Radiocarcere

 

Si sta superando ogni limite “tollerabile”

Carceri come bombe a orologeria

Sono in tanti a pensare che serve più galera e anche meno “generosità” nel trattare i reclusi

 

Che ne sarà delle carceri italiane fra qualche mese? Oggi sono quasi 61.000 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43.530, c’è gente che arriva in carcere e finisce a dormire per terra, si sta superando ogni limite “tollerabile”. Eppure, buona parte della popolazione è convinta che va bene così, anzi ci vuole più galera e anche meno “generosità” nel trattare i reclusi. E tutto questo con l’idea che si possa garantire la sicurezza dei cittadini trattando più duramente gli autori di reato. Le testimonianze dal carcere che portiamo hanno un solo scopo, far riflettere e scalfire qualche certezza.

Questo desiderio di essere intransigenti nel punire

 

di Salvatore Allia

 

In un incontro tra noi detenuti e i ragazzi delle scuole con cui stiamo facendo un percorso di confronto, mi ha particolarmente colpito uno studente diciottenne che ci ha raccontato quello che era appena successo a un suo amico: una rapina in casa, forse per vendetta, durante la quale lui e il padre sono stati riempiti di botte. Mentre ne parlava aveva la voce tremante di rabbia, così deciso, così determinato che non ho potuto fare a meno di intervenire e cercare di spiegargli che comprendevo quel suo stato emotivo, perché anch’io ho vissuto una situazione simile, che purtroppo poi mi ha portato a commettere il reato per cui sono recluso. Facevo l’imprenditore, ho ucciso un uomo per vendetta, so bene che a volte la rabbia ci porta a fare cose che non sono razionali, delle quali poi paghiamo le conseguenze, fra le quali c’è una sofferenza che pian piano ci logora inesorabilmente.

Non potevo perdere l’occasione per trasmettere la mia esperienza a quel ragazzo, che per altro ha l’età di mio figlio. Quel giorno lui ha detto che per l’uomo che ha aggredito il suo amico ci vorrebbe la pena di morte. Io ho pensato allora che la pena di morte forse “risolverebbe” anche tanti dei problemi che ho provocato. La madre della mia vittima è carica di odio e di dolore, ma se io non ci fossi più forse troverebbe pace dentro di sé; la mia, di madre, mi piangerebbe e poi imparerebbe a convivere con il dolore, a cui subentrerebbe la rassegnazione di non avere più un figlio. Mia moglie, anziché sperare e aspettare, si renderebbe conto che farsi un’altra vita farebbe bene a lei e anche a mio figlio. Ma io ormai, nonostante abbia capito l’errore che ho fatto, e certo vorrei che tutto questo non fosse mai successo, indietro non posso tornare, quello che mi è concesso fare è vivere tutti i giorni soffrendo un po’ per volta.

In molti qui dentro non riusciamo a superare la pena che ci siamo “costruiti” noi stessi con le nostre scelte sbagliate, come è successo a quel trentenne che alla guida dell’auto in stato di ebbrezza ha ucciso una ragazza di sedici anni, è stato condannato a tre anni dal giudice, ma la condanna peggiore è quella che si è inflitto da solo. Si è condannato a morte impiccandosi dopo la scarcerazione. Avendo vissuto una sensazione simile ho capito che la pena inflittagli dal giudice non era niente rispetto al dolore che provava per quella ragazza. È vero, ha bevuto in una sera come tante altre e ha anche guidato come non doveva fare, senza pensare che una serata al bar con gli amici avrebbe causato un disastro così grande. Forse ora che si è autocondannato la società civile avrà capito che comunque non era un mostro, e che la sua sofferenza era vera.

Come riaccendere la speranza di un detenuto

Quando un detenuto può migliorare, quando invece può solo peggiorare

 

di Serghei Vitali

 

Ho iniziato la mia carcerazione in Francia, quando avevo diciannove anni. Essendo così giovane mi hanno offerto un lavoro, inoltre frequentavo la scuola per imparare la lingua francese, e in questo modo mi era più facile la carcerazione. Così con il lavoro guadagnavo abbastanza per essere autosufficiente, questo significa che miglioravo in tanti punti la mia vita. Ma l’esperienza francese si è interrotta dopo un anno per il fatto che sono stato estradato in Italia.

Quando sono arrivato in Italia, sono stato in carceri circondariali, dove la situazione era molto peggiore, nessuno mi ha detto come funzionava la galera e a chi dovevo rivolgermi per inserirmi in qualsiasi attività. In quei giorni che passavo senza fare nulla, sentivo che stavo cambiando dentro di me, non avevo più voglia di parlare con nessuno, perché già sapevo quello che mi dicevano. Così mi sono chiuso in me stesso e ho cominciato a pensare solo a che condanna avrei preso.

Stavo sempre in ansia perché non sapevo niente di nessuno, e tanto meno dove sarei finito. Dopo un paio di mesi ho visto che non c’era nulla in cui impegnarmi, così ho ripreso a fare sport, perché era l’unica cosa che riusciva a diminuire la tensione che sentivo crescere in me, e poi scrivevo lettere e leggevo, così mi passavano un po’ le giornate, ma peggioravo perché mi chiudevo ancora di più dentro di me. In queste condizioni mi accorgevo che mi stavo incattivendo e isolando, e non pensavo più al mio futuro ma solo ad ammazzare il tempo. Stavo sempre lontano da tutti perché avevo paura di fare del male a qualcuno, con tutta la rabbia che avevo dentro; e così passavo mesi senza la minima possibilità di partecipare a una attività, fin quando sono diventato definitivo e mi hanno trasferito nel carcere di Padova, dove ho trovato un’aria diversa.

Qui sentivo che potevo scontare la mia pena con meno sofferenza, perché tutte le persone che vedevo intorno a me erano diverse, e cominciavo a capire che speravano in qualcosa, e cioè nella opportunità di un nuovo percorso, un lavoro fisso, un inserimento nelle scuole. Queste sono le possibilità che fanno cambiare un detenuto da negativo a positivo.

Così mi sono ripreso e ho iniziato a frequentare le scuole, la redazione, ora sto anche lavorando, sono arrivato al punto che sento di dire che dentro di me la mia vita è migliorata, e non sono più così disperato e pieno di rabbia e rancore, ma sono pieno di speranza per un domani, in cui anch’io potrò riavere una vita vera.

Se un detenuto non ha nessuno che gli dia una speranza, da solo non può farcela, e finisce per chiudersi in se stesso, la solitudine cambia le persone in peggio, e questo non è un buon risultato per la sicurezza di tutti i cittadini.

Un triste record: siamo a 61.000 detenuti

In ottanta stipati in una palestra: succede già in qualche carcere

È difficile pensare di ricostruirsi una vita dignitosa e responsabile se si vive in condizioni

disumane, costretti a dormire su un materasso steso per terra in una palestra

 

Parlare di un carcere che deve reinserire le persone sembra oggi quasi ridicolo, perché è difficile pensare di ricostruirsi una vita dignitosa e responsabile se si vive in galere, come quella di Torino, dove gli ultimi ottanta detenuti arrivati sono costretti a dormire su un materasso steso per terra in una palestra. E situazioni simili stanno diventando ormai la “normalità”. Costruire nuove carceri? O piuttosto ripensare alle pene, e al fatto che sono sempre di più i giovani che finiscono nell’illegalità, e magari potrebbero scontare pene più efficaci fuori dalla solita logica reato-galera?

Carceri abitate sempre più spesso da giovani detenuti

 

di Andrea Andriotto

 

Ho letto che uno dei dati più preoccupanti sulla criminalità è quello secondo il quale, negli ultimi anni, crescono i reati commessi da persone giovani. Basta vedere quanto succede in uno dei più grandi carceri del nostro Paese, San Vittore, come lo racconta la sua direttrice, Gloria Manzelli: “Purtroppo sembra che ci sia realmente un incremento dei reati commessi dai più giovani. Fra i giovani adulti arrivati in carcere nel 2008, 1500 sono sotto i 25 anni; due hanno 18 anni, sessanta 19 anni. Poi ci sono 153 ventenni, 128 ventunenni, e 1036 ragazzi fra i 22 e i 25 anni. È anche alla luce di questi dati che ci stiamo dando da fare per creare strutture in grado di seguire al meglio i giovanissimi”.

Io nel carcere di Padova faccio un lavoro che mi permette di girare nelle sezioni, e ultimamente vedo arrivare persone sempre più giovani, consumate dalla droga, ragazzi che passano le giornate stesi in branda, da dove si alzano praticamente solo per prendere quella che in galera si chiama la “TERAPIA”, cioè quegli psicofarmaci che ti permettono di anestetizzare la sofferenza e l’assenza di qualsiasi speranza dormendo. Sono ragazzi finiti in carcere per reati legati all’uso di sostanze, anfetamine, ecstasy, quelle droghe sintetiche che i giovani assumono con grande disinvoltura, sottovalutando i rischi che corrono: lo vediamo quando incontriamo qui dentro le classi di studenti, e capiamo quanto siano diffusi comportamenti che sfiorano l’illegalità. Tanto, in galera nel nostro Paese non ci finisce nessuno! pensano. E invece la legge sugli stupefacenti sta portando in galera sempre più giovani, e sta diventando sempre più difficile per loro accedere a misure come l’affidamento in prova ai Servizi sociali, le uniche che gli permetterebbero di cercare di farsi aiutare e di curarsi, piuttosto che “marcire”, perché di questo si tratta, in galera.

Tutte le volte che incontro facce giovani, io che in carcere ci sono finito quando avevo poco più di vent’anni, anch’io per reati legati alla tossicodipendenza, e ora di anni ne ho trentacinque, mi si stringe il cuore a pensare al destino che li aspetta: mentre io, per lo meno, la detenzione l’ho vissuta non buttando il tempo, ma impegnandomi in attività che mi hanno aiutato a crescere, penso che per loro il carcere sovraffollato di oggi sarà solo tempo inutile.

Le carceri dove si dovrebbe insegnare il rispetto

delle regole sono oggi nella totale illegalità

 

di Vanni Lonardi

 

Finalmente qualcosa si muove, dalle chiacchiere si passa ai fatti. La ricetta con cui il ministro Alfano aveva promesso di risolvere l’emergenza sovraffollamento delle carceri, costruendo nuove galere, sembra ora destinata a concretizzarsi: si faranno le nuove carceri, per il bene sociale e per dar spazio anche agli autori dei nuovi reati inseriti negli ultimi pacchetti sicurezza, come i clandestini, chi offende pubblici ufficiali, chi abbandona rifiuti.

Il primo aprile è uscito quindi un comunicato pieno di soddisfazione del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) con la notizia che tutti, operatori e detenuti, aspettavano: agganciandosi al nuovo piano casa del governo, si amplieranno le carceri già esistenti di un buon 35 per cento di cubatura, il che significa nuove celle e 14mila nuovi posti letto regolamentari. Gli stessi detenuti saranno impiegati nei lavori edili e i tempi per la costruzione di nuovi penitenziari saranno relativamente brevi, dai 18 ai 24 mesi. Visto il grave problema della carenza di personale, nel comunicato si parla esplicitamente dell’assunzione di 25mila nuovi agenti.

Peccato che le agenzie di stampa, che hanno diffuso la dichiarazione del Sappe, non abbiano troppo badato né alla data del comunicato, né soprattutto al suo contenuto: si tratta, infatti, di un pesce d’aprile, ma dietro l’ironia c’è una denuncia serissima del sindacato penitenziario, che meriterebbe una seria valutazione da parte dei politici. Quegli stessi che da troppo tempo sul problema carcere propongono soprattutto soluzioni che non risolvono niente, fingendo di non vedere il vero nodo della questione: ovvero che l’organico degli agenti è già carente, che importanti figure professionali, come gli educatori, sono enormemente al di sotto degli organici (nella Casa di reclusione di Padova, per esempio, 3 per 750 detenuti), e che le strutture sono vecchie e fatiscenti; eppure si continuano a proporre nuove carceri come panacea di tutti i mali, quando non si riesce nemmeno a gestire dignitosamente quelle che abbiamo, e ce ne sono di chiuse che non si aprono per mancanza di personale. La drammatica situazione attuale rende estremamente difficoltose le condizioni di lavoro degli stessi agenti penitenziari e sempre più scadente la qualità di vita di noi detenuti che, stipati tutto il giorno in angusti spazi, da condannati “recuperabili” rischiamo di diventare una bomba a orologeria con un alto potenziale di recidiva.

Servirebbero coraggiose scelte rivolte a ideare efficaci strumenti per la prevenzione, che non siano solo ed esclusivamente il ricorso al carcere, che dovrebbe davvero tornare ad essere una soluzione da adottare solo per i reati più gravi. Oggi invece è difficile far comprendere, alla persona che ha sbagliato, le sue responsabilità, se il luogo in cui è costretta a vivere è il primo ad essere nell’illegalità.

Le giornate passano tra attese per la doccia e turni per poter usare il bagno

 

di Gentian Germani

 

I nuovi inquilini delle carceri sono sempre più giovani e quasi sempre provengono da famiglie normali, le cosiddette “buone famiglie”. Quando nell’aprile del 2005 sono stato arrestato, essendo questa la prima carcerazione della mia vita, non avevo la minima idea di come fosse fatta una cella e di come ci si potesse vivere all’interno. Arrivato in carcere, dopo la perquisizione e una visita del medico che chiamerei “virtuale”, perché fatta solo di domande e risposte, percorrendo lunghi corridoi e decine di cancelli mi sono ritrovato in una cella piena di letti a castello da tre piani, da dove spuntavano delle teste che a fatica riuscivo a distinguere in mezzo a quel buio. Tra italiani, tunisini, nigeriani e albanesi eravamo in dieci in una cella di venti metri quadri, con un piccolo bagno fatiscente, prevista per tre persone. Solo dopo ho saputo che era un periodo di sovraffollamento e che ero stato fortunato a trovare posto in una cella, perché gli altri arrivati dopo di me erano stati messi in una palestra, che poi era anche sala giochi e aula di scuola.

Le giornate passavano tra lunghe attese per andare in doccia e turni imbarazzanti per poter usare il bagno. In tutto quel via vai di gente, in mezzo a quel fiume di angoscia, non c’era il tempo di pensare a niente, non potevi permetterti debolezze e distrazioni, dovevi essere forte anche quando ti sentivi debole, dovevi sopravvivere.

I mesi passavano e ogni giorno vedevo persone che litigavano per la doccia, per il turno del bagno, per il cibo, per il telecomando o per tante altre cose che possono sembrare assurde a molte persone fuori. Era un continuo scontrarsi di culture diverse, un miscuglio forzato e affollato di caratteri, personalità, mentalità, usanze che si confrontavano in questi spazi angusti, dove ogni piccola cosa diventava un grande problema, dove ogni sentimento veniva amplificato fino all’esasperazione. Andare all’ora d’aria era un lusso che non potevi permetterti se non volevi perdere il turno per la doccia con l’acqua calda, ed ammalarsi non conveniva, perché l’unico rimedio a disposizione era una pillola marrone misteriosa che curava tutti i mali.

Dopo un po’ di mesi fui trasferito in una cella piccola prevista per una persona, ma che in realtà ne ospitava tre. Era una cella con un letto a castello a tre piani, che in tutto faceva otto metri quadri, con la tazza del bagno a vista a trenta centimetri dal letto e a un metro dal tavolo dove si mangiava. La cella era cosi piccola che quando una persona si muoveva, gli altri due dovevano stare immobili nel loro letto, nel quale passava la maggior parte della vita dei detenuti. Vivere in quelle condizioni disumane richiedeva una continua lotta per cercare di non farsi trasportare dal vortice di violenza e provocazioni che c’era intorno. In quelle condizioni quasi animalesche è molto difficile che una persona prenda coscienza dei propri errori ed accetti le proprie responsabilità per il reato commesso, e un possibile reinserimento nella società diventa quasi un miraggio.

10 suicidi in un mese: un nuovo “record” per le carceri

La prospettiva di una detenzione in condizioni “inumane” e

priva di stimoli positivi fa perdere ogni speranza ai detenuti

La Redazione

 

Il mese di marzo 2009 ha segnato un drammatico “record” nella storia delle carceri italiane: 10 detenuti si sono uccisi (5 di loro erano ventenni o poco più), quindi si è verificato in media un suicidio ogni 3 giorni.

Da quando abbiamo iniziato a raccogliere i dati del Dossier Morire di carcere (nel 2002) non si era mai registrato un numero così elevato di suicidi in carcere, ed anche nel primo trimestre dell’anno (con 19 casi) è stato superato il precedente “picco”, che risaliva al 2005 (18 casi).

Si comprende perfettamente come esista una stretta relazione tra il grado di affollamento delle carceri e il numero dei suicidi: nel primo trimestre del 2007 – a pochi mesi dal provvedimento di indulto che sfollò momentaneamente le carceri – ci furono soltanto 2 suicidi!

Va pure sottolineato che l’ormai cronica insufficienza numerica del personale deputato al “trattamento” (psicologi, educatori) e alla sorveglianza (agenti di polizia penitenziaria) determina di fatto un “abbandono” dei detenuti nelle celle.

La prospettiva di una detenzione in condizioni “inumane” (come denunciato dallo stesso Ministro della Giustizia) e priva di stimoli positivi fa perdere ogni speranza ai detenuti, soprattutto ai giovani che entrano in carcere per la prima volta. Ragazzi di vent’anni, arrestati anche per reati di poco conto, che non riescono a trovare un appiglio, ad avere fiducia in un possibile recupero, in una vita migliore senza reati e senza carcere.

Il dramma non riguarda soltanto i detenuti, ma tutta la nostra società, che sembra aver dimenticato i principi di una pena “civile”: dura sì, ma volta al recupero delle persone condannate, non al loro annientamento. (Vedi il Dossier Morire di carcere di marzo e aprile 2009)

 

In carcere ci si uccide molto più di quanto accade nella società libera

 

A Jed Zarog, il ragazzo tunisino di appena trent’anni trovato impiccato in cella nella Casa circondariale di via Due Palazzi a Padova, la cronaca locale non ha dedicato che poche righe. Jed era incensurato, in attesa di giudizio e pertanto ancora presunto innocente. Per lui erano i primi giorni di galera, un momento di grande sofferenza, in particolar modo per gli stranieri, che non hanno possibilità di supporto da parte dei familiari e nessuna prospettiva di fronte a sé. In carcere ci si uccide molto più di quanto accade nella società libera, ma dietro a ogni numero c’è una storia complessa che non potrà essere più raccontata e quest’impossibilità ci turba profondamente. Per questo abbiamo deciso di parlarne sempre più spesso, con la convinzione che solo un carcere aperto, in cui siano sempre garantiti quello scambio e quella partecipazione necessarie a far sì che una persona si senta comunque parte di una comunità, possa costituire almeno un tentativo di risposta.

Ma quali patologie?

Spesso è la vita da galera che spinge al suicidio

 

di Vanni Lonardi

 

In carcere il suicidio è considerato un “evento critico”, al pari degli atti di aggressione o delle manifestazioni di protesta, come se la rinuncia alla propria vita meritasse una sanzione disciplinare (e così difatti avviene spesso nel caso rimanga “solo” un tentativo non riuscito) e non, invece, una presa di coscienza da parte del personale di sorveglianza, del personale sanitario e della società della presenza di uno stato di disagio profondo.

L’esperienza di questi anni di carcere mi fa pensare che il suicidio sia spesso un atto lucidissimo. Bisogna infatti imporsi un coraggio estremo per togliersi la vita. E non penso sia possibile una prevenzione efficace: qualcuno sostiene che prima del suicidio si notino segnali premonitori, qualcun altro, col senno di poi, rammenta di averli scorti ma non capiti nel loro “vero” significato. Fosse così semplice, ogni giorno dovrei segnalare decine di detenuti “sospetti”, perché hanno l’umore a terra o perché magari hanno atteso inutilmente un colloquio coi famigliari.

Quello che invece si può fare è tracciare un “quadro clinico” dell’ambiente carcere, che è secondo me il fattore principale di rischio. Gli spazi interni sono così limitati, che il detenuto è ridotto a trascorrere la propria vita, o meglio a essere contenuto, in una cella di piccole dimensioni, privato totalmente di ogni forma di privacy, sorvegliato ogni istante dai propri compagni di cella e dal personale penitenziario di turno, e non so ancora quale delle due situazioni sia la più snervante. All’impoverimento della propria dimensione interiore viene ad aggiungersi un ridimensionamento degli affetti familiari.

Un frustrante senso di impotenza ti attanaglia una volta varcata la soglia del carcere, dove tutto sfugge al tuo controllo: anche la cosa più normale come andare a farsi la doccia, per la quale occorre “chiedere il permesso”. Progressivamente viene a dilatarsi anche la percezione del tempo: la giornata del detenuto è fatta con lo stampino, una clonazione continua degli stessi identici movimenti, scanditi da un automatismo da incubo. Oggi saprei raccontare con precisione quello che farò lo stesso giorno dell’anno prossimo, e senza leggere alcun fondo di caffè.

Ma, in particolar modo, si ingialliscono sempre più i progetti di vita, per qualcuno cominciano a deformarsi fino a diventare lontani miraggi, e quando la speranza viene a mancare definitivamente, quello che gli specialisti chiamano “evento critico” finisce per apparire come una colonna luminosa in un teatro buio, e aggrapparsi ad essa con tutte le forze rimane l’unica risorsa.

Si continua a morire nell’indifferenza del mondo

 

di Maurizio Bertani

 

Morire a 30 anni in carcere, nella propria solitudine, non riconosciuto come essere umano, nemmeno nella morte, può succedere davvero? Sì è successo, una persona di 30 anni si è suicidata nella Casa circondariale di Padova pochi giorni fa. Eppure non se ne è saputo quasi nulla, non un accenno nelle televisioni locali, come se il parlarne disturbasse la quiete della collettività.

Il mese scorso si è tenuto all’interno della Casa di reclusione di Padova un seminario, promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sulla prevenzione dei suicidi, durante il quale lo psichiatra del carcere ha spiegato che nel nostro Paese “l’incidenza del suicidio sulla popolazione in generale è dello 0,5 – 0,7 ogni 10.000 abitanti, e l’incidenza del suicidio in carcere è circa 20 volte maggiore, secondo le statistiche quindi in carcere si uccidono 10 - 15 persone ogni 10.000”.

La direttrice della Casa circondariale, che ha una capienza di 98 posti, ma ospita oggi più di 170 detenuti, ha ricordato che, se già nel periodo in cui non c’era nelle carceri italiane l’attuale sovraffollamento, mancavano mezzi e personale, educatori, psicologi, psichiatri, per affrontare con serietà il problema dei suicidi, attraverso un supporto di prima accoglienza a coloro che fanno il loro ingresso in carcere, oggi “non possiamo nasconderci che nessun modello innovativo di accoglienza è in grado di reggere l’impatto che l’attuale stato di sovraffollamento, e di incremento esponenziale di ingressi sta portando in tutti gli istituti penitenziari italiani”.

Abbiamo in questi giorni superato la soglia delle 61.000 presenze nelle carceri, cioè 18.000 in più della capienza regolamentare, a questo si aggiunge che nell’ultimo anno ci sono stati ulteriori tagli alla spesa della giustizia, e che il personale è scarsissimo, lo stress è ai massimi livelli, non ci sono risorse che permettano una seria presa in carico di quei cittadini che entrano in carcere. Ma veramente si vuol discutere di prevenzione? O non è forse il caso di parlare di stato di abbandono e in un certo senso di istigazione all’autolesionismo di quella massa di cittadini, che ogni anno varcano la soglia di un carcere?

Certo la crisi economica è grave e colpisce quasi tutti gli strati sociali, e sembra allora che poco importi se muoiono alcuni degli ultimi, e per di più “brutti sporchi e cattivi”.

A me personalmente importa, a me importa che una società, per qualsiasi tipo di reato, anche il meno grave sotto il profilo della pericolosità, come il reato di immigrazione clandestina, sia disponibile a riempire sempre di più le carceri, per poi lasciar morire le persone che dovrebbe custodire, a me importa che non ci sia dignità, all’interno delle carceri di un Paese civile, neanche verso la morte, a me pare indecente che un essere umano trovi la morte in un carcere e nell’orrenda solitudine di se stesso.

In galera ci si chiede tante volte se valga la pena vivere

 

di Milan Grgic

 

Quando qualche tempo fa, tornando dalla scuola alla mia cella, ho saputo che uno degli studenti-detenuti ha tentato di suicidarsi e che, non essendoci riuscito perché sono intervenuti altri detenuti a impedirlo, poteva subire un richiamo disciplinare, allora ho capito che in galera chi non vuole più vivere non solo sta male, ma spesso viene anche punito per questo.

Mi ritengo una persona forte, sia fisicamente sia di carattere, eppure anch’io qualche anno fa mi sono ritrovato sulla stessa strada. Non era la galera in sé che mi aveva fatto arrivare a una sofferenza così grave, ma sono state invece le condizioni in cui dovevo scontare la pena. Proprio perché a creare queste condizioni aveva contribuito tutto quello che accompagna la perdita della libertà: da un lato c’era stata una serie di lutti in famiglia, dall’altro il divorzio da mia moglie mi aveva tolto ogni possibilità di vedere i miei figli.

Eppure, mio figlio era sempre stato molto attaccato a me, e non si separava da me nemmeno di notte. Ogni volta che uscivo di casa per lui era una vera tragedia, a tal punto che mi si formava un nodo in gola che poi mi accompagnava tutto il giorno. Purtroppo, un po’ per la lontananza, un po’ per il divorzio, un po’ per l’assenza di colloqui con le persone che più mi erano care, mi sono trovato totalmente solo.

Ero sopraffatto da brutti pensieri, pensavo che non valevo nulla per nessuno, ancora meno per i miei figli, non trovavo nessuna speranza in niente, mi sentivo uno che ha fallito in tutto. A un certo punto mi sono convinto che non aveva più senso continuare a vivere. Ho deciso allora che dovevo assolutamente parlare con uno psicologo o uno psichiatra, essendo però in uno stato confusionale non sapevo nemmeno a chi dovevo rivolgermi per spiegare la mia intenzione o per chiedere aiuto.

Ma, come al solito, è successo che nessuno mi ha chiamato e l’attesa dello specialista mi ha in qualche modo dato il tempo necessario per riflettere, e così ho finito per rinunciare ai miei propositi. Quindi, da un lato sono anche contento che nessuno mi abbia chiamato, ma non perché non mi sono più suicidato - non so ancora se sia stato un bene non farlo - quanto invece perché, e solo adesso l’ho capito, se avessi comunicato la mia intenzione con molta probabilità sarei incorso in una sanzione disciplinare, e anche un singolo richiamo qui significa perdere lo sconto di pena di 45 giorni di galera. E questa sarebbe stata una assurdità piccola, ma davvero difficile da accettare.

 

 

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