti, e spesso la violenza l’avete usata, dovete essere i primi a convincere gli altri che non si può vivere con la violenza. Sinceramente io credo sia impossibile, in quanto per la maggior parte i detenuti, al di là di quello che può essere il loro passato, cercano quasi sempre di non essere violenti, ma la situazione reale è spesso così insensata, che si trasforma in violenza pura. E capita così tante volte che si deve subire, e si è costretti a difendersi, che anche la pazienza non ti sorregge più, perché la pazienza ha un certo limite, oltre il quale rischi di reagire male.

A volte poi anche frasi scritte su carta, ad esempio qualche rigetto di una richiesta, “non si autorizza”, o “non è consentito”, ti distruggono, soprattutto se ti sembra che non abbiano un motivo valido, e che magari ti siano spiegate con parole del tutto incomprensibili. Non può essere anche questa violenza? No, non è violenza, ti senti dire, è la procedura di questo sistema, che tratta tutti come numeri perché siamo troppi, dunque devo rimanere in silenzio e cercare di riflettere senza reagire.

 L’educazione che mi è stata data da piccolo era di comportarsi bene, di studiare, di andare a messa alla domenica, di non litigare con i compagni di classe, di rispettare gli anziani, di non guardare mai gli altri con invidia. Da giovane ho sempre lavorato e ho imparato diversi mestieri, ma durante il percorso della mia vita ho conosciuto il carcere e vi ho trascorso diversi anni. Ho visto tante cose in questi anni, ed è qui che sorgono i miei dubbi. Si parla tanto di rieducazione, ma è una parola a mio avviso non del tutto giusta, colpevole o innocente che un detenuto possa essere si dovrebbe parlare di reinserimento, e pensare di più a un rientro graduale nella società, in quanto già sappiamo che vivere in carcere è una vita piena di violenza, dunque se si pensa di rieducare le persone tenendole solo dentro, sarebbe una rieducazione con violenza pura.

Oggi in carcere si vive in una situazione di sovraffollamento, le celle sono intasate da esseri umani e se non vuoi vivere in quella cella intasata sei punito. Un detenuto, nel corso della sua carcerazione, è sottoposto a cosi tante forme di illegalità, che è più che mai difficile che poi esca dalla galera sapendo controllare la sua aggressività. E quando le istituzioni ti dicono che se vuoi cominciare a uscire devi fare una riflessione critica più profonda sul tuo passato deviante, io mi faccio una domanda: chi te lo dice tiene presente la situazione reale che c’è nel carcere? Tengono presente che un detenuto subisce una condizione che è di degrado e illegalità tutti i giorni e sta vivendo nel modo più deviante che esista, ed è in questo sistema che dovrebbe reinserirsi nella società?