Contro la violenza, la bellezza di un disarmo unilaterale

 

di Ornella Favero

 

Se dovessimo mettere al centro del nostro lavoro di redazione una parola, io oggi metterei la parola DISARMO. Quando incontriamo gli studenti nel nostro progetto di confronto tra scuole e carcere, che ormai è diventato per noi la fonte di ogni riflessione importante, perché è un piccolo laboratorio di quello che dovrebbe essere nella società un dibattito vero sulla giustizia e sulle pene, noi cerchiamo in tutti i modi di parlare di questo disarmo necessario. Perché stando in carcere in mezzo alla violenza, la violenza fatta da chi ha commesso un reato, la risposta spesso violenta delle Istituzioni, che oggi tengono rinchiuse in condizioni di totale illegalità migliaia di persone, la violenza di una società che vorrebbe difendersi dal male con sempre più galera, abbiamo capito che se non si supera anche culturalmente questa idea, che alla violenza sia lecito rispondere con altra violenza, non se ne esce, non si fanno passi avanti verso una società più mite. Forse su nessuna questione come sulla violenza è facile avere la tentazione di essere in qualche modo “autoassolutori”, lo dico come persona che in un certo periodo storico stava dentro un gruppo della sinistra extraparlamentare che spesso giustificava l’uso della violenza come reazione alla violenza di Stato, conosco queste dinamiche, le ho vissute e poi alla fine io stessa ho contribuito all’autoscioglimento di quel gruppo, prima che fosse risucchiato inesorabilmente dal terrorismo. Io non credo che ci sia nessuna violenza esterna che possa comunque giustificare la nostra personale violenza.

Ai detenuti della mia redazione io chiedo allora di partire da sé, di avere il coraggio di dire: io sono stato un uomo violento, quindi sono finito in carcere, finito dentro a questa situazione perché ho fatto scelte violente. Se si parte da qui, da se stessi e dalle proprie responsabilità, diventa poi più semplice chiedere con forza alle istituzioni se davvero rispondere a un uomo violento con una pena ancora più violenta abbia un senso. Bandire la violenza anche dalle pene può diventare allora il tema che noi possiamo affrontare senza paura con gli studenti, nelle scuole, nella società: perché la pena di morte, la pena dell’ergastolo sono pene violente, e invece lo Stato deve dare una risposta mite alla violenza. È questa la base di tutto il nostro ragionamento, e noi dobbiamo batterci con convinzione per questo, per una giustizia mite, che al male risponda senza l’incubo di dover fare altrettanto male.

Ecco perché noi dobbiamo allora partire da una specie di disarmo unilaterale, e per noi intendo dire le persone detenute, e quelle che come me cercano di portare nella società un’idea diversa di pena. Se quelli che la violenza l’hanno usata accettano di partire dalla propria responsabilità, se hanno il coraggio di dire “noi l’abbiamo esercitata, la violenza”, possono poi davvero aiutarci a capire come sarebbe stato possibile non fare quel gesto violento, e dove poteva interrompersi quella logica perversa che ha portato a usare la violenza.

La domanda fondamentale è lì, che incombe: è possibile fermare la violenza? O meglio, è possibile allenarsi a “pensarci prima” e a non essere, in qualche momento della nostra vita, in balia dei nostri istinti violenti? Questo noi dobbiamo fare dal carcere, aiutare a capire quali sono i meccanismi che non hanno fermato le persone che ora sono detenute, ma che, se fatti funzionare bene, potrebbero fermare altri.