Studenti “in visita” al carcere: un momento di scuola vera

Ma un’opportunità anche per i detenuti, che possono, nel raccontarsi, ritrovare la loro umanità

 

Chi passa nei paraggi della Casa di reclusione Due Palazzi, vede, ormai da anni, ogni giorno schiere di ragazzi che scendono dagli autobus, che si intruppano all’ingresso, che vengono accolti da agenti gentili e disponibili: sono gli studenti delle scuole, di Padova ma anche di altre città venete, che su iniziativa del Comune di Padova e di Ristretti Orizzonti entrano in carcere a confrontarsi con i detenuti. Studenti che ti fanno pensare che i giovani sono molto migliori di quello che tante volte ci mostrano certe trasmissioni televisive. Ma anche i detenuti, in questi incontri, sono “diversi” dai soliti stereotipi: non pongono al centro il disagio della loro condizione in tempi di sovraffollamento, ma accettano piuttosto la fatica di mettere a disposizione la loro esperienza negativa, perché almeno possa servire a qualcuno. Lo scambio di riflessioni tra un detenuto, Altin, e una studentessa, Federica, è un po’ il segno di questo incontro e confronto, che forse torna utile a tutti: agli studenti che possono vedere da vicino le conseguenze di certi comportamenti a rischio, ai detenuti che possono, nel raccontarsi, ritrovare la loro umanità.

 

Il confronto con i detenuti è la prevenzione migliore che si possa realizzare

 

Ciao Altin,

mi chiamo Federica e ci siamo conosciuti giovedì 24 febbraio, giorno in cui sono venuta con la mia classe a visitare il carcere. Molto probabilmente tu non ti ricordi di me e ti starai chiedendo il perché di questa lettera.

Non so da dove cominciare, sono tante le cose che vorrei dirti.. Ricordo le tue parole, e quelle degli altri detenuti, come se le avessi appena ascoltate, mi hanno colpito molto e soprattutto mi hanno dato l’occasione di riflettere profondamente. Questa è la prima motivazione per cui sento il desiderio di mettermi in contatto con te per ringraziarti. Ho ascoltato la tua testimonianza con molta attenzione, ma forse la cosa più significativa per me è stata il poter osservare la tua comunicazione non verbale. Le tue parole erano importanti, così anche le tue mani, che tremavano come la tua voce. Vedevo come alle volte fissavi un punto fisso, pensando (o meglio cercando) le parole migliori per poter raccontare la tua storia. Mi è piaciuta la semplicità con cui hai avuto il coraggio di esporti a noi, ai nostri giudizi. Credo che difficilmente dimenticherò le parole di uno di voi: “preferiamo avere dei giudizi, non dei pregiudizi”. Penso che questo valga per tutti, ma soprattutto per voi.

Credo di aver fatto una cosa molto importante quel giorno: ho lasciato i pregiudizi che avevo nei vostri confronti all’interno delle vostre mura, portando fuori la convinzione di dover conoscere le persone e i fatti prima di poter esprimere i miei giudizi.

Un’altra cosa mi è successa mentre uscivo dal carcere: ancora prima di salire in corriera, tra i mille pensieri, ho chiesto immediatamente alla mia professoressa di diritto se era possibile mettermi in contatto con qualcuno di voi perché ne ho sentito subito il desiderio. Credo che due ore siano state davvero poche per potervi conoscere; ad ogni vostra parola la mia mente si affollava di domande, a volte scontate ed altre delicate e difficili da porvi.

Ora credo che ti starai chiedendo perché tra tutti voi ho sentito il desiderio di mettermi in contatto proprio con te. Voglio provare a spiegartelo per quanto non sia del tutto chiaro nemmeno a me in quanto è il risultato di un insieme di emozioni, impressioni e sensazioni che non mi aspettavo di incontrare in quelle circostanze. Ho visto nei tuoi occhi la speranza e allo stesso tempo la paura, per un futuro davvero incerto. Io quest’anno sto frequentando la quinta superiore, quindi a giugno il mio percorso scolastico terminerà. Si aprirà un’altra fase della mia vita ed inizio a sentire la speranza di un futuro pieno di soddisfazioni, ma allo stesso provo sento molta paura che i miei desideri non si realizzino e di fare scelte sbagliate. Ho questo grande timore per quello che sarà il mio futuro, anche se non è nemmeno paragonabile al tuo. Devo anche dirti che la sera stessa della visita, appena tornata a casa, mi sono collegata ad internet per visitare il sito di “Ristretti Orizzonti” e ho letto con piacere i tuoi articoli. Ho colto la tua consapevolezza di aver commesso un errore e il tuo credere che sia giusto pagare per ciò che si è sbagliato. Tra le righe ho letto la voglia che hai di riscattare la tua vita, di poter dimostrare il tuo cambiamento, di poter tornare libero di compiere le piccole azioni quotidiane che il carcere nega, come ad esempio l’abbraccio delle persone a cui vuoi bene. Cose che noi persone libere di poterle fare ogni giorno, in qualsiasi momento, purtroppo diamo per scontate.

Sono convinta che queste iniziative di collaborazione con le scuole siano molto importanti per voi, e vi diano la possibilità di confrontarvi con persone sempre diverse, ma allo stesso tempo anche l’opportunità di far uscire dal carcere un’informazione che purtroppo i giornali e i mass-media non riescono a trasmettere in maniera completamente veritiera, favorendo lo sviluppo di inutili stereotipi.

Saremmo potuti stare delle intere giornate sui libri a studiare cos’è un carcere e tutte le sue leggi, ma credo che non sarebbero state altrettanto efficaci quanto voi. Sono convinta che la prevenzione migliore che si possa realizzare su noi giovani sia proprio questa, sicuramente più efficace di mille divieti. Quindi penso che questi incontri siamo utilissimi per voi ma soprattutto per noi, per farci prendere consapevolezza che le proprie scelte non riguardano solo noi stessi ma anche gli altri.

Per concludere, vorrei dirti cosa ho più apprezzato di te: la tua sincerità e il tuo coraggio nel cercare di non presentarti per quello che non sei. Penso che tu sia riuscito a trovare la forza di cambiare, di crescere, e di maturare in un ambiente non sempre favorevole a questo. Tengo a sottolineare che tutto ciò che ti ho scritto non vuole affatto essere un giudizio, ma una serie di considerazioni e pensieri che volevo condividere con te. Ti ringrazio tanto per quello che sei stato in grado, insieme agli altri detenuti, di trasmettermi con grande semplicità e umiltà.

L’augurio più sincero che mi sento ora di farti è quello di non smettere di trovare la forza e il coraggio di affrontare le situazioni che incontrerai nel tuo percorso, superando tutti gli ostacoli nella maniera migliore possibile, cercando la serenità che dovrebbe appartenere a tutti noi uomini.

 

Un caro saluto, Federica

Invidio il tuo futuro che ti aspetta con tutte le esperienze che la libertà ti offre

 

Ciao Federica

Ho ricevuto la tua bellissima lettera e ti assicuro che mi ha fatto molto piacere riceverla e leggere i sinceri apprezzamenti e giudizi che tu hai voluto condividere con me. Federica mi scrivevi che io probabilmente non ti conosco, è vero, ma adesso per lo più conosco i tuoi pensieri che condivido e apprezzo tantissimo. Questa lettera mi rende felice e orgoglioso per il fatto che la mia testimonianza ti ha dato l’occasione di riflettere profondamente, nel giudicare gli altri dal punto di vista del loro vissuto. Questo è proprio ciò che io e i miei compagni vogliamo trasmettere, come hai sottolineato tu noi tutti preferiamo i giudizi ai pregiudizi. Mi ha fatto piacere anche sentire da te che questa esperienza è stata più efficace di mille divieti, e molti insegnamenti dei libri, per capire cos’è un carcere e tutte le sue leggi, non sarebbero stati altrettanto efficaci quanto l’incontro con noi. Queste affermazioni mi rendono più determinato a credere in quello che faccio in questo progetto con le scuole, cioè che alla fine qualcuno si convincerà che anche un detenuto può fare qualcosa, se gli sarà chiesto, per gli altri e per se stesso.

È vero che in due ore è difficile conoscere tutto del carcere e le cause che portano le persone nel carcere, ma se veramente una persona vuole capire, fa come te, che subito dopo sei entrata nel sito di Ristretti Orizzonti e hai letto tutto ciò che ti incuriosiva su di me e sul carcere. Ho letto nella tua lettera che avevi voglia di fare tante domande che sono delicate e difficili da porre, adesso anche io sono curioso di sapere quali siano queste domande cosi delicate, e se ti fa piacere t’invito a scrivere le tue domande, affinché io e la redazione si possa in qualche modo risponderti. Federica, quando mi scrivi che hai visto le mie mani che tremavano come la mia voce… che hai visto nei miei occhi la speranza e allo stesso tempo la paura di un futuro davvero incerto… ho capito che non solo tu mi hai ascoltato con tanto trasporto, ma hai anche riflettuto con grande profondità. Nella tua lettera ci dimostri che sei una ragazza sensibile, il tuo intuito è davvero notevole nel leggere le apprensioni che ho, e che sono vere per quanto riguarda l’incertezza del futuro: è proprio come scrivi tu del tuo futuro, della paura di fare scelte sbagliate. Ed è giusto che tu abbia timore del futuro perché niente è scontato, quante volte nella vita si fanno dei progetti che per cause di forza maggiore imprevedibili, vanno persi.

È questo pensiero dell’incognita del futuro che mi rende consapevole che non sarà per niente facile. Per una serie di fattori che tu puoi immaginare, il mio passato sarà sempre un ostacolo, e bisogna ricordarsi che non sempre le persone cambiano opinione, niente è scontato. Se tu hai letto le mie testimonianze, ce n’è una che si intitola “Ho paura di essere costretto ad abbandonare i sogni che hanno riempito il mio tempo in galera”, dove scrivevo di un amico che era uscito dal carcere incontrando tante difficoltà. Quell’articolo esprime un po’ le mie paure e la mia consapevolezza nell’affrontare la vita per quello che è. L’importante è cercare veramente di dare uno scopo alla propria vita, trovando quella serenità di cui tu scrivi, che dovrebbe appartenere a tutti gli uomini.

Adesso ti saluto con tanta stima e devo confessare che invidio la tua gioventù, il tuo futuro che ti aspetta con tutte le esperienze che la libertà ti offre, per la semplice ragione che io tutto questo non l’ho vissuto.

Altin

 

 

Io in due anni non ho spiccicato una parola con gli studenti

 

di Andrea B.

 

Ma oggi vedo tra di loro un gruppetto di “teste calde”, capelli pettinati con creste ribelli, sorriso strafottente, battuta sempre pronta e quell’aria di superiorità e menefreghismo che conosco molto bene: io ero come loro!

 

Auditorium del carcere di Padova. Sono seduto su una vecchia sedia sgangherata e in fila, vicino a me, ci sono i miei compagni di sventura.

Di fronte a noi una cinquantina di ragazzi di quindici o sedici anni, sono gli studenti di un istituto professionale di Bassano del Grappa.

È una situazione strana, quasi paradossale: cosa avranno mai a che fare ladri, rapinatori, spacciatori e assassini con questi ragazzi?

Si tratta del “progetto scuole”, l’idea e la speranza è questa: mettere a disposizione dei ragazzi l’esperienza di vita dei detenuti, dargli modo di capire che le persone che commettono i reati non sono sempre dei mostri o dei predestinati. Il superare i limiti, la ricerca della trasgressione, sono atteggiamenti che si manifestano proprio in quell’età che è la loro, e spesso evolvono, precipitano, ma è un lento scivolamento di cui all’inizio nemmeno ci si accorge.

Noi siamo l’esempio tangibile, la prova provata che il carcere è l’inevitabile conclusione di una serie di scelte sbagliate, iniziate magari come un gioco, una bravata da adolescenti, e terminate in un dramma.

Io mi chiamo Andrea, ho 36 anni e gli ultimi cinque li ho trascorsi da detenuto.

Ne dovranno trascorrere altri cinque prima che possa tornare una persona libera.

La mia storia è difficile da raccontare, non ne ho mai parlato.

Sono quasi due anni che partecipo a questo progetto, vedo i miei compagni che con fatica raccontano la parte più brutta, più difficile della loro vita e lo fanno perché credono che, se anche uno solo dei ragazzi si fermerà a riflettere prima di compiere un gesto che potrebbe rovinargli la vita, sarà una gran cosa.

Dei detenuti che si mettono in gioco per fare prevenzione sui reati: è tutto qui il progetto, per noi non ci sono vantaggi, sconti di pena o trattamenti di favore, chi se la sente, chi crede sia giusto farlo, lo fa.

Io in due anni non ho spiccicato una parola ma oggi vedo tra gli studenti un gruppetto di “teste calde”, capelli pettinati con creste ribelli, sorriso strafottente, battuta sempre pronta e quell’aria di superiorità e menefreghismo che conosco molto bene.

Io ero come loro!

Voglio dirgli un paio di cose, quegli atteggiamenti mi sono fin troppo familiari, e so che mi hanno condotto in carcere. Vorrei con tutto il cuore che a loro non succedesse.

Sto per parlargli ma mi succede una cosa che non mi sarei mai aspettato: emozione, paura, imbarazzo, forse tutto insieme, non lo so ma la voce non mi esce.

Non ci credo, per anni ho rapinato banche, ho impugnato armi, spaventato e intimato a un sacco di persone di stare ferme, di non muoversi e di consegnarmi il denaro.

Ora invece sono qui davanti a dei ragazzini e sono bloccato, un nodo mi stringe la gola, la voce non esce e la mia spavalderia mi ha abbandonato.

Poi a un tratto la voce prende a uscire di getto, le parole che escono non sono il frutto di un pensiero meditato, è più uno sfogo istintivo, e così mi rivolgo al gruppetto ribelle apostrofando i ragazzi così: “Ascoltatemi testine, io ero come voi!”.

La mia uscita cattura subito la loro attenzione, gli racconto di quanto furbo mi sentissi e di come sia andata invece male la mia vita.

Sto pagando a caro prezzo i miei atteggiamenti e quel che mi fa più soffrire è che lo stanno pagando anche le persone che amo.

La loro unica colpa è di amarmi e di non volermi lasciare da solo, le vittime dei miei reati non sono solamente le banche e le persone che si trovavano lì, c’è anche la mia famiglia.

Alla fine dell’incontro questi ragazzi sono venuti a salutarmi e alcuni di loro mi hanno scritto.

Non posso sapere se le mie parole gli faranno cambiare atteggiamento, ma sono sicuro che, almeno per un attimo, la storia della mia vita sia servita a farli riflettere.

È servito anche a me, non ero abituato a parlare e confrontarmi, forse non sono poi così cattivo, magari un giorno potrò ricominciare ed essere una persona migliore.

Queste cose inizio a pensarle ora, ho scoperto che il disagio, se non riesci ad esternarlo, ti brucia dentro e ti rende solamente peggiore.

Non sono ancora certo di essere cambiato, non è così facile, ma grazie a questi ragazzi almeno sono sicuro che ci sto provando.

 

Qualche giorno dopo l’incontro raccontato da Andrea, ci è arrivato un messaggio di un’insegnante dell’Istituto di Bassano del Grappa:

Volevo dirvi che l’incontro di giovedì è stato molto interessante e come sempre significativo per i ragazzi e noi insegnanti. A riprova di ciò il pomeriggio stesso, in cui avevo il ricevimento generale dei genitori, molti di loro mi hanno riferito che i propri figli avevano parlato in famiglia dell’esperienza, vissuta come qualcosa che li aveva profondamente colpiti. A tale proposito, devo dire che l’intervento molto di sfogo e di istinto di Andrea ha colto nel segno. Noto che esperienze di questo tenore sono tra le poche che riescono a scalfire l’apatia e l’indifferenza dei ragazzi.

Complimenti quindi per il vostro progetto. Un caro saluto alle persone che c’erano.

Alessandra Bianchin, insegnante Ipsia Scotton di Bassano del Grappa.

 

 

Esplorando il mio passato rielaboro le cose peggiori che mi sono capitate

Ritornando su certi fatti di cui siamo stati attori, riusciamo a capirne tutte le dinamiche e a individuare le responsabilità disattese

 

di Bruno Turci

 

Stavo seduto sulla sedia sistemata nella fila, schierata di fronte agli studenti, e guardavo i volti di quei ragazzi, così giovani, mi sembrava di avere davanti i miei nipoti. Era la prima volta che mi sedevo di fronte ai ragazzi delle scuole superiori che entrano in carcere, qui a Padova, per incontrarsi con noi detenuti nella redazione di Ristretti Orizzonti. Ero emozionato a vederli entrare in redazione con quella loro curiosità tipica dell’età, mista al timore della scoperta, carichi di quell’energia giovanile che rende l’approccio più facile. Pronti a vivere la loro avventura con il carcere. Anche oggi, spesso, li osservo per cercare di decifrare nelle loro espressioni la reazione al carcere, l’impressione che ne ho ricavato è che spesso mi paiono più incuriositi che impressionati.

Avevo già incontrato alcune volte gli studenti nelle scuole quando mi trovavo detenuto a Milano-Opera, ero stato nelle scuole con un gruppo che si occupa dei ragazzi con problemi di “sconfinamento” in comportamenti a rischio come il bullismo e l’uso di droghe. Tuttavia, a Milano gli studenti non entravano in carcere come succede qui a Padova. L’incontro in carcere lo trovo molto importante per prepararli a misurarsi con la vita. Il carcere aiuta a identificare le dinamiche da cui guardarsi per stare lontani dai guai: i giovani, che nella scuola di oggi possono trovarsi il compagno di banco che compie piccole trasgressioni, se hanno avuto un incontro con noi, sono preparati anche per dare una mano ai loro compagni che hanno difficoltà a chiedere aiuto.

Ogni incontro suscita emozioni nuove, è una scoperta ogni volta. Gli studenti hanno un modo di approcciarsi con noi che è di solito privo di pregiudizi e soprattutto privo di qualsiasi barriera che definisca la distanza da noi. Questo forse anche grazie alla nostra disponibilità che li mette a loro agio e li rende coscienti di uno scambio genuino.

Quello che mi colpisce ogni volta delle ragazze e dei ragazzi è che loro mi pare che capiscano tutto di quello che noi gli trasmettiamo, hanno un’enorme capacità ricettiva. Sanno ascoltare e fanno domande. Loro partecipano prima a un incontro nelle scuole in cui alcuni detenuti della redazione si recano con un permesso per confrontarsi con le classi, successivamente la classe che ha incontrato gli studenti nella scuola a sua volta entra in carcere per incontrare i detenuti della redazione.

Sono incontri in cui non si capisce bene se ne beneficiano di più gli studenti o noi detenuti. So solo che a me fanno molto bene questi scambi, rispondere alle domande degli studenti mi permette di ritornare su quelle realtà che riguardano il mondo che mi ha portato qui dentro, per cui esplorando il mio passato mi è possibile rielaborare le cose peggiori che mi sono capitate. Ritornando su certi fatti di cui siamo stati attori, riusciamo a capirne tutte le dinamiche e a individuare le responsabilità disattese.

Io ho visto crescere la mia responsabilità, ho ritrovato il piacere della responsabilità attraverso la rielaborazione del concetto di libertà, e la consapevolezza che non vi è libertà senza responsabilità. La libertà è un concetto così alto che non lo si può confondere con l’esercizio della libera scelta, la libertà è anche il senso di appartenenza all’interno di una condivisione di valori universali con gli altri.

È un senso di appartenenza che ci consente di riconoscere l’altro e di essere parte del tutto.

La libertà è il sogno più grande per un detenuto, ma la libertà che conosco oggi è molto diversa dalla libertà che apprezzavo nel mio passato, perché in realtà non ero affatto libero, mi ero rinchiuso in una prigione di cui non riuscivo a vedere le sbarre alle finestre e le mura di cinta. Non riuscivo a vederle perché le aveva costruite un demone di cui non conoscevo l’esistenza, che si occultava abilmente in me. Lo avevo inventato io, senza averne coscienza. Era una specie di virus, come quelli che sconvolgono i sistemi operativi del computer.

Oggi mi sono liberato di quel virus. Questo lo devo anche al volto pulito e alla splendida energia degli studenti e al confronto che abitualmente si svolge con loro. Un confronto in cui decidono di mettersi in gioco uomini come noi, che hanno vissuto esperienze forti nella loro vita e ad un certo punto capiscono che per superare certe barriere diventa necessario condividere con altri quelle esperienze, anche profondamente negative, per potersi godere il piacere della responsabilità, nella libertà di esserci con la testa e il cuore.

 

Circa un mese fa c’è stato un incontro con gli studenti a cui hanno partecipato anche i genitori di alcuni di loro.

Mentre ci si salutava con i ragazzi e i docenti, alla fine dell’incontro, mi ero soffermato a scambiare delle opinioni con una signora che pensavo fosse un’insegnante della classe. La signora mi ha spiegato, invece, che lei era la madre di una ragazza, una studentessa che si è avvicinata subito dopo, e la cosa mi ha impressionato molto favorevolmente, tanto più quando ho scoperto che c’erano altri genitori dei ragazzi che avevano partecipato. Sono stato davvero contento di questa capacità di un genitore di partecipare alla vita di un figlio con tanta coscienza. È stata una scoperta. Mi è piaciuto e mi ha gratificato moltissimo, significa che quei genitori apprezzavano i nostri sforzi per riuscire a trasmettere ai loro figli qualche esperienza che potrebbe essergli utile nella vita.

Un giorno, durante un incontro, uno studente ci ha domandato se intendiamo continuare a raccontare le nostre esperienze anche fuori dal carcere, dopo che avremo finito di scontare la pena. Insieme a qualcun altro della redazione ho risposto anch’io, e ho spiegato che il tempo del mio contributo è questo, per quel che riguarda il mettere a disposizione degli altri il peggio della mia vita, e quando sarò tornato fuori, a casa mia, sarà invece il tempo per dare un altro tipo di contributo alla società, trovando un mio ruolo per contribuire a lasciare un mondo migliore a chi verrà dopo di noi.

 

 

Oggi non vado al campo sportivo

Parlare con i ragazzi delle scuole mi fa sentire davvero libero. Ed è un privilegio per cui vale la pena sacrificare la partita del martedì, anche se so che ci rimetto in salute

 

di Elton Kalica

 

Primavera in galera

 

A volte penso che il sole sia particolarmente affezionato alla nostra sezione, altrimenti non si spiegherebbe come mai ci faccia visita per ben due volte al giorno, soffermandosi a lungo. In realtà è il corridoio che, avendo alle sue estremità una finestra orientata verso est e l’altra verso ovest, accoglie volentieri i raggi solari, e su questo ha tutta la nostra comprensione dato che anche noi, silenziosi abitanti della sezione “studenti” del carcere, preferiamo di gran lunga restare in corridoio, approfittando di una concessione della direzione del carcere che lascia le porte delle celle aperte, dalle otto del mattino fino alle otto di sera.

In realtà, la presenza del sole in corridoio non è tanto costante durante l’inverno. Il freddo invade presto queste parti d’Italia, ed essendo in pianura la nebbia campeggia trionfante per tutta la stagione. E poi, il sole con la sua pigrizia invernale usa sollevarsi tardi. E anche nel caso in cui abbia voglia di estendere i suoi raggi infreddoliti nel nostro corridoio, lo fa quando ormai noi abbiamo già lasciato la sezione per andare da un’altra parte del carcere, dove c’è una redazione e facciamo un giornale.

Oggi fa caldo. L’inverno è scivolato via e noi, all’improvviso, ci siamo ritrovati con il corridoio illuminato e riscaldato da un sole primaverile voglioso di abbracciare tutto, compresi noi detenuti. Attirati dal luccicare del sole sul pavimento, ci siamo avvicinati alla finestra e come trasportati da un amore collettivo, abbiamo chiuso gli occhi offrendo il viso al tepore di una mattina di marzo. Poi l’agente ha detto che era l’ora di andare in redazione.

Dopo due ore siamo ritornati, ma ormai in corridoio non era rimasto nemmeno un raggio. L’ambulatorio però era pieno degli stessi raggi solari e, dato che non c’erano visite mediche, ci siamo infilati dentro, abbiamo aperto la finestra e siamo stati lì con le facce all’insù in cerca della stessa sensazione primaverile.

Dopo il pranzo siamo andati di nuovo in redazione per le due ore pomeridiane, e quando siamo ritornati in sezione abbiamo ritrovato il sole, ma questa volta entrava dalla finestra opposta del corridoio, proiettando sul muro e sul pavimento la solita ombra quadrata delle sbarre. E noi ci siamo affacciati di nuovo alla finestra, coprendoci di luce a quadrati e guardando il verde lontano, oltre le mura.

 

Una “giornata tipo” in redazione

 

“Scuole o passeggi?” chiede l’agente. “Scuole” è il modo di chiamare un’area del carcere che raccoglie non solo le aule scolastiche, ma anche tutto il resto delle attività culturali, come la biblioteca, la nostra redazione del giornale e altri corsi. Invece per passeggi si intende il cubicolo di cemento dove si può andare per sgranchire le gambe. I cubicoli sono cinque costruiti in fila, e ogni piano ne ha uno. Il nostro cubicolo è il primo, quindi a ridosso dell’edificio di cinque piani. Poi le altre aree seguono in una fila che si allontana sempre di più dall’ombra del carcere. Questo per noi è considerato una vera sfortuna, poiché abbiamo tre file di finestre sopra la testa e spesso dalle celle vola giù la spazzatura.

Per quelli che vanno all’area dei passeggi nelle due ore della mattina, c’è a disposizione un sole che riesce a scaldare gran parte del quadrato. Però, all’una e mezza, l’orario in cui ci si potrebbe andare di nuovo e starci fino alle tre, i raggi del sole cadono solo su un triangolo dell’aria, che si riduce velocemente, inseguito dall’ombra dell’edificio sovrastante. E a quel punto ci si ritrova all’ombra, aspettando l’ora del ritorno in cella.

Dico all’agente “scuole!”, e mi unisco al gruppo dei detenuti che aspettano di andare ai passeggi. Durante la stagione fredda, la maggior parte preferisce rimanere in cella, steso al caldo della branda, mentre ora vedo che al richiamo del bel tempo hanno risposto in tanti. Quando arriviamo al corridoio del pianoterra le nostre strade si dividono: loro si dirigono verso i passeggi e io verso la redazione, dove ci aspetta un incontro con una classe di liceali.

In redazione trovo altri detenuti scesi prima di me dai piani. Cominciamo a svuotare la stanza delle riunioni per preparare l’incontro. Quindi via i tavoli lunghi. Giù le sedie. Quattro lunghe file dove potranno sedersi una dozzina di ragazzi per fila. Di fronte a loro, una linea di sedie per noi, che pazientemente dovremo rimanere seduti tutto il tempo dell’incontro. Nel frattempo continuano ad arrivare anche altri compagni, che sono stati fatti uscire in ritardo dalle celle.

Molti si salutano, chiacchierano nell’attesa. Ornella, la direttrice del giornale, invita al silenzio, ma a parte qualcuno che si siede subito, quelli che stavano discutendo si limitano solo ad abbassare la voce, continuando nella complicità dei loro sussurri.

“Allora, mentre aspettiamo, qualcuno prenda il pennarello e scriva le date dei prossimi incontri”, dice Ornella. Vado alla lavagna e prendo nota: giovedì mattina Liceo Curiel, venerdì mattina Liceo Marchesi. La settimana si chiude con due incontri. Poi Ornella continua, “martedì della prossima settimana istituto Marconi, mercoledì pomeriggio Liceo… lascia stare che stanno arrivando!”, annuncia smettendo di dettare., e all’improvviso l’ingresso della stanza si riempie di studenti che entrano esitanti, mentre io vado a prender posto vicino agli altri detenuti. Pochi minuti e cala il silenzio. Ragazzi e ragazze ci guardano incuriositi dalle sedie sistemate con ordine. La fila di noi detenuti è più disordinata. C’è che guarda il vuoto, chi osserva i ragazzi e chi fissa un punto sul pavimento, nascondendo lo sguardo. Mentre Ornella introduce l’incontro, io guardo i ragazzi uno per uno, senza fretta. È una tecnica che utilizzo recentemente per non emozionarmi nel momento in cui dovrò parlare, e quindi cerco di prendere confidenza con i loro visi e ripeto con la voce della mente che loro non sono degli sconosciuti, che devo stare calmo, non mi devo emozionare ma devo parlare piano e senza balbettare.

 

Una classe di ragazzi curiosi

 

I ragazzi non trovano subito il coraggio di farci delle domande, allora iniziamo a raccontare le nostre storie. Ulderico racconta la sua vita serena da direttore di banca, finché non iniziano i problemi in famiglia, per la depressione della moglie, e poi sul lavoro, e lui comincia ad abusare di psicofarmaci, fino a perdere il contatto con la realtà, ma soprattutto perdere il controllo di sé, compiendo un atto tragico. Altin racconta come è nata in lui la pessima abitudine di portare sempre con sé un coltello, convinto di usarlo solo per difesa, fino al giorno in cui, durante una rissa, uccide un altro ragazzo, ed ora da diciassette anni sconta una condanna che di anni ne prevede ventisei. Filippo racconta i suoi trascorsi di tossicodipendente e i suoi reati che da trent’anni lo portano dentro e fuori tra carcere, comunità di recupero, tentativi continui di uscire dalla droga.

Ascoltate le storie, Ornella invita i ragazzi a fare delle domande, e loro partono: uno vuole sapere il rapporto di Ulderico con il figlio; una ragazza vuole capire se ad Altin era mai passato per la testa che quel coltello l’avrebbe usato un giorno; un altro chiede a Filippo se attualmente si considera uscito dalla dipendenza. Le risposte sono pesate, chiare, e soddisfano i ragazzi. Poi uno chiede come immaginiamo il giorno in cui usciremo. Decido di rispondere. Mi mancano circa otto mesi al fine pena, e la febbre della libertà è già iniziata da un bel po’. Allora inizio a raccontare la mia storia. Descrivo come, senza nemmeno rendermi conto, all’età di vent’anni mi sono trovato con una condanna lunghissima; spiego come in quattordici anni trascorsi qui dentro, le mie relazioni affettive si sono ridotte a dieci minuti di telefono settimanali con i miei genitori, e qualche colloquio sporadico con mia madre, quando riesce ad avere un visto; racconto come il mondo che ho lasciato fuori era il mondo di un ventenne, con amici ventenni e una ragazza di diciott’anni, e che il mondo che mi attende sarà un mondo che pretende che io mi comporti da trentacinquenne, in casa, al lavoro e con gli amici; spiego insomma tutte le paure che il futuro proietta nella mia testa, che è rimasta lontana dal mondo terribilmente a lungo.

Sono contento della domanda poiché credo di aver fornito una fotografia abbastanza eloquente della galera, e ora possono capire che passare quindici anni in carcere nulla ha a che fare con l’immaginario eroico che molti film hollywoodiani spesso creano. D’un tratto, mentre osservo i loro sguardi attenti, penso che, se mi ascoltasse qualche arrabbiato esponente di partiti che credono che il carcere dovrebbe essere un luogo dove “marcire” fino alla fine della pena, manifesterebbe il suo disappunto ricordandomi che comunque sono stati quindici anni in una cella a cinque stelle, perché qui ho perfino la televisione e tre pasti caldi. Ma nessuno mi fa questa obiezione e sento gonfiarmi il cuore dalla gioia di vedere dei ragazzi che mi convincono che le persone ragionevoli e intelligenti esistono ancora.

La presenza degli agenti alla porta ci ricorda che le due ore sono terminate. Gli studenti ci regalano un applauso. Certamente battono le mani in segno di gratitudine, ma l’applauso non spiega i veri motivi di questa riconoscenza, e allora ognuno di noi si prende la libertà di dare una sua spiegazione. A me piace pensare che hanno apprezzato le nostre testimonianze perché sentono di aver arricchito la loro conoscenza, di aver appreso almeno una cosa importante: che la galera c’è, esiste, e oggi, come mai prima d’ora, ci vuole davvero poco per finirci. 

 

Ancora sole

 

Torno in sezione pensando all’incontro. Ho l’impressione di aver visto una bella classe, attenta, curiosa. Le domande che ci hanno fatto erano ragionate. Si vede che dietro ci sono degli insegnanti bravi a preparare i propri alunni a partecipare anche a discussioni difficili.

In fondo al corridoio, il pavimento lancia un abbagliante riflesso del sole. Raggiungo la finestra calpestando la macchia scintillante e sollevo il viso verso il cielo. “Occhio che rischi di prendere un’abbronzatura a quadrati”, mi dice D. mentre si accende una sigaretta. “Non mi importa” rispondo io, “sento che ho bisogno di ristabilire un contato con questi raggi”.

“Ma perché non andiamo al campo martedì?” mi domando.

“Perché abbiamo una scuola in redazione”, rispondo io, ma già comincia a prendere forma l’idea che in fondo potrei pure andarci.

Il campo sportivo è un campo da calcio dove ogni sezione può andare una volta a settimana. Il nostro turno sarebbe il martedì, ma l’orario è sempre quello dei passeggi e delle scuole. Quindi all’una e mezza l’agente chiede “passeggi, scuole o campo?”, e uno deve decidere a cosa rinunciare. Ho sempre rinunciato alla partita a pallone, ma questa volta la tentazione è grande. “Sai che hai ragione... martedì andiamo al campo”, rispondo deciso.

“Non so perché, ma non ti credo”, mi prende in giro D., che poi mi domanda, “saranno nove anni che vai in redazione, quante volte sei andato al campo il martedì?”. Non rispondo. Non ce n’è bisogno. “Comunque voglio vedere se per una volta rinunci alla redazione, sono pronto a scommettere” mi sfida, mentre io continuo a guardare il sole, immaginando il giorno in cui non avrò più i quadrati delle sbarre proiettate sul viso.

 

Il martedì: partita di pallone o ancora scuole?

 

Come ogni martedì, i più giovani della sezione si preparano per la partita a pallone. C’è chi si mette delle vere scarpe da calcio. C’è chi ha perfino i pantaloncini e la maglietta della squadra del cuore. Altri indossano colori che fanno pensare piuttosto ad una giornata in spiaggia, ma lo spirito è comune. Diversi sono impegnati lungo il corridoio in scomposte posizioni di stretching.  

“E allora sei pronto per il campo?” mi chiede D. entrando nella mia cella. Non rispondo. Sulla branda rimane piegata la mia maglietta a strisce nere e azzurre dell’Inter. Esco e mi unisco agli altri. “Passeggi, scuole o campo?”, mi chiede l’agente al cancello. “Lui scuole, io campo”, sento la voce di D. dietro il mio orecchio.

Arrivato in redazione, mi accorgo che siamo già una ventina di detenuti. Dietro di me arrivano due classi. Sono tutti maschi. É una scuola professionale e l’atteggiamento di molti di loro fa intuire un ambiente “agitato”. All’introduzione di Ornella appaiono composti. Ascoltano con una certa attenzione Marco mentre racconta la sua storia di tossicodipendenza, di come ha iniziato ad usare la droga, di come poi, per riuscire a pagarsela, si è messo a spacciare, e di come ora, dopo anni di dipendenza e poi di latitanza, stia pagando non solo con la galera, ma anche con tutti i problemi di salute che l’utilizzo degli stupefacenti causa a lungo termine. Segue la storia di Sandro, che racconta la sua idea di “bella vita” da giovane, le rapine in banca, e poi il carcere, da trent’anni.

Molti dei ragazzi sono attenti, ma in altri il livello d’attenzione si rivela più basso, qualcuno chiacchiera. Allora Ornella li invita a fare delle domande. Si innesca una “consultazione” generale. Molti parlano con il compagno affianco, si agitano, scivolano nelle sedie per diventare invisibili. “Dai ragazzi, tirate fuori il coraggio e discutiamo”, dice Ornella, “pensate che ci sono anche nelle vostre compagnie comportamenti che potrebbero diventare rischiosi?”. Altre consultazioni, commenti sottovoce, sorrisi complici. La domanda di Ornella è strategica. Una tecnica che spesso funziona perché i ragazzi sono portati a dire “non io, ma conosco uno che ha cominciato a fare questo o a fare quello...” e allora noi abbiamo l’appiglio per intavolare una discussione su quanto sia rischioso quel particolare comportamento. Ma in questa classe sembra che nessuno voglia sbilanciarsi. Finché Andrea lancia alcune frasi che riempiono tutta la sala e attirano l’attenzione di tutti i presenti. Essendo di queste zone, conosce il gergo che usano i ragazzi da queste parti dell’Italia, e dopo solo un paio di frasi, come per magia, cala il silenzio.

Andrea si rivolge al gruppetto più scatenato di ragazzi guardandoli negli occhi, e gli racconta che anche lui era esattamente come loro, furbo e strafottente, che trovava sempre un motivo per ridere e sbeffeggiare tutti in qualsiasi situazione, ma che ora, qui dentro, ha smesso di fare il furbo. “Accetto le umiliazioni di tutti i giorni e sto zitto”, dichiara ai ragazzi, “perché sono costretto a chiedere il permesso per andare in doccia e devo chiedere il permesso per telefonare a casa, e se l’agente mi dice di no, sto zitto, perché qui dentro non conviene fare lo strafottente”. Vedo gli studenti che lo guardano attenti, mentre Andrea continua a spiegare come nemmeno in galera aveva realizzato veramente di essersi bruciato la gioventù, finché non si è messo ad ascoltare in redazione i racconti degli altri detenuti, e a riflettere; mi viene da sorridere perché i ragazzi, quelli che sembravano davvero incontenibili, ora sono stati disarmati con le loro stesse armi, spogliati di quell’aria da bulli che avevano fino a pochi minuti fa, e ora ascoltano senza perdere una parola di questa che è davvero una “lezione di vita”.

Quando Andrea finisce, vedo sollevarsi diverse mani. Vogliono sapere com’è il primo impatto col carcere, perché qualcuno finisce per suicidarsi, come sono i rapporti con la famiglia, se si litiga tra di noi, ed altre domande simili. Sono entusiasta del loro interessamento, perché so che più si incuriosiscono, più conoscenze accumulano su questo posto orrendo, maggiore è la speranza che imparino a starsene alla larga. Io rispondo alla domanda sul rapporto con la famiglia, e racconto come ci siano voluti due anni per lenire l’ira di mio padre, che non mi ha mai perdonato ciò che ho fatto, e come l’unica persona che viene a trovarmi sia mia madre, in media una volta all’anno.

Il tempo finisce mentre ci sono altre mani alzate e Ornella invita i ragazzi a mandarci le loro domande per iscritto. Ci salutiamo. La scolaresca se ne va. Subito dopo, raccogliamo le sedie e rimettiamo i tavoli al centro. Domani ci sarà riu­nione di redazione.

 

Ho perso la scommessa

 

Ritorno in sezione che penso ancora a come Andrea è riuscito a far ragionare i ragazzi. In corridoio trovo un gran movimento. Tutti si affrettano per cambiarsi ed andare in doccia. Sono di ritorno dal campo sportivo e non possono correre il rischio che finisca l’acqua calda mentre sono ancora sudati. La finestra è di nuovo piena di sole, quindi mi appoggio per ricevere la mia solita dose di abbronzatura.

“Qualcuno qui ha perso la scommessa”, sento la voce di D. vicino a me. “Eh, sapevo che non avresti mollato la redazione”, conclude.

“È vero!” rispondo, “non riesco ad allontanarmi da quel posto nemmeno per un giorno”. Penso a quante ore ho trascorso in quella redazione. Mi viene in mente il primo giorno in cui vi ho messo piede. È stato come innamorarmi. Venivo fuori da cinque anni di un regime carcerario in cui si poteva uscire dalla cella solo per andare al cubicolo dei passeggi. Niente scuole o redazione, niente professori o volontari. Solo partite di carte, discorsi di malavita e litigi per cose banali, e una guerra continua con gli agenti che mi sembravano interessati solo a riaffermare il loro potere.

Dopo solo un paio di giorni in redazione, ho capito subito che si trattava di uno spazio diverso. E a distanza di nove anni, sono ancora convinto che la redazione non è galera, non tanto per l’arredamento, per i computer o per gli scaffali pieni di libri e di riviste, quanto invece per le dinamiche diverse che si sviluppano all’interno. Fare riunioni, preparare interviste, approfondire argomenti su cui scrivere articoli, discutere e litigare su un concetto emerso durante la riu­nione, sono tutte dinamiche che contrastano la classica realtà del carcere: in redazione non ci sono domandine e non ci sono concessioni, non ci sono imposizioni e non c’è obbedienza, c’è invece un quotidiano riappropriarci di quella cultura propria del rispetto delle persone, della quale siamo costantemente spogliati, sin dal momento dell’ingresso in carcere.

“Sai perché non posso mancare dalla redazione?” chiedo a occhi chiusi, con la faccia all’insù. “Ora ti spiego. Per anni abbiamo scritto articoli e li abbiamo pubblicati sulla nostra rivista, ma sentivamo che c’era qualcosa che non andava. Poi abbiamo fatto il sito internet, per essere al passo coi tempi, ma ancora ci mancava qualcosa. Abbiamo aperto anche un profilo su Facebook, dove abbiamo più di duemila amici, ma non era questa l’informazione che avevamo in mente. Poi ci siamo accorti che, nonostante la tecnologia abbia rivoluzionato il modo di fare informazione, per il tipo d’informazione che vogliamo fare noi, la forma migliore di comunicazione rimane l’incontro diretto con le persone. Così abbiamo deciso di ritornare al metodo più antico usato per trasmettere conoscenza: raccontare storie. Come si faceva quando le persone si riunivano intorno al fuoco, e tutti raccontavano storie, vicende, leggende, ci siamo accorti che raccontando personalmente le nostre vicende, i nostri disastri e le nostre sofferenze, riusciamo ad informare i ragazzi meglio di quanto possa fare ogni pagina, che sia su internet o stampata su carta. Perché se ci guardano negli occhi e ascoltano la nostra voce, capiscono meglio i pericoli che nascondono certi comportamenti”.

“Va bè” mi interrompe D. “ho capito che fare del bene agli altri ti fa sentire meglio, ma anche una partita di pallone ti fa bene ogni tanto, no?” continua a provocarmi.

“Guarda, sicuramente parlare con i ragazzi mi fa sentire meglio, ma non perché mi sento un benefattore,” rispondo, “se questi incontri mi appassionano in modo particolare è anche perché, mentre siamo tutti seduti di fronte a loro, io guardo i miei compagni e non vedo dei detenuti ma delle persone. In quel momento non siamo più numeri di matricola e il potere dell’istituzione rimane fuori dalla porta della redazione. Quando ragioniamo con loro, non siamo più diversi, non siamo più i cattivi, i mostri. Siamo persone, con una brutta storia da raccontare, ma sempre persone. Ed è una cosa importante per me vedere che nessuno in quella stanza pensa di ricordarmi che sono un detenuto, che devo soffrire, che devo espiare e che mi devo redimere, o sentire che nessuno mi tratta con altezzosità o minaccia punizioni disciplinari. Parlare con i ragazzi mi fa sentire davvero libero. Ed è un privilegio per cui vale la pena sacrificare la partita del martedì, anche se so che ci rimetto in salute.” concludo la mia riflessione. Poi mi ricordo che a rimanere fermo a lungo rischio davvero di farmi un’abbronzatura a quadrati. Mi sposto di pochi centimetri senza aprire gli occhi e sento D. che fa un respiro prolungato.

“È chiaro che ormai ti sei fissato con quella redazione e idealizzi qualsiasi cosa fai, ma ti dico una cosa, quando uscirai di qui, non ti daranno da mangiare le scolaresche, e dovrai andare a lavorare, e per farlo dovrai essere in salute”, dice D. con tono contrariato e si allontana. Mentre io rimango aggrappato alle sbarre della finestra, in compagnia del sole di primavera che mi riscalda, mentre penso a cosa farò il prossimo martedì.

 

Un ripasso “autoconvincente” sul progetto tra carcere e scuola

Perché davvero è così difficile raccontare la propria esperienza, che ogni volta bisogna prima convincersi dell’importanza di questo progetto

 

di Filippo Filippi

 

Perché io, persona detenuta tossicodipendente, ritengo che il progetto carcere/scuola sia così importante per me?

BÈ, innanzitutto è un modo per poter vedere un po’ di gente libera, giovane ed “in borghese”. Inoltre… è un probabile modo per tentare di andare in permesso. E per giunta, una volta superati l’iniziale timidezza e l’imbarazzo comprensibilmente reciproco, è anche un modo per rivisitare (via via raccontandosi) le proprie disgraziate e gravi o gravissime cazzate, le miserevoli storie vissute e i reati commessi, dei quali talvolta intimamente ci vergogniamo.

È anche giusto, al di la delle fatiche personali enormi che il parteciparvi attivamente comporta, narrando le nostre storie, che io riesca a trasmettere ai ragazzi (con dovizia e attenzione particolare alle parole ed ai ”messaggi” che inevitabilmente potrei dare), con semplicità e genuinità la mia esperienza di vita ”sballata” e le sue origini apparentemente invisibili o di poca importanza.

Anche perché cerco di calarmi in ciò che vivono i ragazzi oggi, ripensando a come ero io, molto o poco prima che iniziassi il mio personale percorso “autodistruttivo” e sballato. Inoltre perché mi piace immaginare che io sarei potuto essere uno di loro, e che avrei forse potuto continuare la mia fase adolescenziale di crescita senza l’intervento di “agenti chimici esterni”.

Per giunta, se anche solo per un attimo avessi avuto voglia di dare ascolto a qualcuno che cercava di starmi vicino, i problemi che comunque avevo o stavo attraversando avrebbero potuto causarmi ”danni contenuti” e non magari irreversibili.

E poi semplicemente è giusto, mi sembra giusto, nonostante tutto quello che i miei occhi possono vedere e vivere oggi, parlare con loro, gli studenti. Parlare con loro, interagire, non è come parlare con un adulto, loro, per quanto influenzati da continue informazioni martellanti e che possono dare un senso distorto della realtà, sono come una lavagna sulla quale si può ancora scrivere qualcosa di mite e positivo, senza necessariamente tradurre tutto in rabbia o in vincitori e vinti (non siamo in guerra o non ancora almeno!).

E aggiungo che, al di là della precisa attendibilità dei racconti (le verità sono talvolta molteplici e soggettive, per esempio una è quella sancita dal tribunale e per quella stiamo espiando le nostre condanne) la trasmissione delle esperienze è ancora e nonostante tutto fondamentale.

Attraverso quali passaggi, consapevoli o meno, siamo arrivati a fare ciò che abbiamo commesso, ci siamo resi rei, ecco questo se raccontato senza piangersi addosso o lamentandosi di quanto la vita è stata dura e cattiva con noi, credo che possa essere utile per i ragazzi, ma… anche per noi persone attualmente detenute, che possiamo così ripercorrere quelle che sono state le tappe iniziali e salienti del nostro fallimentare (ma comunque ricco) vissuto.

Ed aggiungo che qualche volta nel corso di quest’ultimo decennio sono stato colto dal forte dubbio che, se io principalmente, ma anche la mia famiglia (tutto sommato, paziente e santa famiglia che una volta smesso di far finta di nulla, come ha fatto nei primi due anni, le ha veramente provate tutte…), ecco se la mia famiglia all’unisono con suore (asilo), maestre/i, educatori, insegnanti, professori, allenatori, fosse riuscita (e credetemi non era impresa da nulla!), a canalizzare, indirizzare, far convergere in esperienze magari grintose, ma positive la mia curiosità irrefrenabile, il desiderio di sentirmi più grande di ciò che ero, la curiosa ed iperattiva, e però dispersiva e infantile genialità di piccolo ma in fondo “buon diavoletto”, ecco credo che allora e in seguito le cose avrebbero potuto evolvere diversamente. Ripeto, io ero qualcosa di apparentemente ingestibile ma…

Inoltre credo che, nonostante tutti i limiti di tempo e concisione che questi incontri tra studenti e detenuti impongono nel racconto di sé, le possibili gelosie e regressioni infantili di vario carattere, o le manie d’esibizione, una volta spazzato via tutto ciò, la portata dirompente ed ”esplosiva” di questo progetto si mostrerà in futuro in tutta la sua essenza.

È evidente che vanno prese in considerazione però anche le caratteristiche delle classi che si incontrano (“preparata” o meno, interessata o con una soglia d’attenzione bassa…), e la differenza tra istituti o di metodica d’insegnamento, ma a parte queste, che non son solo sfumature, il progetto conserva le sue potenzialità strategiche. Credo però che ogni incontro si debba adattare a seconda del tipo di classe che si incontra: importante sarebbe osservare non solo l’età, ma anche che cosa studiano, in prevalenza di che giovani persone son composte le classi (se a prevalenza femminile per esempio, o altro).

Molta differenza poi tra una classe e l’altra la fanno i docenti che riescono o meno a suscitare interesse, attenzione, presenza anche mentale, da parte degli studenti. Un prof ”appassionato” viene sentito, percepito dagli studenti, come degno della loro attenzione anche se ”matusalemme” o insegnante di materie “pallose”.

In ogni caso con chiunque venga in “visita carceraria” (universitari o studenti delle scuole superiori), sarebbe meglio spazzare subito via qualcosa che definirei come ”atteggiamento didattico”, cioè detenuti che “insegnano” e studenti che hanno come principale interesse le nostre esperienze di vita miserevoli come studio fine a se stesso. Così il senso del progetto scuole/carceri perderebbe di molto le sue particolari potenzialità dirompenti.