Sprigionare gli affetti

 

Famiglie travolte dal carcere

Parliamo di famigliari dei detenuti,

perché sono innocenti, perché sono vittime

Forse la società tutta dovrebbe interrogarsi, se oltre a rinchiudere in carcere chi ha violato le leggi, sia anche giusto togliergli di fatto la possibilità di salvare il rapporto con moglie, figli, nipoti

 

Chiedere alle persone, in un momento di rabbia, paura, incattivimento generale come questo, di provare a pensare che tutti noi potremmo essere vittime di reati, ma che ci potrebbe capitare anche di commetterlo, un reato, è inutile, nessuno vuole neppure provare a immaginare una possibilità così dolorosa, e così poco “rassicurante”. Però almeno cercare di mettersi nei panni del famigliare di un detenuto, quello non dovrebbe essere così difficile, perché i famigliari sono davvero innocenti, e pagano per colpe non loro, ma anche per l’indifferenza di una società, che non ha voglia di preoccuparsi troppo per le “famiglie dei delinquenti”.

Una galera “rovina famiglie”

 

di Milan Grgic

 

Ho anch’io dei figli come tanti compagni chiusi qui con me. Fra qualche mese saranno dieci anni che mi trovo in carcere, condannato per traffici illeciti (altro che dire che in Italia nessuno sta in carcere!). Ho sbagliato e sto facendomi la galera senza lamentarmi, però anche i miei figli stanno facendosi la galera in un altro senso senza nessuna colpa, sono rimasti soli come me.

Mi sono sposato a trent’anni. Avendo avuto una infanzia dura, mi ero fissato con l’idea che non dovevo fare figli prima di assicurar loro un tetto sopra la testa, come si dice nel mio Paese. Ma non era facile. Ho dovuto fare tanti lavori e sono arrivato a scegliere la strada sbagliata, e come si vede sto pagando. Però, per me questa condanna si è moltiplicata, nel senso che ho perso la famiglia durante la mia carcerazione, prima mia madre e poi mio padre se ne sono andati per sempre senza che li abbia più rivisti, e con loro se ne è andata una parte della mia vita.

Ma per me il colpo più duro è stato quando mio figlio è venuto a colloquio nel carcere di Novara, dove i familiari erano separati dai detenuti da un vetro, e non potendo sedersi sulle mie ginocchia mi ha detto che non sarebbe più venuto a trovarmi. Pensavo fosse un capriccio, invece le cose sono andate proprio così, e per me è stato un duro colpo. In tutti questi anni ho scritto decine di lettere senza mai avere una risposta, qualcuno mi ha detto che per lui la brusca separazione è stata un trauma. Credo che, essendo abituato quando ero a casa a stare sempre con me giorno e notte, si è visto di colpo mancare il padre e non ha accettato questa situazione. Anche per me è stato un colpo, solo che ho cercato di nascondere i miei sentimenti. Successivamente mia moglie mi ha lasciato e questo ha causato un ulteriore allontanamento di mio figlio.

In dieci anni di carcere l’ho visto tre volte, l’ultima è stata due anni fa, e mi sono domandato: perché mi abbracciava e piangeva senza dire una parola? Ho pianto anch’io, perché oltre a prendere atto di quanto sia cresciuto non ho potuto far altro, se non qualche carezza. Questo fatto mi ha segnato molto, ogni sera prendo un pugno di farmaci poiché la sofferenza e i sensi di colpa mi stanno facendo venire fuori un mare di malattie. Mi sono rovinato da solo, ma la mia responsabilità è più grande per aver rovinato la vita di mio figlio, la cui unica colpa è di avermi avuto come padre, anche se sono sicuro che nessuno in questo mondo lo amerà come l’ho amato io. Però non riesco ad accettare che la galera mi abbia inflitto il duro colpo di spezzare i nostri legami famigliari.

Penso che la società potrebbe e dovrebbe fare di più per le famiglie, anche per quelle dei detenuti, in modo che non si spezzino i rapporti affettivi, perché, che siano ricchi, poveri, carcerati o emigrati i loro genitori, i figli sono tutti uguali.

Il peso della nostra condanna sui figli

 

di Marco Libietti

 

Durante un colloquio, mia moglie mi ha detto che mio figlio, dopo aver letto quello che gli avevo scritto, si è girato verso di lei dicendo: “Vorrei che fosse qui a dirmi queste cose”.

Noi detenuti siamo spesso tenuti all’oscuro, da parte delle nostre famiglie, della sofferenza dei nostri figli. Durante i colloqui cerchiamo di non fare capire ai nostri cari quanto possa essere opprimente qui, e loro, a loro volta, fanno in modo di tacere il loro stato d’animo, sul quale la nostra condanna, il nostro status di carcerati, pesa spesso più che a noi.

Io sono dentro da 15 mesi e i miei figli hanno 20 e 17 anni, erano in qualche modo “preparati” al mio ingresso in carcere. Ciononostante, mia figlia, che pure ha 20 anni, poche settimane fa mi ha chiesto: “Papà, quando torni a casa?”.

Ma se è così per loro, come può essere per quei figli che hanno il genitore in carcere da anni? Per quei bambini di 2, 5, 10 anni che, per due o tre volte al mese (se sono fortunati) vivono il trauma delle sbarre, delle porte blindate, di essere perquisiti e vedere perquisita la madre e controllati i cibi e i vestiti portati al loro padre, zio, nonno? Che voglia straripante possono avere di passare un po’ più di tempo con chi a loro è, in ogni caso, tanto caro?

A noi è stata tolta la libertà, ma perché a loro deve essere tolto l’affetto, la possibilità di un vero contatto, di una affettività famigliare che è imprescindibile per una crescita emotiva sana ed equilibrata? Certo è colpa nostra se soffrono, ma questo nulla toglie al fatto che la legge, i regolamenti in materia siano limitati, retrogradi, aridi.

Quale persona di buon senso, quale padre, madre o figlio, può mai affermare che è giusto che questi bambini incontrino il loro caro in mezzo ad un marasma di gente totalmente estranea, senza poterlo abbracciare o baciare (altrimenti arriva l’agente a ricordare che non si può, pena la fine anticipata del colloquio) senza poter esternare i propri sentimenti (devono tutti dimostrarsi forti e sorridenti anche se avrebbero caso mai voglia di piangere e di urlare…) e questo dopo aver subito “l’onta” di una perquisizione alla stregua di potenziali “pacchi esplosivi”? Più scrivo e più mi rendo conto della loro sofferenza, di quanto possa essere stato cieco chi è qui dentro e quale forma di spregevole egoismo verso i propri figli, i propri nipoti, possa aver avuto, ma perché lo stesso, anzi peggio fa questo Stato nei loro confronti?

Credo che una società che si definisce civile non possa permettere, nella massima indifferenza, che sia inflitta una condanna di tale portata a questi innocenti. La forza, la coscienza e il grado di civiltà di una società li si “pesa” in primo luogo da come sa proteggere il futuro dei propri ragazzi. Speriamo allora che mettano mano a questo pasticcio e concedano a loro e a noi mentre scontiamo la nostra pena di poter mantenere quel minimo di equilibrio affettivo, senza il quale qualsiasi bambino e adolescente rischia una deriva interiore drammatica.

Mia figlia, una bambina stressata

per la mia assenza e arrabbiata con me

 

di Walter Sponga

 

Sono stato arrestato in Francia nel 1993, quando mia figlia aveva appena cinque anni. Dal momento della mia incarcerazione i servizi sociali hanno fatto tutto il necessario perché io riuscissi a mantenere il mio rapporto con mia figlia e la mia convivente. Devo ammettere però che in quel momento non volevo vedere nessuno, tanto meno la mia compagna e la nostra bambina, in quanto la situazione era grave e io non sapevo proprio come affrontarla.

Dopo aver preso questa decisione, non ho più inoltrato le richieste d’autorizzazione per i colloqui. Tre mesi più tardi sono stato convocato dal servizio sociale dell’istituto, che mi ha chiesto i motivi per cui non volevo effettuare i colloqui con i miei famigliari. Io mi sono limitato a ribadire il mio rifiuto più categorico, e la stessa cosa ho detto al direttore dell’istituto.

Pensavo che tutto sarebbe finito li, ma mi ero sbagliato, circa un mese più tardi a convocarmi fu il Giudice di applicazione delle pene. Ricordo che lui mi ha spiegato quanto è importante, per un bambino in tenera età, avere, nonostante la situazione, la presenza paterna. A forza di insistere mi ha convinto, e per questa sua insistenza posso solo ringraziarlo. Infatti ho inoltrato la richiesta per i permessi di colloqui.

Al mio primo colloquio, mi sono trovato davanti una bambina di sei anni che quasi non riconoscevo, stressata per la mia assenza e arrabbiata con me. Ha cominciato a piangere e gridare che non l’amavo più, che l’avevo abbandonata, che non capiva cosa avesse fatto di male perché non la volevo vedere.

Nel carcere dove mi trovavo i colloqui erano autorizzati tutti i giorni fino alle 17.30. Questo mi ha permesso di trascorrere praticamente una settimana con lei e quando lei e sua madre sono partite per Marsiglia era molto più serena. In seguito, la vedevo una settimana ogni tre mesi, anche perché il viaggio costava molto, e la mia compagna si era trovata a doversi assumere tutte le responsabilità che le avevo lasciato.

Un giorno, parlando con la responsabile del servizio sociale dell’istituto, le ho raccontato che purtroppo non era possibile per i miei famigliari venirmi a trovare più spesso, in quanto i soldi non erano sufficienti. Mi ha risposto che, se era solo questo il problema, ci avrebbero aiutato loro. E infatti all’inizio si sono fatti carico delle spese del viaggio, poi hanno trovato un lavoro e una abitazione per loro vicino all’istituto.

Quello che mi lascia perplesso qui in Italia è che tutti parlano di preservare questi legami, ma quasi nessuno fa niente, solo chiacchiere.

Vorremmo solo un po’ di intimità

 

di Maurizio Bertani

 

Ho vissuto in galera, anche se “a spezzoni”, gli ultimi trent’anni della mia vita. Con l’ingresso in carcere, una persona viene a perdere tutti i suoi ruoli naturali, di figlio, di marito e di padre. Mio figlio fin da piccolo mi ha conosciuto nelle sale colloqui delle carceri, era un rapporto basato sul nulla perché nulla si poteva costruire in quella stanza dove, in uno spazio di 80 metri quadri, ti ritrovavi in 10 detenuti con le rispettive famiglie,nella confusione più totale, e tutto questo per un’ora, e senza neppure poter abbracciare mio figlio. In queste condizioni ci provi qualcuno a costruire un minimo di rapporto con i propri figli, o mantenere un rapporto decente con la propria moglie!

Mi ritengo fortunato di avere una moglie che si è sacrificata per insegnare a mio figlio chi era suo padre, ma ricordo benissimo il suo volto quando, dopo che aveva compiuto otto anni, abbiamo cominciato a spiegargli come stavano le cose, cioè che io, suo padre, ero in carcere. Allora facevamo dei colloqui in cui non si riusciva nemmeno a parlare per quella mancanza di intimità, che ci toglieva ogni possibilità di rapporto.

Il periodo più brutto per mio figlio è stato dai 14 ai 16 anni. Dopo che abbiamo trascorso un’estate insieme, io sono ritornato in carcere, e quei mesi in cui si era instaurato un forte legame tra me e lui sono stati importanti, ma altrettanto devastanti. Nel momento del mio rientro in galera, lui si è trovato doppiamente smarrito: perché ormai aveva la piena consapevolezza di cosa era il carcere, e perché si è ritrovato di nuovo solo ad affrontare un rapporto inesistente nelle sale colloqui. Oggi mio figlio non c’è più, e io maledico ogni giorno di tutti i giorni che non gli sono stato accanto. Mi ha lasciato tre splendidi nipoti, e anche qui devo tutto a mia moglie se mi riconoscono come nonno, ma la realtà è che la storia si ripete, e ancora nonostante sia cambiato millennio ci sono sempre i problemi del secolo scorso, come se il carcere fosse un impero immobile.

Non riesco a costruire un rapporto vero con i miei nipoti, i due più grandicelli sono al corrente della situazione, e rivedo in loro lo stesso atteggiamento del padre, un po’ scostante, dovuto alla mancanza di quel minimo di riservatezza nel colloquio che ci permetterebbe di costruire qualcosa insieme. La più piccola invece non è consapevole della situazione, ma lo sarà presto. Questa è ancora la realtà del rapporto che si riesce a costruire all’interno delle carceri italiane fra il cittadino detenuto e i propri figli e nipoti. E se chiediamo di poter mantenere unita la famiglia con una forma di colloquio che abbia qualcosa di umano, di intimo, ci rispondono che non ci sono mezzi, non ci sono spazi, o forse manca la volontà sociale per fare questo.

Ma quale civiltà ci può essere in una società che non ha permesso a mio figlio, che non aveva colpe, di avere vent’anni fa un rapporto affettivo con suo padre, e quale civiltà c’è oggi che non permette ai miei nipoti, che non hanno colpe, di costruire un rapporto con il loro nonno?

Sono certo di non essere stato un buon padre con mio figlio allora, e attualmente non sono in grado di essere un buon nonno per i miei nipoti, spero solo di avere del tempo per rimediare almeno un po’ con loro.

Sto provando a restituire ai miei figli

l’amore che non ho potuto dargli prima

 

di Prince Obayangbon

 

Mi trovo in carcere da molti anni e probabilmente questa situazione ha stimolato in me una maggior consapevolezza di essere stato sempre un padre assente, e forse di questo non mi sarei accorto in una situazione di normalità, ad esempio se mi fossi allontanato da casa per lavoro.

Quando viene a mancare il padre nel nucleo familiare, il modo in cui la moglie affronta questa situazione all’interno della famiglia diventa naturalmente fondamentale. Fino ad oggi io posso solo ringraziare mia moglie, che è riuscita a ridurre il danno irreparabile causato dalla mia improvvisa assenza. Sono quasi dieci anni adesso che lei si sta occupando quotidianamente dei nostri figli e, oltre alle tante preoccupazioni che si deve sobbarcare, fa i colloqui con me per sei ore al mese, tutte quelle consentite in carcere, permettendomi così di instaurare con i nostri figli un rapporto che assomigli in qualche modo a quello di un padre presente, e di questo prezioso lavoro di mediazione di mia moglie oggi posso raccogliere i frutti e dare ai miei figli l’amore che gli è mancato in questi anni.

Da quando ho la fortuna di poter usufruire di alcuni giorni di permessi premio in famiglia, ho trovato la nostra casa diversa, nonostante la presenza nei miei cari di un sentimento d’affetto forte, e la loro voglia di riconoscere ancora e nonostante tutto la mia figura paterna. In ogni caso, questi permessi mi danno modo di cominciare una nuova vita insieme, anche se con grandi difficoltà. Ricordo che i primi tempi a volte i miei figli si sbagliavano e mi chiamavano zio. Un giorno è successo che ho rimproverato mia figlia per un comportamento che non mi pareva molto corretto e lei si è ribellata come se la critica le fosse arrivata da un estraneo, e poi, quando abbiamo fatto pace, mi ha confessato di non essere ancora abituata alla mia presenza in casa.

Questi sono solo alcuni degli aspetti di questa fatica di recuperare un ruolo in famiglia, ma quello che più mi preoccupa è che vedo nei miei figli tanti disagi psicologici, di comportamento e mentali che hanno una gravità che a volte mi sembra quasi irrimediabile, oltre a quello che i miei familiari subiscono a scuola e nel quartiere in cui vivono, per il solo fatto di avere una persona cara in carcere e oltretutto, peggio ancora, per essere stranieri. Ultimamente poi sono ancora più preoccupato per il futuro della mia famiglia, specialmente perché immaginare i miei figli e mia moglie soli nell’Italia di oggi, con il clima di paura e odio che c’è, mi mette una grande ansia.

Aspettando un colloquio a lungo negato

 

di Elton Kalica

 

Faceva già freddo ma i caloriferi non erano ancora accesi nella sala colloqui, quando mia madre venne a trovarmi un anno e mezzo fa. Il suo visto d’ingresso in Italia era di soli dieci giorni, così, per due settimane, ho passato notti insonni per l’emozione, ad aspettare le poche ore di colloquio che ci erano consentite.

Oggi ho saputo che, dopo ripetute richieste respinte, alla fine il Consolato italiano ha concesso un visto ai miei genitori per venire in Italia a trovarmi. Sono passate alcune ore da quando ho appreso la notizia, tuttavia sento ancora il cuore gonfiarsi di gioia, anche se devo confessare che la mia felicità è causata per la maggior parte dall’idea che finalmente vedrò mio padre.

Mentre mia madre è venuta a trovarmi da poco, mio padre non riesce ad avere un visto da molto tempo, cinque anni, forse sei o sette, anzi credo che sia venuto a trovarmi nel duemilauno. Molto, molto tempo è passato, anche se in carcere sembra così ridicolo misurare il periodo che ci divide dalle persone: anche se valuto “poco tempo” i diciotto mesi trascorsi dall’ultima visita di mia madre, mi viene in mente che una volta sono scappato dalla colonia estiva dopo appena una settimana e, di fronte a due genitori sorpresi, ho confessato che non potevo stare così a lungo senza di loro, mentre ora mi accorgo che la mia concezione di “tempo lungo” è diventata molto relativa.

Di sicuro a mia madre sembra di non vedermi da un’eternità. Così, schiacciata dal bisogno di riabbracciarmi, è andata ripetutamente all’ambasciata italiana di Tirana per implorare di lasciarla venire in Italia a incontrare suo figlio in carcere, ma si è vista rifiutare a lungo questa possibilità. Spinta però dall’urgenza di vedermi e parlarmi, ha trovato il coraggio per ripresentarsi finché non è riuscita ad ottenere un permesso.

Quando i miei verranno a trovarmi, sarà già primavera e nella sala colloqui, per tutto il tempo che il carcere concede, tra un abbraccio e l’altro ci guarderemo a vicenda per capire quanto ci hanno cambiati gli anni e quanto ci hanno segnato le sofferenze; parleremo e ci racconteremo tante cose scoprendo quanto differenti da quello che immaginavamo sono le vite che abbiamo costruito in questi anni, e come le nostre teste hanno seguito strade diverse e come conserviamo ancora parole, sentimenti, rumori, sapori, dolori, felicità e ricordi comuni e lontani. La pelle del viso si accenderà sotto le lacrime, gli abbracci dovranno essere per forza veloci, e lo stomaco si stringerà sussultante dalla paura dell’addio, che ci lascerà il mistero della prossima visita, forse fra poco tempo, o di nuovo fra molto, molto tempo.

 

 

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