Sprigionare gli affetti

 

Il coraggio di dirlo

È difficile dire “Io ho un figlio in carcere”

Il progetto di confronto tra scuole e carcere quest’anno si è arricchito di nuove voci: fra le altre, la voce del padre di un ragazzo detenuto. Quella che segue è la sua testimonianza, forte e chiara, che fa capire quanto i famigliari dei detenuti sono vittime a tutti gli effetti, e altrettanto trascurate delle vittime dei reati

di N. A.

Non ci sono parole per descrivere cosa succede quando in una famiglia “regolare” un figlio commette un reato. Noi siamo genitori che hanno fatto tanti sacrifici e rinunce per anni per crescere i figli, e dopo quando ti capita una cosa del genere, prendi una mazzata, vai a letto la sera ti svegli alla mattina non sei più la stessa persona. Se posso dirvi una cosa, fate in modo che ai vostri genitori per colpa vostra non capiti mai di entrare in certi posti, io l’ho fatto per 10 anni, adesso ormai sono tre anni che non vado quasi più, ma per 10 anni due o tre volte al mese ero lì a suonare il campanello del carcere. All’inizio mio figlio era in un carcere a Rovigo, dunque dal mio paese a Rovigo sono circa 20 km, eppure sua mamma è stata un anno e mezzo circa senza mai andarlo a trovare perché non aveva il coraggio, vedete che situazioni si creano.

Sono tre i giorni nei quali si può andare ai colloqui, e devi andare alla mattina con una borsa dove porti qualcosa da mangiare e la biancheria per cambiarsi, e devi stare lì fuori, al freddo sotto la pioggia o al caldo sotto il sole, e aspettare che venga l’ora giusta, perché se arrivi con un minuto di ritardo rispetto agli orari di ingresso sei costretto ad aspettare un’ora. Quando entri hai davanti tutti questi cancelli che pesano quintali, e c’è sempre una persona che ti apre il cancello e poi te lo chiude dietro alle spalle, già questo ricordo che la prima volta era un incubo, come sentirsi chiusi in gabbia.

Quando entri devi passare due o tre stanze e attraversare dei cortili, dopo ti perquisiscono ed entri in una sala dove ci sono dieci tavolini, un sacco di confusione perché ogni detenuto ha due o tre parenti che vanno a trovarlo, comunque per parlare un’ora perdi mezza giornata, e soprattutto sono tante le umiliazioni che sei costretto a subire, perché fino a un certo momento anche là, specialmente le prime volte, finché non hanno imparato a conoscerti, sei sullo stesso piano del detenuto, ti trattano alla stessa maniera. Dopo qualche tempo imparano un po’ a conoscerti e allora capiscono le persone e hanno un po’ più di riguardo, altrimenti sei come un detenuto, cioè la colpa di chi è dentro cade spesso anche sui famigliari, sui genitori che di colpe non ne hanno nessuna.

Io non ho fatto niente di male, eppure mi sono trovato a non avere il coraggio di uscire di casa, l’ho fatto per tre quattro mesi di stare chiuso in casa oppure prendere la macchina e fare 7-8 km per andare a prendere le sigarette lontano da dove abitavo, perché io mi vergognavo a fermarmi in paese, anche se non avevo fatto niente per dovermi vergognare. Oltre tutto, io ho sempre frequentato la parrocchia, ma quando è successo che mio figlio ha commesso un reato grave ed è finito in carcere, ho smesso anche di frequentare la parrocchia, andavo in chiesa in un altro paese, perché… perché mi vergognavo. Ma cosa avevo fatto per vergognarmi?

 

Non è facile essere qui a parlare di un figlio in carcere

Capisco che non è facile pensarci ora che siete così giovani, ma io voglio dirvi ugualmente di ricordarvi sempre dei vostri genitori, dovete pensare anche ai sacrifici che fanno per voi, e a quanto possono soffrire per voi. Io posso dirlo perché sono cose che ho toccato con mano, ma badate che se le racconto non lo faccio certo per protagonismo, e anche i detenuti che parlano della loro vita, dei loro sbagli, non lo fanno per farsi vedere, non c’è motivo di vanto, non è una cosa che si fa così, a cuor leggero, se si fa si fa per ragionare, si fa per voi, perché voi da questa situazione, da questa esperienza traiate delle conclusioni, per arrivare a capire quanto è importante camminare dritti. Camminare dritti non ha mai fatto male a nessuno, male si fa quando si comincia a deviare, credetemi io ne faccio spesso di questi incontri e continuerò a farne ma lo faccio solo con quello scopo lì, perché non c’è nessun desiderio di essere al centro dell’attenzione, c’è solo da spiegare una situazione che si è creata, e che potrebbe crearsi in ogni famiglia perbene. Perché la mia è una famiglia normalissima, gli altri figli hanno le loro famiglie, sono sposati, stanno bene, hanno il loro lavoro, non ci hanno dato nessun problema, e però un figlio ha seguito una strada diversa, e io sono qui per spiegare che questo può succedere in ogni famiglia, e che non si deve pensare che “alla mia non succederà mai”.

Io un aiuto vero l’ho avuto solo dal volontariato, il volontariato è veramente importante, è indispensabile specialmente per le famiglie, per noi è stato un’ancora di salvezza, perché il lavoro che fanno tutti i volontari è qualcosa di straordinario per una famiglia, ti aiuta proprio quando ti trovi ad essere abbandonato da tutti, spesso non hai più amici né parenti che ti stiano vicino, io per esempio non ho ricevuto una visita neanche dal parroco del mio paese, e sì che mi conosceva molto bene. Praticamente sei completamente escluso, escluso dalla società, e i volontari invece un po’ alla volta ci hanno incoraggiato, siamo riusciti ad affrontare questa situazione anche grazie a loro, ma credetemi non è facile, non è facile neanche essere qui a parlare, io non posso essere orgoglioso di mio figlio… Invece è difficile dire “Io ho un figlio in carcere”, è molto difficile dirlo, ma bisogna avere anche il coraggio di dirlo, e quando so che questo viene detto a fin di bene io ho il coraggio di dirlo.

 

 

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