Ormai casa mia era diventata un luogo di tortura

Per me era la tana del lupo che attendeva il rientro della sua preda per sfogare qualsiasi stato emotivo. Io ero la preda e lui il lupo

 

di S., da Alterego, giornale della Casa di reclusione di Bergamo

 

La violenza che ho subito è stata sia fisica sia psicologia ed è questa che mi ha fatto più male, quella che mi ha segnato profondamente. Gli schiaffi, i calci e i pugni fanno male, ma dopo qualche giorno il dolore passa e si tende a dimenticarli, ma ciò che è il logorio psicologico segna molto più a lungo, forse per sempre, almeno questo è quello che è capitato a me.

Ho conosciuto mio marito quando avevo vent’anni, probabilmente troppo giovane per iniziare una relazione con un uomo sposato molto più grande di me. Nonostante il parere contrario di amici e parenti ho proseguito sulla mia strada. Ero innamorata, anche se il ruolo di amante avrebbe dovuto farmi riflettere su ciò che sarebbe stato il mio futuro. L’incoscienza della mia giovane età tentava di soffocare quelle voci che cercavano di sussurrarmi che un giorno sarebbe toccato a me di diventare “la donna tradita”.

Il vecchio detto che il lupo perde il pelo ma non il vizio si addiceva perfettamente all’uomo che sarebbe poi diventato mio marito. Ma, appunto, all’inizio della nostra storia non ci pensavo affatto e anzi vivevo la mia relazione con quell’uomo dai modi semplici e dagli sguardi furbi che mi aveva conquistata anche se talvolta era un po’ sfuggente. Io attribuivo quel suo modo di fare a una qualità del suo carattere. In realtà finii per scoprire che così nascondeva i suoi tradimenti.

La nostra storia d’amore è diventata completa dopo il suo divorzio dalla moglie perché potevamo viverla allo scoperto e all’inizio ci siamo divertiti tanto insieme, abbiamo vissuto in modo spensierato, eravamo quello che si dice una coppia affiatata e felice. Tra di noi tutto andava alla perfezione e dopo dieci anni passati a divertirci, abbiamo deciso che era arrivato il momento di acquistare una casa, andare a vivere insieme, progettando di riempire le stanze vuote di bambini. Purtroppo questo nostro desiderio non è stato esaudito e siamo rimasti sempre e solo io e lui, anzi io e le altre. Già le altre donne che frequentava, tradendomi di continuo. A ogni mia scoperta mi chiedeva perdono, si scusava riempiendomi di attenzioni e io lo perdonavo perché lo amavo davvero e mi sentivo persa al solo pensiero di vivere senza di lui.

Gli anni passavano e probabilmente l’amore che avevamo provato l’una per l’altro si era affievolito.

Quindi il solo volerci bene, la mancanza di un figlio, i continui tradimenti – a quel punto da entrambe le parti – mi hanno fatto pensare veramente a che cosa fosse diventata la mia vita e se volessi davvero continuare a viverla in quel modo.

Ho concluso che non potevamo proseguire senza nutrire né fiducia e neppure rispetto. Mi si prospettava davanti un futuro ignoto, ma ero disposta ad affrontarlo perché ho sempre creduto in me stessa avendo già superato prove difficili in passato, quindi ho chiesto la separazione da mio marito. Questo è stato l’inizio della mia fine.

Ovviamente si è opposto alla mia decisione, cercando di convincermi in mille modi ma ormai avevo deciso, nulla mi avrebbe fatto tornare sulla mia decisione. Da quel momento tutto è cambiato: lui ha provato prima a convincermi con le parole, poi con i regali e, infine, con le minacce. Piano piano la sua

docilità per riconquistarmi si è trasformata in rabbia e sete di vendetta perché non poteva accettare di venire abbandonato e ha iniziato a impartirmi torture sia fisiche sia psicologiche.

Le violenze che ho subito sono iniziate in modo sporadico, ma in breve tempo sono diventate sempre più frequenti e dolorose. Ho sopportato tutto reagendo in modo diverso a ogni attacco e mutando i miei modi di reagire di volta in volta, cercando i sistemi migliori per neutralizzare o almeno attenuare gli attacchi dell’uomo che avevo sposato. Ormai casa mia era diventato un luogo di tortura e tutto è sempre rimasto chiuso tra le mura domestiche.

Per me non era più un piacere vivere in quella casa acquistata tanti anni prima con tanti bei progetti da realizzare. Per me era diventata la tana del lupo che attendeva il rientro della sua preda per sfogare qualsiasi stato emotivo. Io ero la preda e lui il lupo.

Le violenze impreviste sono state le più terribili perché erano inaspettate e spesso non sapevo nemmeno da cosa scaturisse tanta rabbia che lui mi rivolgeva contro.

Aveva dei cambiamenti d’umore repentini che ho sempre cercato di giustificare in qualche modo, talvolta assumendomene le colpe, ma tutto questo non mi aiutava a sopportare meglio la situazione.

Nonostante il notevole svantaggio fisico, cercavo di reagire alle violenze fisiche con altrettanta violenza e poi, immancabilmente, soccombevo.

 

Alla sua rabbia rispondevo con un assoluto mutismo

 

Il momento peggiore che ho vissuto è stato il suo primo tentativo di strangolamento. Sentirmi mancare l’aria e pensare che stava arrivando la fine e chiedermi: Perché? Quale male avevo fatto per meritarmi quelle sue reazioni?

Quella volta, per fortuna, quando credevo fosse ormai arrivata la mia fine, lui aveva iniziato ad allentare la stretta. E non serviva a niente scappare e rifugiarmi in una stanza chiudendo la porta a chiave, perché la sua furia era tale che pur di entrare forzava la porta a calci e la sfondava.

Le sue parole contenevano solo odio, rabbia, cattiveria e crudeltà e giorno dopo giorno le sue frasi, i suoi insulti si sono insinuati nella mia mente e nei miei sentimenti.

Anche in queste situazioni cercavo di difendermi allo stesso modo che usava lui con me, ma le mie parole rispetto alle sue, mancavano di convinzione e non riuscivo a centrare il bersaglio come invece lui riusciva a fare nei miei confronti.

Col tempo ho cercato di affrontare questi episodi di violenza in modo diverso sino ad arrivare al silenzio e alla fuga. Quando lui iniziava ad alzare la voce o quando leggevo l’odio nei suoi occhi, uscivo di casa, spesso scalza o non vestita in modo adeguato, perché lui me lo impediva.

Altre volte la paura era tale che non rientravo affatto a casa e passavo le notti in qualche camera d’albergo sola con i miei pensieri e con le mie mille domande senza risposta. Ho adottato anche la tattica del silenzio, nonostante i suoi continui attacchi. Alla sua rabbia rispondevo con un assoluto mutismo. Non reagivo più, tanto sapevo che sarebbe stato inutile. Ogni volta mi chiedevo fino a quando sarebbe andata avanti quella vita così difficile, una vita che a chi non conosceva i veri risvolti sembrava normale, e sotto certi punti di vista forse anche invidiabile. Valeva per chi si fermava solo alle apparenze.

In realtà la mia vita era un inferno di cui nessuno conosceva la profondità e quindi la verità.

Di questa situazione avevo fatto solo qualche accenno alla mia famiglia, anche se cercavo di sminuire il più possibile la realtà per non fare preoccupare troppo le persone che tenevano veramente a me. Solo le Forze dell’Ordine sapevano la verità completa dei fatti perché ho chiesto loro aiuto più di una volta anche se non è servito a niente.

Il culmine della situazione è arrivato quando le minacce avevano iniziato a comprendere anche la mia famiglia. Probabilmente non si accontentava più di fare del male a me o, forse, la mia totale apatia con la quale affrontavo ormai i suoi attacchi, lo aveva spinto a trovare qualcosa che mi scuotesse e mi facesse provare ancora più timore delle sue azioni. Sapevo bene fin dove poteva arrivare, lo avevo provato sulla mia pelle e sapevo l’odio e la crudeltà che celavano le sue minacce. Tutto potevo permettere, subire, ma non che facesse del male a chi amavo di più al mondo.

La disperazione ti fa compiere azioni che al momento credi siano l’unica soluzione possibile, ma poi realizzi che può accadere anche l’imprevedibile e questo è ciò che è successo.

Ora mio marito non c’è più, ma questo non significa che io abbia dimenticato tutto quello che è successo, il mio corpo è guarito dalle ferite ma i miei ricordi no. Mi ricordo del passato quando sento qualcuno che usa i suoi stessi termini o il suo stesso tono di voce, oppure quando leggo la cattiveria negli occhi di qualcuno. Ricordo tutto e lo ricorderò per sempre.

 

 

 

 

Riflessioni in un momento di solitudine

Io sono la peggior nemica di me stessa, ma penso anche che un delinquente rimarrà sempre un delinquente, se a nessuno interessa vedere la persona che nasconde, se i doveri vengono sempre prima dei diritti

 

di Tania

 

Tanta gente trascorre la sua esistenza come se la vita si svolgesse in un teatro. Da bravi attori si passa da una parte all’altra, si indossano le varie maschere, si studiano gli schemi e, logicamente, ci si adegua al copione.

Il copione per chi sta in carcere si “intitola” ordinamento penitenziario e prevede che il ruolo da interpretare sia quello del bravo detenuto. È veramente stupefacente vedere come persone che fuori vivevano senza regole e senza punti di riferimento, intrappolate da quattro sporche mura riescano a travestirsi da bravi soldatini scrupolosi nell’attenersi alle regole, sempre pronti a mettersi sull’attenti e a prostrarsi alla sola vista di chi ha del potere. In tanti anni di carcere ne ho vista troppa di gente così e ho visto anche come il fine pena coincide per loro con il crollo del palco. Ci si lascia quella porta alle spalle e si ritorna ad essere quello che si era con qualche nozione e contatto in più da sfruttare per affinare le proprie inclinazioni delinquenziali. A cosa serve allora la galera in Italia?

Calcolando il tasso di recidiva statisticamente parlando mi viene da dire che davvero serva a poco, il senso di inutilità è forte. Io non sono un’attrice e non mi piacciono i copioni, spesso non so adeguarmi alle regole che non siano quelle non scritte che fin da piccola ho sempre rispettato. Posso anche essere una brava persona, ma non diventerò mai una brava detenuta. La galera mi ha nutrita di odio e frustrazione, in bocca sento il sapore del fiele e nello stomaco, per tutta la rabbia che provo, mi sembra che viva un’aquila sempre pronta ad aggrapparsi alle mie budella con i suoi artigli. A differenza di quando

avevo vent’anni le bombe cerco di farle implodere, ma inevitabilmente prima o poi una finisce per scoppiarmi in mano, e però chi si fa male sono sempre e solo io.

Per commiserarmi posso anche considerarmi una vittima del sistema, ma se parlo onestamente devo ammettere che sono la peggior nemica di me stessa in questo contesto, perché non so abbassare la testa, mi piace dire e fare sempre quello che la mia testa mi dice perché cosi mi sento vera, cammino a testa alta e se non piaccio non m’importa. Sono io la persona sbagliata o c’è qualcosa di profondamente sbagliato anche nel sistema giudiziario italiano?

Io ho 35 anni, sono cittadina italiana tossicodipendente, ho un bambino piccolo che a causa dei miei errori e iter burocratici lentissimi non vedo da anni… l’ho lasciato che era un pulcino e le foto di adesso lo ritraggono come un ometto. Mia mamma vive da sola, è anziana e ogni volta che ho la fortuna di vederla e sentirla non smette mai di ricordarmi di quanto avrebbe bisogno di me. Invece di sentir parlare di misure alternative alla detenzione, di depenalizzazione, di concessione di amnistia per affrontare il problema del sovraffollamento che riduce la maggior parte delle carceri in condizioni disumane, sento parlare di inasprimento delle pene. Non ho parole, ma solo rabbia, rabbia e rabbia. Rabbia verso me stessa che ho scelto una via sbagliata, rabbia verso le istituzioni che spesso sono sorde e cieche. Un delinquente rimarrà sempre un delinquente se a nessuno interessa vedere la persona che nasconde, se i doveri vengono sempre prima dei diritti. Invece di nuove carceri dovrebbero costruire monumenti alla dignità umana che niente e nessuno ha il diritto di calpestare. Da un seme di rispetto della dignità può nascere un fiore, la rabbia invece genera solo violenza.