Intervista ad Elisabetta Palermo, docente di diritto penale

Il “rischio reato” è un rischio altissimo per qualsiasi cittadino

Lo è quindi anche per le cosiddette persone per bene, quelle che si comportano sempre secondo determinati criteri di adesione ai principi di legalità

 

Intervista a cura di Maurizio Bertani e Ornella Favero

 

 

Da qualche anno il nostro progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere” si è arricchito delle lezioni di Elisabetta Palermo, docente di diritto penale all’Università di Padova, che viene nelle scuole e spiega ai ragazzi come funziona la giustizia minorile. A lei abbiamo chiesto di spiegare perché, oggi, anche il cittadino “regolare” non può più dire che il carcere non lo riguarda, che a lui “non capiterà mai” di rischiare di finirci dentro.

 

Ornella Favero: La finalità di questa intervista è di approfondire il tema di quei reati che portano in carcere non chi ha fatto la scelta di vita di uscire dalla legalità, rubando o rapinando o spacciando, ma il cittadino comune, quello per esempio che beve un bicchiere di troppo e provoca un incidente.

Elisabetta Palermo: Si tratta di un problema più diffuso di quanto si possa pensare. Intanto appunto in riferimento alla fattispecie che avete menzionato, cioè l’omicidio colposo, chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni; se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni; si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica e soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. La violazione delle regole relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, per esempio, può coinvolgere un piccolo imprenditore, cioè la persona che gestisce una piccola impresa edile e che per incuria non rispetta le norme sulla prevenzione degli infortuni, se poi dalla violazione delle norme preventive consegue l’omicidio colposo si trova a doverne rispondere pesantemente. Una reclusione da due a sette anni certamente può comportare il rischio carcere, perché è vero che con la condanna ad una pena contenuta entro i due anni di reclusione è possibile usufruire della sospensione condizionale della pena, soprattutto se la persona è incensurata, ma poniamo l’ipotesi di una sospensione che sia già stata usufruita per qualche sciocchezza commessa in passato, anche la condanna ad una pena detentiva di due anni può comportare l’ingresso in carcere.

Ma sto pensando ad un altro reato che si può commettere con maggior frequenza di quanto non si immagini e che può sconvolgere letteralmente la vita di una persona adulta, ma anche di un ragazzo imputabile sopra i 14 anni di età, quindi già passibile di pena. Penso all’omicidio preterintenzionale, previsto dall’art. 584 del Codice penale, per il quale certamente è quasi impossibile che si arrivi ad una sospensione condizionale della pena. Per tale ipotesi criminosa è infatti prevista la reclusione da 10 a 18 anni e quindi, pur con tutte le attenuanti, è difficile contenere la pena o entro i tre anni, limite previsto per la concessione della sospensione condizionale all’autore che ha meno di 18 anni, o entro i due anni e mezzo, limite previsto per l’autore che ha un’età compresa fra 18 e 21 anni, o entro i due anni che è il limite di pena previsto per poter concedere la sospensione condizionale all’autore che ha più di 21 anni.

L’omicidio preterintenzionale è una delle ipotesi criminose per le quali si invoca da tantissimo tempo una riforma, perché è certamente un’ipotesi particolarmente severa, trattandosi di un reato che nasce come conseguenza non voluta, assolutamente non voluta, anche dalle mere percosse. Quindi se nel corso di un alterco, che si genera come sentiamo spesso anche per motivi banali, tipo una contesa di tipo calcistico, oppure una lite fra condomini, io mi azzuffo e dò un pugno o una sberla, quindi pongo in essere delle percosse e dalle stesse consegue come evento non voluto, perché la persona cade e batte la testa, la morte, sono chiamato a rispondere di un’ipotesi di omicidio ben più grave rispetto all’ipotesi di omicidio colposo.

 

Ornella Favero: È lo stesso che succede per esempio con il ragazzo che usa il coltello in una rissa e il suo avversario, anche se colpito in parti non vitali, muore dissanguato, in redazione ci sono due che per questo hanno preso uno 16 anni e l’altro ben 26.

Elisabetta Palermo: Nelle ipotesi che hai menzionato deve essere successo qualcosa di diverso, probabilmente è stato configurato un omicidio doloso, realizzato con dolo eventuale. Si è ritenuto, cioè, che chi ha colpito pur non avendo agito per uccidere abbia tuttavia accettato il rischio di cagionare la morte, ecco perché vi è stata una condanna ad una pena cosi elevata.

Molte volte è difficile dimostrare che l’intenzione del soggetto era solo quella di ferire e non quella di uccidere, quindi è possibile riconoscere un omicidio doloso con tutte le conseguenze di una pena particolarmente elevata, anche quando l’intenzione del soggetto era direttamente rivolta a produrre un’aggressione all’incolumità individuale, purché dallo svolgimento dei fatti sia possibile indurre che vi sia stata anche l’accettazione del rischio di cagionare la morte.

Riprendendo quanto stavamo dicendo con riferimento all’omicidio colposo ed alla possibilità di usu­fruire della sospensione condizionale della pena, non dimentichiamoci poi che è possibile ottenerla solo due volte, e la seconda volta non è automatico che venga concessa.

 

Maurizio Bertani: Ma la seconda concessione va calcolata sempre all’interno dei due anni?

Elisabetta Palermo: La sospensione condizionale può essere reiterata solo una seconda volta, purché la pena complessiva non superi i limiti che ho già menzionato.

Quindi se io per sciocchezze che ho commesso in passato ho usufruito della sospensione condizionale, alla terza condanna, anche ammesso che la pena sia comunque contenuta in questi limiti, non posso più usufruirne; così come non posso usufruirne neppure una seconda volta se i limiti stessi vengono comunque superati.

La sospensione condizionale della pena estingue il reato in cinque anni se si tratta di delitto e in due anni se si tratta di contravvenzione, ma l’estinzione del reato praticamente comporta solo che io non devo più scontare la pena che già mi era stata inflitta con la prima sentenza.

 

Maurizio Bertani: Quindi non c’è all’interno di questo meccanismo una sanatoria del reato stesso?

Elisabetta Palermo: No, mai, ecco perché io dico sempre, quando parlo del diritto penale ai ragazzi, di ricordare l’importanza del precedente giudiziario, perché è qualcosa che accompagna pesantemente la vita di una persona, e quindi se l’autore è minorenne è necessario fare tutto il possibile per pervenire a formule di definizione del procedimento penale che evitino la pronuncia della sentenza di condanna. Fra queste va qui menzionata la sentenza che dichiara estinto il reato per esito positivo della prova. Sentenza alla quale si perviene all’esito di un periodo durante il quale il processo viene sospeso e l’autore minorenne viene messo alla prova sulla base di un progetto educativo, con l’intervento dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia che agiscono di concerto ed in collaborazione con i servizi locali. Se trascorso il periodo il giudice ritiene che la prova abbia dato esito positivo, il reato si estingue e, non essendoci stata sentenza di condanna, dello stesso non rimane alcuna traccia.

Diversamente se si è pervenuti ad una sentenza di condanna, il precedente penale rimane sempre e continuerà a pesare sulla vita di quel ragazzo anche quando diventerà adulto.

Ecco perché può diventare talvolta facile finire in carcere anche se in passato non si sono commessi reati particolarmente gravi.

Non parliamo poi della disciplina della recidiva, che porta ad aumenti di pena particolarmente elevati, per cui se il soggetto ha già subito una sentenza di condanna per un delitto doloso qualora venga condannato per un secondo delitto doloso, pur avendo eventualmente usufruito della sospensione condizionale della pena, scatta l’aggravante della recidiva, che, se ritenuta prevalente sulle attenuanti, comporta un aumento di pena che rischia di farmi andare oltre i limiti previsti per poter reiterare la sospensione condizionale. La recidiva è un’aggravante che si configura quando c’è stata una precedente sentenza di condanna passata in giudicato, quindi si può riconoscere la recidiva anche se i due reati sono completamente diversi. Se il soggetto ha commesso un delitto doloso per il quale ha ottenuto la sospensione condizionale della pena e successivamente commette un altro delitto doloso anche se non di particolare gravità, può essere applicata comunque la recidiva che comporta un aumento di pena. Se il giudice, quand’anche ci fossero delle attenuanti, ritiene di dover applicare la recidiva e fa prevalere la recidiva come aggravante sulle attenuanti, deve applicare l’aumento di pena per la recidiva e la pena può arrivare ad un’entità tale da oltrepassare i limiti previsti per poter concedere o reiterare la sospensione condizionale.

E se siamo entro il quinquennio del precedente reato abbiamo addirittura la revoca della precedente sospensione condizionale. Ma anche ammesso che siamo andati oltre il quinquennio e quindi ormai la pena inflitta con la prima sentenza di condanna non debba più essere eseguita, perché quel primo reato si è estinto, l’entità di pena che era stata applicata si somma con la nuova e può impedire di reiterare la sospensione condizionale.

Ecco perché io ritengo, che nel campo del diritto penale minorile sia sempre particolarmente importante prestare attenzione ai precedenti penali del minore per evitare che il ragazzo si porti avanti per tutta la vita il peso di un precedente, che potrebbe pregiudicare il suo percorso dal punto di vista dell’attività lavorativa. Penso anche che si debba arrivare ad una riforma che preveda che, se il reato è stato commesso prima dei 18 anni, dopo un certo numero di anni i precedenti si azzerino tutti, e che comunque dopo i 21 anni vengano cancellati dal casellario giudiziale, per consentire a questa persona di cercare lavoro senza avere la preoccupazione di ritrovarsi con dei precedenti penali. Anche perché, attenzione, quand’anche mi sia stato concesso il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, posso avere problemi per i precedenti penali, perché la non menzione vale solo per i privati, ma non vale per la pubblica amministrazione. Quando il soggetto viene assunto dalla pubblica amministrazione, gli viene chiesta una dichiarazione nella quale deve dire di non avere precedenti penali e se i precedenti ci sono non può dichiarare il falso.

C’è poi un’ulteriore considerazione da fare, quando parliamo di reati pensiamo al furto, alla rapina, pensiamo all’omicidio, alla truffa, ma attualmente questa è solo una parte degli illeciti previsti dal sistema penale. Vi sono infatti moltissime leggi speciali che prevedono illeciti penali anche in tutti i settori del normale agire quotidiano, tutta la disciplina relativa all’esercizio di moltissime attività economiche è ricca di sanzioni penali, quindi il rischio reato è un rischio altissimo per qualsiasi cittadino, anche per le cosiddette persone perbene, quelle che tendono a comportarsi secondo determinati criteri di adesione al principio di legalità.

A fronte della miriade di illeciti penali, che talvolta sono reati anche di “mera creazione legislativa”, per i quali non c’è una coscienza sociale che quel fatto sia un reato, c’è un rischio elevato di commissione di fatti illeciti anche da parte di chi esercita attività produttive e commerciali.

 

Ornella Favero: Possiamo fare su questo qualche esempio? mi pare di aver letto che addirittura un coniuge che si autoriduce l’assegno che deve corrispondere all’altro coniuge rischia il carcere, è vero?

Elisabetta Palermo: Ti stai riferendo alla mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza prevista come una delle condotte criminose in grado di integrare il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 del Codice penale, così come alla mancata corresponsione dell’assegno che sia stato previsto in caso di separazione e di divorzio, configurata come reato dall’art. 3 della legge n. 54/2006 e dall’art 12 sexies della l. n. 898 del 1970, a seguito della riforma introdotta con la legge n. 74 del 1987.

Ma io penso anche ad un’altra ipotesi che si realizza frequentemente nelle separazioni conflittuali, nel corso delle quali succede spesso che il coniuge affidatario non rispetti le previsioni date dal giudice relativamente al diritto dell’altro coniuge di visita dei figli minori, ebbene se il soggetto intenzionalmente, perché ritiene che non sia giusta la decisione presa dal giudice, si sottrae al provvedimento, si configura il reato previsto all’articolo 388 del Codice penale: mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.

È sufficiente pertanto che l’affidatario del minore impedisca intenzionalmente all’altro coniuge di vedere il minore stesso violando quanto previsto dal provvedimento del giudice, perché sia possibile configurare un illecito penale che prevede come possibile pena anche la reclusione fino a 3 anni.

 

Maurizio Bertani: Questo poi è un reato che si rischia di reiterare più volte, proprio perché si parla di separazioni conflittuali.

Elisabetta Palermo: Certo, anche se in realtà in tale ipotesi, proprio perché la reiterazione è la conseguenza di una decisione unitaria e quindi i singoli comportamenti sono l’espressione “di un medesimo disegno criminoso”, è possibile il ricorso al reato continuato, previsto all’art. 81 del Codice penale, che è un istituto previsto per le situazioni nelle quali, per la loro stessa natura ed essenza, le condotte criminose tendono a ripetersi e sono espressione di una volontà riconducibile ad una decisione iniziale unitaria. Il reato continuato prevede appunto che quando più reati siano realizzati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso dal punto di vista della pena vengano considerati unitariamente, per cui si applica non più il cumulo materiale delle pene ma il cumulo giuridico, e quindi si applica la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, ma l’aumento può essere anche nettamente inferiore al triplo previsto come limite massimo. Stiamo attenti, però, perché attualmente c’è la tendenza ad applicare il reato continuato in maniera piuttosto restrittiva, cioè non con la facilità con cui si applicava solo anche 10-15 anni fa. Ad esempio questo succede con i soggetti tossicodipendenti che per eccellenza ripetono i reati soprattutto perché lo stato di tossicodipendenza li porta a commettere spesso reati per la necessità di reperire le sostanze e poi si ritrovano a dover espiare pene altissime, anche in virtù del meccanismo della recidiva, del quale abbiamo già parlato. Ecco in tali ipotesi per eccellenza si potrebbe applicare l’articolo 81. In realtà per i tossicodipendenti il reato continuato non viene applicato facilmente, nonostante l’art. 671 del Codice di procedura penale testualmente preveda che fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. La difficoltà della giurisprudenza a riconoscere la continuazione per i reati commessi dal tossicodipendente viene giustificata dalla considerazione che i reati stessi non possono essere considerati espressione di un medesimo disegno criminoso, quanto piuttosto manifestazioni di una scelta estemporanea, e quindi ogni reato viene considerato come un reato nuovo e la relativa pena si cumula alle altre con il meccanismo del cumulo materiale. Ecco perché accade molte volte che la persona tossicodipendente, in considerazione anche degli aumenti di pena dovuti alla recidiva specifica e/o infraquinquennale, cioè il comportamento criminoso e reiterato nell’arco dei 5 anni dalla precedente sentenza di condanna, si trova a dover espiare pene molto elevate.

 

Ornella Favero: A noi interessa fare degli esempi di reati che riguardano tutti, perché stiamo cercando di fare una informazione, che faccia capire, agli studenti in particolare, che il carcere non è cosi lontano come immaginano, allora a me viene in mente il fatto che è stato ripristinato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale.

Elisabetta Palermo: Esatto, il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è stato abrogato nel 1999, dopo che già la Corte costituzionale aveva ritenuto incostituzionale la pena minima prevista per tale ipotesi criminosa, in quanto troppo elevata in rapporto al disvalore del fatto. La sentenza della Corte conteneva un monito al legislatore: quello di astenersi dal criminalizzare in maniera grave un comportamento abbastanza diffuso. Il fatto continuava tuttavia a configurarsi come reato, perché poteva residuare l’ingiuria, molte volte aggravata dal fatto che spesso il comportamento ingiurioso nei confronti di un pubblico ufficiale avviene in presenza di più persone e questa è un’aggravante dell’ingiuria, però l’ingiuria è un rea­to perseguibile a querela di parte, di competenza del giudice di pace, ed i reati di competenza del giudice di pace non sono passibili di pena detentiva mai, la pena è pecuniaria oppure, nei casi più gravi, può esservi la permanenza in casa, o, su richiesta del condannato, il lavoro di pubblica utilità.

Nel 2009 il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è stato reintrodotto ed ha ripreso ad essere un reato di una certa gravità, anche se si è ristretta la sua configurazione all’ipotesi in cui siano presenti più persone. Si tratta di un reato perseguibile d’ufficio, è prevista la pena della reclusione fino a tre anni ed essendo di competenza del giudice ordinario, se vi è sentenza di condanna può esserci la detenzione.

Data l’esasperazione molto alta che attualmente connota i comportamenti legati alla circolazione stradale, per la tensione legata alla vita quotidiana, ai suoi ritmi frenetici ed al traffico congestionato, è chiaro che questo è un reato che può commettere chiunque. Assistiamo, infatti, molto spesso al fenomeno di persone normalmente abbastanza equilibrate e controllate che, proprio per l’esasperazione dovuta alla circolazione stradale, diventano aggressive e perdono il controllo.

Pensiamo anche alla resistenza a pubblico ufficiale, quando ad esempio di fronte ad un atteggiamento un po’ sopra le righe, il pubblico ufficiale invita il soggetto a seguirlo presso gli uffici di polizia giudiziaria, o presso la caserma dei carabinieri e la persona si agita, non vuole andare, è facile che nel suo comportamento si configuri il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

Quindi ci sono dei comportamenti nei quali incorrere è più facile di quanto non si pensi. Al riguardo basta citare l’esempio delle persone che vanno ad assistere ad una partita e si trovano coinvolte in una rissa, conseguenza di un clima di tifoseria particolarmente accesa; in un tale clima è facile che si commettano delle lesioni e che dalle lesioni si arrivi all’omicidio preterintenzionale del quale abbiamo già parlato. Quando ci confrontiamo su questi temi nelle scuole portiamo sempre l’esempio di omicidi preterintenzionali successi durante le zuffe fra tifosi di squadre avversarie, da parte di ragazzi che pure sono bravissimi ragazzi, vanno a vedere la partita, si esaltano, vengono alle mani pensando solo ad una litigata, il loro avversario invece cade e muore e si trovano a dover rispondere di un reato che comporta la pena della reclusione da 10 a 18 anni. E quand’anche l’autore sia un minorenne, pur potendo usufruire dell’attenuante della minore età ed eventualmente delle attenuanti generiche perché magari è incensurato, è ben difficile che si arrivi a contenere la pena detentiva entro i tre anni per potergli concedere la sospensione condizionale. Colgo l’occasione di questo esempio per ribadire l’importanza che assume, nell’ambito del processo penale minorile, la sospensione del processo con messa alla prova della quale ho già parlato, perché per reati di questo tipo è fondamentale che al minore non venga distrutta la vita con 4-5 anni di carcere, ma gli sia consentito di fare un percorso educativo e di consapevolezza, il cui esito positivo consenta di pervenire alla dichiarazione di estinzione del reato.

Per l’adulto però questo istituto non esiste e quindi l’adulto inevitabilmente con un omicidio preterintenzionale finisce in carcere.

 

Ornella Favero: Adesso ci sono anche parecchi reati informatici per i quali si può rischiare il carcere.

Elisabetta Palermo: Si, ci sono anche comportamenti connessi all’utilizzo di mezzi informatici di rilevanza penale. Abbiamo per esempio il reato di danneggiamento dei sistemi informatici e telematici, previsto all’art. 635 bis del Codice penale, che si commette distruggendo, deteriorando o rendendo in tutto o in parte inservibili sistemi informatici o telematici altrui ovvero anche programmi, informazioni o dati altrui, ed è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se chi commette il reato abusa della sua qualità di operatore del sistema, la pena è della reclusione da uno a quattro anni. Vi sono poi i reati di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici e telematici e di diffusione di apparecchiature o dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o a interrompere un sistema informatico, rispettivamente previsti agli articoli 615 ter, quater e quinquies del Codice penale, che è facile commettere per chi ha dimestichezza con tali sistemi, e magari senza la consapevolezza che si stanno realizzando comportamenti delittuosi.

Sempre nell’ambito di reati che è possibile realizzare con i mezzi informatici, penso anche alla mera detenzione, nel proprio computer, di materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto, punita con la reclusione fino a tre anni, oltre che con una multa. Si tratta di un comportamento che si può realizzare più facilmente di quanto non si pensi, in quanto molte volte il materiale pornografico viene scaricato da siti ai quali si accede per scaricare musica o altro materiale e solo dopo averlo trasferito nel proprio computer ci si accorge in che cosa consiste. In questi casi, se io consapevolmente detengo il materiale, anche dopo essermi reso conto del suo contenuto, pongo in essere il delitto previsto dall’art. 600 quater del Codice penale, punito con la reclusione fino a tre anni oltre che con la multa non inferiore a 1.549 euro.

Nel contesto dei reati di pedopornografia può essere utile riflettere su un altro esempio di comportamento, che si può commettere senza rendersi conto che si sta realizzando un fatto illecito. L’esempio, che abbiamo fatto quando siamo andati a parlare nelle scuole, è dato dal reato di prostituzione minorile, che viene commesso anche da parte di chi compie atti sessuali con un minore che ha un’età compresa fra i 14 ed i 18 anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica. Se il soggetto che paga non si preoccupa di accertare l’età della persona con la quale pone in essere atti sessuali, qualora gli venga contestata la commissione del reato, deve dimostrare di avere ignorato che il partner avesse meno di 18 anni. Non può giustificarsi dicendo che non sapeva di commettere un fatto illecito perché l’ignoranza della legge penale non scusa, a meno che non si tratti di ignoranza inevitabile.

Pensiamo anche ad un altro reato diverso e precisamente agli atti sessuali con chi ha meno di 14 anni, in questo caso non è possibile nemmeno dimostrare la buona fede, perché c’è una norma che prevede che l’errore sull’età della persona offesa non giustifica.

Quindi mentre per il reato di prostituzione minorile è comunque possibile dimostrare di essere stati indotti a credere che il partner avesse più di 18 anni, per gli atti sessuali con un minore di anni 14 si risponde comunque, anche se si ignorava la sua età. Infatti è solo dopo i 14 anni che l’attività sessuale è libera, purché non ci sia la compravendita del corpo del minorenne.

Dai 14 anni in poi il soggetto, salvo che non ci siano rapporti particolari di parentela o di tutoraggio, ipotesi nella quale la tutela si estende sino al sedicesimo anno, è libero di gestire la propria sessualità, quello che non può fare è prostituirsi.

 

Maurizio Bertani: Allora tutta quella fascia di detenuti che ci sono all’interno delle carceri in sezioni protette, che non hanno una denuncia diretta e che non hanno un rapporto di prostituzione, cioè di pagamento del minore, per che rea­ti sono dentro?

Elisabetta Palermo: Potrebbero essere o soggetti che hanno posto in essere atti sessuali con un minore di 14 anni, oppure genitori o conviventi di un genitore o tutori, perché in questo caso gli atti sessuali sono delittuosi anche se posti in essere con un minore che ha meno di 16 anni. Si tratta dell’ipotesi criminosa degli atti sessuali con minorenne prevista all’articolo 600 quater del Codice penale. Non dimentichiamoci poi, nell’ipotesi in cui l’autore sia il genitore o il nonno, della possibilità che si configuri anche il delitto di incesto previsto all’art. 564 del Codice penale.

È necessario distinguere due tipologie di reati che coinvolgono i minori, una tipologia è quella che riguarda la violenza sessuale, o gli atti sessuali con minorenni ed è nel suo complesso disciplinata agli articoli 609 bis, ter e quater, inseriti nel Codice penale con una legge di riforma del 1996, e tutela la sessualità del minore contro comportamenti violenti, o se il minore ha meno di 14 anni, ed in talune ipotesi meno di 16, anche contro un’attività sessuale alla quale il minore stesso ha acconsentito. La fascia protetta in maniera rigorosa è quella del minore che ha meno di 14 anni, e talora meno di 16. Per tali fasce di età il consenso non fa venir meno la valenza criminosa del fatto, solo per l’ipotesi in cui il tredicenne ha un rapporto consensuale con una persona che ha al massimo tre anni più di lui, cioè con un partner che non abbia più di 16 anni, è prevista una causa speciale di non punibilità, perché si è ritenuto di non intervenire con la sanzione penale quando si tratta di un rapporto consensuale tra coetanei. In tutti gli altri casi, al di sotto dei 14 anni non si può prestare un consenso valido ad un rapporto sessuale.

Una diversa tipologia è quella dei reati, previsti agli articoli dal 600bis al 600septies del Codice penale, ed è riconducibile al fenomeno che chiamiamo di pedopornografia e riguarda la compravendita del corpo del minore. In queste ultime ipotesi criminose il soggetto che ha meno di 18 anni viene protetto da tutti i comportamenti di mercificazione del suo corpo, anche contro la sua volontà.

 

Maurizio Bertani: Per cui possono succedere casi nei quali non c’è neanche la violenza all’interno di certi rapporti.

Elisabetta Palermo: Assolutamente si, anzi si tratta di reati diversi, se c’è la violenza sessuale si configura il reato previsto all’articolo 609bis del Codice penale, con le aggravanti contenute all’articolo 609ter; l’ipotesi criminosa prevista all’articolo 609quater si configura invece quando gli atti sessuali vengono posti in essere con un minore consenziente, purchè si tratti di un minore degli anni 14, oppure anche minore degli anni 16, quindi è protetta anche la fascia dai 14 ai 16, quando, come ho già detto sopra, il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente ovvero il tutore o la persona a cui per ragioni di cura, educazione, istruzione e vigilanza o custodia il minore è affidato, quindi anche l’insegnante per esempio. Il consenso dei minori, nelle due fasce di età che ho indicato, non fa venir meno il reato. L’unica differenza riguarda la pena, in quanto gli atti sessuali con il minorenne consenziente possono comportare una pena meno elevata rispetto alla violenza sessuale in quanto agli stessi non si applicano le aggravanti previste all’art. 609ter. Se il minore ha meno di dieci anni la pena è analoga in entrambe le ipotesi e va da sette a quattordici anni.

Pensiamo alla persona che si innamora del quindicenne nei cui confronti riveste una posizione di cura o di custodia e compie atti sessuali con lui, costui commette un reato punito con la reclusione da cinque a dieci anni, forse senza rendersi conto della gravità del suo comportamento.

 

Maurizio Bertani: Tante volte mi è capitato di sentire di persone con tanti anni di condanna per abusi sessuali dire: ma no, lei però era consenziente…

Elisabetta Palermo: Per quanto riguarda il reato di violenza sessuale in generale si possono fare al riguardo due considerazioni. Va innanzitutto evidenziato che i concetti di violenza e di minaccia sono stati elaborati dalla giurisprudenza in modo tale da farli coincidere con qualsiasi comportamento in grado di realizzare la costrizione della vittima, e quindi con una valenza molto ampia. La costrizione poi può essere realizzata mediante l’abuso di autorità; ancora il reato si configura anche nell’ipotesi in cui l’autore abusa delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima. Ciò significa che la gamma dei comportamenti in grado di realizzare il delitto di violenza sessuale è molto ampia e talvolta l’autore per la particolare situazione in cui la violenza o la minaccia si realizzano rischia di non esserne pienamente consapevole. Per quanto riguarda gli atti sessuali con minorenne è necessario considerare che la fattispecie criminosa è il frutto di studi approfonditi dal punto di vista dei danni che subisce un soggetto in età evolutiva, a fronte di relazioni sessuali che non sono da lui gestibili; sempre per quanto riguarda il minore degli anni 14, in situazioni particolari per quanto riguarda il minore fino a 16 anni, ed in particolare si tratta delle ipotesi per le quali è difficile stabilire se la persona sia stata davvero completamente libera nella relazione. Questo significa che, qualora ci siano rapporti di vigilanza, di cura o di protezione, anche se gli atti sessuali sono frutto di una relazione affettiva, di innamoramento, ma il partner è quindicenne, si commette un reato punito con la reclusione da 5 a 10 anni; quindi non stiamo parlando del pedofilo in senso stretto, perché il pedofilo in senso stretto rischia una pena ancora più grave che va da 7 a 14 anni, ed è colui che compie atti sessuali con un minore di anni 10.

 

Ornella Favero: Da questo quadro emerge che i comportamenti a rischio sono molti di più di quelli che immaginiamo.

Elisabetta Palermo: Esatto, non ci si rende conto della possibilità di commettere reati, anche di questo tipo, e poi del “rischio carcere”.

Ma torniamo adesso a quei comportamenti che rientrano davvero nella nostra quotidianità e per i quali il rischio di una sentenza di condanna è molto meno remoto di quanto non si pensi. Ad esempio la guida in stato di ebbrezza configura un reato, che negli ultimi anni è stato reso progressivamente sempre più grave, ciò significa che, anche ammesso che per un provvedimento di condanna per guida in stato di ebbrezza non si finisca in carcere, resta comunque il precedente ed il rischio di avere un pregiudizio dal punto di vista della sospensione condizionale della pena, qualora il soggetto commetta un’altra sciocchezza, è molto elevato.

Sono questi i fatti che ci toccano da vicino e che dovrebbero portarci a riflettere.

Ma pensiamo anche ai reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti. Attualmente vi è una fascia molto ampia di persone che fanno uso di sostanze, soprattutto delle cosiddette “droghe leggere”. Si tratta di un comportamento che in tantissimi ambienti è considerato normale, quasi l’espressione di una cultura. Si ritiene che non faccia male, soprattutto se si usano le sostanze soltanto per rilassarsi, per star meglio, magari a fine settimana, quando non incidono sull’attività lavorativa. Ebbene in questo contesto il rischio di commettere un reato è molto elevato, in quanto anche la semplice cessione della sostanza costituisce un comportamento criminoso, così come la detenzione di quantità che superino quelle che appaiono destinate ad un uso esclusivamente personale.

Dalla quantità di sostanza che la persona ha ceduto o detenuto dipende poi la valutazione del fatto stesso quale fatto di lieve entità, oppure quale fatto più grave per il quale scattano pene particolarmente severe.

Io ho discusso di recente con alcuni studenti che sostenevano che la coltivazione in casa di piccole quantità artigianali di marijuana non configura un reato, perché hanno trovato su internet una sentenza della Corte di Cassazione nella quale si afferma che tale comportamento non è criminoso, e ho faticato a convincerli che non è esattamente cosi. In realtà sul punto vi è stato un contrasto in giurisprudenza superato da una sentenza delle Sezioni unite, nella quale si afferma che la coltivazione non configura un’ipotesi di reato nei limiti in cui la quantità di sostanza coltivata è talmente minima da non avere nemmeno la possibilità di funzionare da principio attivo, cioè la piantina da sola non deve essere in grado di provocare nessun effetto.

Intanto è stato necessario l’intervento delle Sezioni unite per dire che in tale ipotesi non sussiste il rea­to, perché alcune sentenze di singole sezioni della Cassazione avevano detto che anche in tale ipotesi il reato era configurabile, ma anche ammesso che adesso la Cassazione si attesti su questa sentenza delle Sezioni unite, nella situazione concreta viene fatta comunque una valutazione, in virtù della quale rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare nella quantità di sostanza ricavabile dalle piantine coltivate il principio attivo e quindi il reato di coltivazione, e si tratta di un reato grave. Mentre i ragazzi con cui discutevo, con una grande superficialità, dicevano che non c’è niente di male a coltivarsi la piantina, perché nella cultura giovanile, attraverso tutte queste informazioni alterate che vengono date su internet, passa l’idea che la Cassazione ha detto che te la puoi coltivare. Poi arriva la sorpresa, perchè la vicina di casa ti denuncia e scopri di aver commesso un reato e di rischiare una sentenza di condanna.

 

Ornella Favero: Per finire, visto che abbiamo parlato di reati, parliamo un po’ di processi. In carcere parecchi pensano che il “processo breve” dia delle risposte ad una esigenza reale di abbattere i tempi della giustizia troppo lunghi. È davvero così?

Elisabetta Palermo: Io personalmente sono convinta che una riforma della giustizia dovrebbe passare attraverso una revisione molto attenta del Codice penale, revisione che, non dimentichiamoci, è dagli anni 70 che si cerca di realizzare.

Ci sono stati 5-6 progetti di riforma, ricordo che abbiamo avuto commissioni particolarmente qualificate, che hanno lavorato molto bene, hanno prodotto dei progetti di riforma importanti, significativi, e nessuno di questi è arrivato ad essere discusso in Parlamento.

Allora non si può pensare di intervenire in maniera approssimativa ed estemporanea su un codice che si sta cercando di riformare da più di quarant’anni. Negli ultimi anni, solo per menzionare i tentativi più recenti, ci sono stati il progetto Riz, il progetto Pagliaro, il progetto Grosso, il progetto Nordio ed il progetto Pisapia. Tutti progetti elaborati da esperti particolarmente qualificati che avevano veramente cercato di far fare un salto di qualità alla giustizia penale.

Non ritengo pertanto possibile accettare che la riforma adesso sia rabberciata, a fronte di una esigenza di riforma del Codice penale che oltretutto ci porterebbe a livello dei Codici europei, eliminando la miriade di norme distribuite nelle leggi speciali e cercando di portarle il più possibile nel Codice, e razionalizzando davvero l’assetto sanzionatorio. Negli ultimi anni invece si è proceduto solo sulla base dell’emergenza e quindi ogni qualvolta c’era un fenomeno da arginare, anziché arginarlo con la prevenzione agendo su tutti i fattori di rischio, ci si è limitati ad aumentare in maniera spropositata le pene, oppure intervenendo, come è stato fatto, sulla recidiva, quindi penalizzando ancora di più fasce di soggetti, che invece hanno bisogno solo di una reale presa in carico e di una prevenzione del fenomeno su altri piani. Adesso si pretende di intervenire sulla prescrizione solo per risolvere un problema contingente e non certo in una logica ad ampio respiro, che sottenda una reale intenzione di migliorare il funzionamento della giustizia penale. Anche la prescrizione deve far parte di un disegno molto più ampio, non dimentichiamoci che la prescrizione è una causa di estinzione del reato, e l’estinzione della punibilità ha una sua logica che va studiata bene, articolata con tutte le altre cause di estinzione secondo un progetto di più ampio respiro, non può essere riformata da sola, senza un collegamento con tutti gli altri istituti che vengono coinvolti, solo per consentire che determinati processi non vengano portati a termine. Ritengo, pertanto, che il processo breve, cosi come si sta concependo, non sia funzionale a risolvere i problemi della giustizia penale

Sono convinta che abbiamo bisogno di buone leggi, ma devono essere leggi pensate con l’attenzione reale ai problemi, e non soltanto per “sedare” l’opinione pubblica, il nostro problema è che negli ultimi anni si è legiferato o per cercare di dare una risposta all’allarme dell’opinione pubblica su certi fenomeni, o per arginare una emergenza.

Faccio solo un esempio di norma sbagliata, che poi è stata in qualche modo ridimensionata nella sua valenza attraverso una interpretazione intelligente e attenta della Cassazione.

Parlo della riforma introdotta nell’istituto della legittima difesa nel 2006. In virtù di tale riforma l’opinione pubblica si è convinta che, qualora l’arma sia detenuta legittimamente e venga utilizzata per difendersi contro chi si sia introdotto nell’abitazione altrui, vi sia sempre e comunque la legittima difesa. La deriva di tale convincimento ha portato a ritenere che solo perché l’altro entra nella tua abitazione puoi fare lo sceriffo e sparargli addosso, invece non è cosi.

Anche se la norma è mal formulata, perché è stata inserita soltanto per dare una risposta all’opinione pubblica di fronte al fenomeno delle rapine in villa, proprio per non arrivare a risultati paradossali, è stato necessario chiarirne la reale portata in via interpretativa; in virtù di tale consolidato orientamento della giurisprudenza l’uso dell’arma nei confronti dell’aggressore è lecito e configura legittima difesa qualora vi sia un pericolo per l’incolumità individuale e/o per la vita e non solo per il patrimonio e/o per il domicilio.

In via conclusiva, cercando di ria­ssumere il senso della nostra conversazione sul rischio della commissione del reato da parte di chiunque, penso che sia necessario continuare a riflettere sulla facilità di incorrervi non tanto per autoassolversi, quanto, piuttosto per comprendere l’esigenza di concepire un nuovo assetto sanzionatorio e di risposta al reato più articolato di quello attuale, attento ad evitare una inutile desocializzazione ed essenzialmente rivolto a potenziare sistemi di inclusione sociale e di recupero del reo.

 

 

Il carcere? Non mi riguarda

 

Delle 67615 persone detenute, presenti nelle carceri oggi, solo 2951 sono donne: sono poche, e se ne parla davvero pochissimo. È come se le donne si portassero dentro, nella carcerazione, anche un peso doppio, quello dei sensi di colpa che sempre accompagnano una madre che ha dovuto lasciare i figli soli per le sue scelte sbagliate, e non sa farsene una ragione. Le testimonianze che seguono nascono nel carcere femminile della Giudecca, a partire da una riflessione: che in galera ci si può finire anche dopo anni di vita “regolare”, in cui mai neppure si immaginava che le vite a volte deragliano.

 

 

Anch’io avrei detto: a me non succederà mai

 

di Elda

 

Anch’io avrei detto: a me non succederà mai. E invece la triste realtà del carcere la sto vivendo purtroppo! E per arrivare a questa realtà dobbiamo andare indietro nel tempo, quando la mia vita non era scalfita da nessun turbamento.

Avevo una famiglia, un lavoro sicuro, una casa e mai avrei detto che tutto si sarebbe sfasciato dopo un matrimonio durato 25 anni. Questo è il primo “mai dire mai”, “a me non può succedere”. In quegli anni felici, quando vedevo alla TV che venivano arrestate delle persone, dicevo a gran voce: Ben ti sta! Che buttassero la chiave! Adesso dobbiamo pure mantenerli noi! Tutte affermazioni che penso in tanti fanno con convinzione!

La mia vita dopo la separazione è cambiata totalmente, mi sono ritrovata con due figli e spese che continuavano ad aumentare giorno per giorno. Chi avrebbe mai pensato che per aumentare le entrate dovessi alzarmi alle tre del mattino per andare a lavorare nel panificio dove prima iniziavo alle sette e mezzo aprendo il negozio, e ora invece sfornavo e dividevo il pane per le nostre succursali, poi mi cambiavo e andavo in negozio a vendere il pane? Tutto questo per fare 10-12 ore al giorno e avere qualche soldo in più! Dopo un po’ di anni trascorsi così non ce la facevo più, non avevo più vita, e allora ho deciso di cambiare. Chi l’avrebbe detto che da commessa di panificio per oltre 25 anni sarei diventata titolare di una impresa di pulizie? Io non l’avrei detto! Sono stata molto fortunata, anche aiutata dalla mia forza di volontà, dal mio carattere espansivo, dalle tante persone che conoscevo, e la mia nuova occupazione procedeva nel migliore dei modi, però non si era risolto del tutto il problema finanziario, e così quando mi si è presentata un’offerta di fare la prestanome, avendo partita IVA, per un acquisto, ricevendo in cambio una modica cifra, ho detto di si!

Chi l’avrebbe detto che mi sarei trovata a 46 anni narcotrafficante internazionale? Io non l’avrei mai detto. Era il 2 agosto 2006 quando mi arrestarono e da allora vivo in questa realtà. Mai avrei detto che mi poteva capitare di subire umiliazioni personali, di essere chiusa in una stanza con le sbarre al posto della porta, le sbarre alla finestra con una retina di ferro che mi fa vedere il cielo a quadratini, di essere circondata da ferro e cemento e non vedere per anni neanche un filo d’erba. Chi l’avrebbe detto che il tintinnio delle chiavi mi avrebbe fatto venire la pelle d’oca? Perché ora mi irrita, mi infastidisce il rumore delle chiavi quando le agenti chiudono il blindo.

Chi l’avrebbe mai detto che scrivere una lettera sarebbe stato l’unico mio mezzo di comunicazione con l’esterno? E che l’impotenza che subisci in questi posti sarebbe stata così grande? Se sei fortunata puoi comunicare telefonicamente con i tuoi cari 10 minuti a settimana, se trovi l’addetto al centralino ”umano” la comunicazione si interrompe al momento giusto con i saluti, altrimenti ti avvisano che manca un minuto e tu in quel momento non hai cognizione del tempo, non stai a guardare l’orologio e mentre stai parlando senti un clic e la comunicazione si interrompe. Si interrompe senza poter dire neppure ciao.

Quando ero a Vigevano in Alta Sicurezza, ho conosciuto persone che il loro nome l’avevo sentito solo alla TV, oppure scritto in qualche libro, per esempio Gomorra. Chi l’avrebbe mai detto? Per loro e per tante altre ero soprannominata “la regolare” e avevo instaurato un bellissimo rapporto con tutte loro. Mi sono integrata benché il mio mondo fosse completamente diverso dal loro. Questa mia lunga carcerazione mi ha segnato tantissimo, mi ha fatto apprezzare cose che prima ritenevo futili. Quando mai avrei pensato che toccare un fiore, un filo d’erba, la terra, potesse darmi tanta gioia? Quando mai avrei pensato di sentire in lontananza l’abbaiare di un cane e non poterlo vedere e toccare? Quando mai avrei pensato di sentire un dolore e tanta tristezza quando abbraccio i miei figli al momento del distacco perché il nostro colloquio è finito? A volte ho tanta rabbia dentro di me perché so di aver sbagliato. L’ho sempre ammesso, però credo di aver pagato già abbastanza!

Vorrei solo far sapere a tante persone che la frase che prima dicevo anch’io, “Ben ti sta!” è meglio evitarla, perché la vita non si sa mai che cosa ti riserva.

Mai dire: a me non può succedere mai. Perché cinque anni sono un’eternità in questo posto.

 

 

Pensavo che certe persone non sono degne di stare nella società

 

di Mimoza

 

Tante finestre, inferriate, due corridori lunghi che, anche se c’è la luce, sembrano bui e senza fine. Le stanze sono piccole, ma dentro vivono in tante ed ogni camera ha solo una finestra.

Le finestre del corridoio si affacciano su un cortile grande e dai muri alti, invece le finestre delle camere si affacciano su un piccolo prato verde con delle panchine rosse e degli alberi, e di fronte si trovano gli uffici della Polizia penitenziaria. La finestra della mia cella è coperta da un albero ed il mio letto si trova vicino alla finestra .

Durante il giorno mi fermo tante volte a guardare quell’albero di alloro ed i miei pensieri vanno lontano, nel mio Paese, nella mia città, nel giardino di casa mia. Ricordo sempre la mia infanzia, un piccolo giardino con bei fiori curati con tanta dolcezza dalla mia mamma, una tavola piccola ed intorno dei piccoli sgabelli. Non avendo un ombrellone mio padre aveva preso un lenzuolo vecchio e l’aveva fissato ai quattro angoli per fare ombra, cosi potevamo stare all’aperto tutte le ore del giorno. Ero sempre felice nella mia famiglia, sono cresciuta con dei valori per la vita e con un’educazione al rispetto per il prossimo.

Mia madre lavorava come cuoca, invece papà era maresciallo dei carabinieri. Il suo lavoro mi piaceva ed ogni volta che sentivo che avevano arrestato qualcuno subito ero curiosa di cosa aveva fatto. Mentre papà mi raccontava, io promettevo a lui che non avrei mai fatto delle cose che erano fuori legge. Passavano gli anni ed io ero più convinta che mai, perché l’educazione che i miei mi avevano dato io la seguivo in ogni passo.

Mi sono sposata e sono diventata mamma di due ragazzi, uno più bravo dell’altro. Ho cresciuto i miei figli con gli stessi valori con cui ero cresciuta io. Poi sono successe delle cose nella mia famiglia. Mi sono lasciata con mio marito e dopo la separazione ho lasciato anche il mio lavoro e il mio Paese e sono partita per l’Italia. Mentre lavoravo come commessa ho conosciuto una persona. Per uno strano destino, lui era un poliziotto. La divisa mi affascinava ogni volta di più. Parlando con lui tante volte pensavo a quelle persone dietro a quelle inferriate e dicevo sempre che loro avevano sbagliato e dovevano pagare per questo, anche quando sentivo i notiziari in televisione tante volte ho detto che certe persone non sono degne di stare nella società e che è meglio chiuderle e buttare la chiave.

Ma, dall’oggi al domani, mi sono trovata dalla parte di quelli per i quali si deve ”buttare via la chiave”. Tante volte penso e non mi so spiegare come sono arrivata fin qui. Penso anche che nella vita è meglio essere cauti, “mai dire mai”, perché in un batter d’occhio può succedere di tutto e tutto può cambiare.

 

 

Io ho chiuso il mio mondo in una cella

 

di Lella

 

Non avrei mai pensato che tutto questo potesse succedere a me, tutto avrei creduto, ma non questo.

La mia esistenza a tutt’oggi non è mai stata rose e fiori; ho sempre dovuto lottare per riuscire a sopravvivere sin da piccola. Certo la mia strada non è mai stata facile da percorrere, ho sofferto, ho lottato con le unghie e con i denti, mi chiamavano la pantera nera perché non mi sono mai tirata indietro davanti alle ostilità della vita. Sono sempre stata sola, da un lato è stato un bene perché mi hanno maturata molto velocemente le esperienze negative, ma dall’altro mi hanno anche annientata. Sono andata in esaurimento, ero molto giovane, ed è stato un calvario, tra psicofarmaci e ospedali.

Poi il miracolo, è arrivata mia figlia Elena, la mia salvezza. Grazie a quel piccolo fagottino ho ricominciato a vivere, ma non sono stata immune dalla sofferenza e dalla lotta giornaliera per la sopravvivenza di entrambe. Ho cresciuto mia figlia da sola anche andando contro il padre, perché era un uomo buono ma pieno di problemi e li sfogava con me, e nonostante tutto ho superato anche questo. Gli anni passavano, lavoravo e vivevo solo per mia figlia, ma il destino aveva in serbo un’altra sorpresa per me, nella mia strada ha messo un uomo. Me ne sono innamorata e questo per me fu l’inizio della fine. Ero talmente presa da lui che non mi rendevo conto di ciò che mi stava succedendo. L’uomo che amavo e che mi diceva di amarmi, l’uomo che doveva proteggermi e rendermi felice, piano piano mi stava rovinando. Ho sbagliato, ne sono ben consapevole, ora con il senno del poi, ma mai e poi mai avrei pensato di finire in carcere, mai e poi mai avrei pensato che lui potesse farmi del male, ma me ne ha fatto e molto. Mi ha distrutta sia psicologicamente che economicamente, e però nonostante tutto mi ha dato la cosa più bella del mondo: mio figlio Matteo. Mai e poi mai avrei pensato che potesse approfittare dell’amore per mio figlio per farmi tanto male solo per il proprio interesse, visto che io ho sempre lavorato, portavo a casa i soldi e avevo una casa mia. Avevo un locale e, come si dice, ero una macchina per fare soldi: a lui invece piaceva la bella vita.

Ciò che mi fa più male è che ha giocato con i sentimenti di mio figlio, lui che è il padre. Io non posso odiarlo nonostante tutto, ma ora sono sola con i miei figli; stiamo affrontando anche questa ultima tappa. I miei figli sono ragazzi sani, hanno una casa, uno studia e l’altro lavora, mentre io ho chiuso il mio mondo in una cella.

 

 

Ho nascosto anche alla mia famiglia quello che facevo realmente

 

di Zulema

 

All’età di 16 anni ero una ragazza molto vivace e molto ribelle, quasi tutte le ragazze di questa età frequentano una compagnia ed io frequentavo tante comitive della mia zona e da lì ho incominciato a seguire uno stile di vita diverso, cioè a rientrare tardi a casa, a fare i primi tiri di canna e a tirare cocaina, ma qui non do la colpa a nessuno perché l’ho voluto provare io!

Nella fase della mia crescita ho avuto degli alti e bassi ed ho fatto sempre di testa mia!

Per un periodo mi sono allontanata da tutto e tutti perché mi ero fidanzata, ma anche qui ho sofferto tanto per cinque anni: lui era troppo geloso e possessivo e molto morboso, e quando l’ho lasciato ho incominciato a frequentare le mie vecchie amicizie e fare quello che facevo prima. Vedendo loro non avrei mai immaginato che sarei finita a spacciare anch’io per avere il loro stesso tenore di vita e per potermi comperare tutto quello che desideravo. Ho nascosto anche alla mia famiglia quello che facevo realmente e mai loro si sarebbero immaginati da dove arrivavano i soldi che qualche volta davo a casa. Secondo me pensavano andasse tutto bene, ed invece mai avrei detto che un giorno sarebbe arrivata la polizia per arrestarmi.

In questi due anni di carcerazione ho capito molte cose, che niente ha un valore più grande della libertà e che non sono i miei piccoli sfizi che danno la felicità. Mai avrei pensato di dare una delusione ai miei familiari e però devo dire anche che non avrei neppure pensato che mi perdonassero standomi vicini per tutto questo tempo.

Di una cosa sono sicura: che questa esperienza me la porterò con me per tutta la vita. E vorrei essere altrettanto sicura di non sbagliare più.

 

 

“Io in carcere? mai!

Pensavo che la cosa non mi riguardava più di tanto,
in quanto ritenevo impossibile essere coinvolto in qualsiasi storia illegale, finché…”

 

Testimonianza raccolta da Antonio Floris

 

Nonostante si faccia un gran parlare di carcere e dei problemi ad esso legati, come suicidi, sovraffollamento, malasanità, la maggior parte delle persone ascolta queste notizie con indifferenza, come la cosa non le riguardasse: tanto, pensano in molti, io in carcere non ci finirò mai. Intendendo con questo che il carcere è fatto per coloro che se lo cercano, per coloro cioè che hanno scelto di vivere dei proventi dei delitti. Invece chi lavora onestamente e rispetta la legge non ha da porsi questo problema perché la cosa non lo riguarda. Non solo, ma i più affrontano l’argomento con fastidio, come dire: cosa vogliono questi detenuti? In fin dei conti se la sono cercata.

Ma la vita a volte prende pieghe imprevedibili, e può succedere che anche persone da tutti riconosciute come oneste, loro malgrado finiscano in carcere.

Qui in carcere ho raccolto per esempio la testimonianza di una persona indiscutibilmente onesta, di un uomo che ha lavorato per tutta la vita, senza aver mai violato la legge, vale a dire senza aver preso mai una denuncia né una contravvenzione e neanche una semplice sanzione.

“Ho cominciato a lavorare dall’età di 12-13 anni. Finita la quinta elementare ho iniziato ad aiutare i grandi nei lavori di famiglia, e così fino all’età di vent’anni. A vent’anni sono entrato alle dipendenze di un artigiano che possedeva un’officina fabbro-meccanica. Si costrui­vano cancelli, ringhiere e carrelli. A circa 25 anni sono stato assunto da un’industria di elettrodomestici, dove ho lavorato ininterrottamente per 29 anni, fino all’età della pensione. Per tutta la vita mia il pensiero dominante era di procurare i mezzi di un sostentamento dignitoso a mia moglie e ai miei due figli. Col mio lavoro e i miei risparmi sono riuscito sia a comprarmi una casa che a mandare i miei due figli (un maschio e una femmina) a studiare. Entrambi hanno conseguito il diploma di scuole medie superiori, una in ragioneria e uno in istituto tecnico. Vorrei anche precisare che nessuno nella mia famiglia ha avuto mai problemi con la giustizia di nessun genere. Mi piace anche aggiungere che da una ricerca fatta dalla Corte d’Assise di Udine è risultato che i miei antenati, fino a quanto è stato possibile risalire indietro nel tempo, e cioè fino al 1600 circa, non hanno mai avuto contese con la legge. In pratica tutti incensurati.

Con la vita che ho fatto io sono sempre stato un fermissimo sostenitore dell’onestà e del rispetto delle leggi. Per me era, ed è ancora, impensabile ricorrere a guadagni illeciti effettuando reati tipo furti o rapine o peggio ancora spaccio di stupefacenti. Tra l’altro io in tutta la mia vita non ho mai fatto uso di stupefacenti e ho fatto uso di alcool in misura sempre moderatissima. Adesso sono circa 15 anni che neanche ne assaggio.

Cosa ne pensavo io del carcere prima che mi succedesse il fatto che mi ha fatto finire dentro?

Pensavo che la cosa non mi riguardava più di tanto, in quanto ritenevo impossibile essere coinvolto in qualsiasi storia illegale. Non solo io ma neanche nessuno della mia famiglia, in quanto avevo educato i miei figli al rispetto delle leggi, inculcando loro i valori dell’onestà, e di tutte le altre cose che danno dignità alle persone.

Dopo aver trascorso una vita di lavoro, di sacrifici e di risparmi, mi sarei dovuto godere il resto della vita in meritata serenità, e invece sono successi problemi familiari tali, che mi hanno condotto prima alla separazione con mia moglie e poi al divorzio, con conseguente abbandono della casa coniugale per imposizione di legge. Oltre a ciò sono stato condannato al pagamento delle spese processuali per la separazione e la causa di divorzio intentata da mia moglie, il pagamento del suo difensore oltre che del mio. Inoltre al pagamento dell’assegno vitalizio per moglie e figli. Questo sconvolgimento della mia vita e la ferma convinzione di sentirmi truffato mi ha portato a uno stato di esasperazione tale, da indurmi a commettere il reato per il quale sono stato poi condannato e che mi ha fatto finire in carcere.

Ora che ho già settant’anni e mi fermo a riflettere sulla mia esistenza, penso che se sono finito in carcere io, che ero una persona onestissima, si può arrivare alla conclusione che in carcere ci può finire chiunque”. 

 

 

Eravamo un buon esempio per tutti, una famiglia di onesti cittadini

Chi l’avrebbe mai detto che proprio io, che ero partito cosi bene, che ero così sicuro di me stesso, nel momento più bello della mia vita per una piccola difficoltà mi sarei rovinato finendo in galera con un’accusa così grave?

 

di Cesk Zefi

 

Io… mai: ognuno l’ha detto almeno una volta, forse in circostanze diverse, forse perché si sentiva molto sicuro di sé o perché voleva mettere in evidenza l’errore di un altro mostrandosi più bravo.

Ma quali sono i criteri perché uno possa dire “io… mai”? o magari è meglio proprio non dirlo, non pensarlo neppure, che a noi non succederà mai?

Io provengo da una famiglia di religione cattolica praticante, di buoni principi, tutti onesti lavoratori. Mio padre era un insegnante, potrei dire proprio “senza nessun vizio”. Mia madre, devota credente, altrettanto onesta e lavoratrice. Tutti e due sempre presenti nella famiglia a dimostrare ai figli che si deve vivere correttamente, senza dar fastidio all’altro, anzi aiutando il più possibile i più bisognosi, e a dimostrarlo con le loro opere, non solo con le parole, ed essere felici per quello che facevano. Anche se eravamo una famiglia numerosa, non ci è mancato mai niente perché nostro padre ci aveva insegnato a dare il valore giusto a quello che c’è, non a quello che manca, cosi quello che avevamo lo dividevamo ed eravamo contenti. Tutti noi figli abbiamo proseguito gli studi e nel tempo libero ci davamo una mano a vicenda, per i vari lavori che c’erano da fare, eravamo un buon esempio per tutti, una famiglia di onesti cittadini.

Io, il più piccolo della famiglia, gli studi medi li ho fatti in città, in una scuola privata gestita dai preti Gesuiti, che era la migliore scuola in Albania. Appena finiti gli studi, all’età di 18 anni, con il consenso di tutti i famigliari, ho deciso di continuare l’università in Italia. Siccome ero ancora troppo giovane e senza esperienza per poter affrontare la vita da solo in un Paese che non conoscevo e dove non avevo nessuno che mi ospitasse, e dall’altra parte mio padre non si poteva permettere di sostenere le spese per l’intera università, lui mi procurò abbastanza denaro per coprire i costi del primo anno di studi; se io non fossi riuscito a cominciare il secondo anno con le mie forze, sarei dovuto tornare a casa mia e finire l’università là, dove i costi sono minori. In Italia, oltre ogni aspettativa, riuscii a trovare lavori saltuari in bar e ristoranti per mantenermi, e contemporaneamente seguivo i corsi universitari. Così una parte del denaro che non avevo speso, di quello che mi aveva dato mio padre, gliel’ho rispedito, anche per dargli la possibilità di restituire il debito che aveva fatto per me.

I miei erano fieri di me ed io pure di me stesso, perché pian piano stavo affrontando la vita con le mie forze, lavorando onestamente come mio padre mi ha sempre insegnato. Il lavoro però era con contratto a chiamata, avrei dovuto andare a lavorare in qualsiasi orario e periodo, però questo mi rallentava gli studi, soprattutto nei periodi degli esami, giugno-luglio e settembre con più turisti e quindi più lavoro. Spesso ho dovuto fare pure lavori stagionali in località turistiche dove lavoravo tantissimo: da una parte ero contento, però dall’altra mi allontanavo dal mio obiettivo principale, che era quello di finire gli studi.

Così decisi di tornare a Padova e, per poter riprendere gli studi, trovare un lavoro part-time, a orari pomeridiani, e cosi è successo. Trovai un lavoro in una birreria in centro a due passi da casa mia, con orario serale, dove venivo pagato pure bene e non toglievo tanto tempo agli studi. Di meglio non immaginavo, ero contentissimo. Questo durò circa un anno. Poi al mio datore di lavoro scadde il contratto d’affitto del locale e non poté più rinnovarlo, così io persi il lavoro e non potei nemmeno chiedere la disoccupazione, perché avevo un permesso di soggiorno per motivi di studio. Il peggio è che la crisi economica iniziava a colpire proprio nel mio periodo di maggiore difficoltà, e nonostante tutti i miei sforzi non riuscii a trovare lavoro per quasi un altro anno.

La continua ricerca del lavoro mi staccò di nuovo dagli studi. Ero molto stressato e non riuscivo più a concentrarmi nello studio. Il mio orgoglio perché c’è l’avevo fatta fino a quel momento era molto grande, ce l’avevo fatta quando ero più giovane, quando non avevo nessuna esperienza, e questo non mi permetteva di tornare a casa mia e dire a mio padre “non ce la faccio più”. Ero sicuro che se fossi tornato avrei deluso tutti, non pensavo più che se eravamo sempre stati una famiglia felice e avevamo superato ogni ostacolo fino a quel momento, era perché ci siamo dati sempre una mano a vicenda e siamo stati vicini nei momenti difficili, cosi pensai di cavarmela da solo per queste difficoltà, senza che nessuno sapesse niente. Costruendo un mondo di bugie quando parlavo con i miei genitori.

Mi sono allora avvicinato a persone legate al mondo dello spaccio per fare un po’ di soldi. Mi sono messo a disposizione e poi mi sono prestato a detenere della droga per quelle persone, che apprezzavano il mio status da “regolare”, e quindi poco sospettabile. Mi sono prestato sicuro di poter superare le difficoltà in poco tempo e andare avanti con gli studi. Credevo che così non mi sarei dimostrato debole e tutti avrebbero continuato ad essere fieri di me; invece proprio qui ho deluso tutti, i miei genitori perché ho fatto quello che loro non avrebbero voluto mai e poi mai che io facessi, e ho deluso tutti quelli che si fidavano di me e mi stimavano per quello che ero.

Proprio il giorno prima del mio arresto, mi chiamò uno dei titolari dei ristoranti dove avevo fatto richiesta di lavoro precedentemente, in centro a Padova, e andai subito a parlare con lui. Era disposto ad assumermi già il giorno dopo. Gli lasciai tutti i documenti che avevo in tasca per fare le fotocopie, che avrebbe mandato subito in ufficio per farmi il contratto di lavoro, già praticamente pronto. E il giorno dopo avrei dovuto cominciare a lavorare.

Non ero mai stato così contento per aver trovato un’opportunità lavorativa. Avevo deciso di chiudere con il mondo dello spaccio. Dalla gioia, chiamai tutti i miei famigliari per dare la notizia che avevo trovato un lavoro migliore. Infatti loro pensavano che io lavorassi saltuariamente, e non immaginavano mai che fossi così disperato e stupido da mettermi nei guai.

Mandai un messaggio anche a un’amica parrucchiera, dicendole che sarei andato di mattina presto a sistemarmi i capelli per essere più presentabile per lavorare in un ristorante come quello nel centro di Padova. Rimaneva il problema di restituire al più presto la droga che detenevo, ciò che non ho potuto fare subito perché non era facile contattare i “proprietari” dei quali non avevo alcun recapito. Ma il destino ha voluto che il giorno dopo, alle cinque e mezzo di mattina, mi sono trovato circondato in casa dai carabinieri: sono entrati, hanno trovato lo stupefacente e mi hanno arrestato.

Adesso che mi trovo in carcere da due anni e ho ripensato mille volte agli errori fatti, l’unica cosa che mi dà un po’ di sollievo è il fatto che ho ripreso gli studi e spero in qualche modo di rimediare. Chi l’avrebbe mai detto che proprio io, che ero partito cosi bene, che ero così sicuro di me stesso, nel momento più bello della mia vita per una piccola difficoltà mi sarei rovinato finendo in galera con un’accusa così grave? Quello di cui sono sicuro è che non riuscirò mai a perdonarmi di aver fatto questo errore, comunque vada questa carcerazione, e indipendentemente da ciò che mi riserverà il futuro.