Parliamone

 

Un incontro in redazione con i magistrati

Alessandro Margara e Francesco Maisto

Un sostituto procuratore e un magistrato di sorveglianza

parlano della riforma dell’Ordinamento penitenziario

 

(Realizzato nel febbraio 2006)

 

a cura della Redazione

 

Una riforma che parla di “diritti dei detenuti”. È quella elaborata da Alessandro Margara, che è stato uno dei padri della legge Gozzini e ha ancora la voglia e le energie per pensare a riformare l’Ordinamento penitenziario. Ricordando che non c’è sicurezza migliore di quella che si assume la responsabilità delle situazioni critiche, le fronteggia, e dà delle risposte su questo piano. In tempi di leggi ex Cirielli e stralcio Fini-Giovanardi sulle droghe verrebbe da pensare che ipotizzare una riforma dell’Ordinamento penitenziario fortemente migliorativa, che parla apertamente di “diritti dei detenuti”, possa essere opera solo di un sognatore.

Ma Alessandro Margara, che è stato per anni Magistrato di Sorveglianza, ed è considerato uno dei padri della legge Gozzini, nella prefazione alla sua proposta di legge ci ricorda che anche quando nel ‘75  fu varata la nuova legge penitenziaria, furono anni difficili, con l’insorgere dell’emergenza terrorismo e il varo di una “controriforma” che sembrava annullare ogni apertura e chiudere ogni spiraglio. E invece poi ci fu il senatore Mario Gozzini con la legge che porta il suo nome, e la politica ebbe uno scatto di umanità, e le carceri cominciarono davvero ad aprirsi. Del nuovo progetto di riforma dell’Ordinamento penitenziario abbiamo parlato in redazione con Alessandro Margara e con Francesco Maisto, sostituto procuratore generale della Repubblica a Milano, che con Margara sta promuovendo il progetto.

 

Alessandro Margara: Vorrei fare una breve premessa alla discussione: il progetto ha delle buone intenzioni, però le buone intenzioni vanno a finire nel nulla se non si interviene nel quadro generale della politica penitenziaria di questo Paese. Ora la politica penitenziaria è questa: nel 1990 fra detenuti e misure alternative c’erano 36.300 persone interessate. Oggi ce ne sono 180.000: 60.000 detenuti in carcere, 50.000 in misura alternativa e 70-80.000 che aspettano di sapere se le loro istanze per essere ammessi alle misure alternative invece di andare in carcere saranno accolte, e in caso contrario andranno in galera.

Cinque volte tanto le cifre del 1990: un aumento di questo genere in 15 anni è preoccupante. Due terzi delle 60.000 persone detenute sono immigrati, tossicodipendenti e persone che stanno in situazioni di criticità varie, con problemi di ordine psichico, di abbandono sociale. Solo un terzo sono persone che hanno invece pene robuste da eseguire, non sempre robustissime, ma insomma sono i “clienti classici” del carcere.

Allora, ci sono due politiche penitenziarie. Una è quella che ha fatto la Bossi-Fini per gli immigrati e ha portato fino in fondo il progetto di legge Fini sulle droghe, che vuol dire esasperare la penalità per i tossicodipendenti, cioè considerare la pena detentiva come la strada maestra per trattare i tossicodipendenti, ed ha varato anche  la legge ex Cirielli, con la persecuzione proprio dei recidivi che sono poi i clienti appartenenti per lo più a quelle categorie deboli che abbiamo visto, perché in galera ci vanno più volte.

Ma c’è una politica diversa, nella quale i tossicodipendenti hanno bisogno di una legge a sé stante, e c’è un progetto di legge che è già stato presentato in materia, così come per l’immigrazione bisogna veramente arrivare ad una proposta di legge alternativa. Questo già rimetterebbe sotto controllo la crescita della penalità, nel senso che dovrebbe determinare virtuosamente una diminuzione della penalità per quella che sinteticamente si può chiamare “detenzione sociale” – perché è il disinteresse sociale nel quale si sono mosse le vicende degli immigrati, dei tossici, di questi altri disperati, senza dimora, malati psichici che ha determinato l’interesse penale. La pena è diventata uno strumento al posto degli strumenti non impiegati da parte del contesto sociale.

Ecco, a questo punto certamente ci vogliono questi interventi legislativi, ma ci vuole anche l’attenzione dell’ambito sociale, ed è un’attenzione che l’ambito sociale non ha, una politica sociale diversa di cui si deve essere consapevoli e che deve essere richiesta. Ci vuole che un governo diverso attivi queste cose, ma ne avrà voglia? La proposta di riforma che ho elaborato presuppone la soluzione di questi nodi, perché il discorso è semplice: un carcere che ha questa popolazione presente e prospettabile – perché aumenterà ancora, aumenterà sempre – non funziona, non si possono fare progetti in un carcere di questo genere. Si dice che si fanno le carceri nuove, ma per ogni carcere nuovo ci vuole il personale che non si trova, che costa enormemente, quanto costa enormemente un carcere nuovo, e allora non c’è altra soluzione che cambiare politica.

Riportare il penale nell’alveo che gli è proprio, rilanciare il sociale per quello che effettivamente può fare, perché non c’è sicurezza migliore di quella che si assume le responsabilità delle situazioni critiche, le fronteggia, e dà delle risposte su questo piano. Da qui si può partire allora per il progetto che vi dicevo, nel quale, in pratica, si parla dei diritti dei detenuti, si cerca di recuperarli. Quelli che sono obblighi già inseriti nella legge del 1975, dato che la realtà del carcere non corrisponde minimamente alla legge del 1975, sono obblighi inadempiuti. Trasformiamoli in diritti e che Dio ci aiuti, perché naturalmente bisogna vedere in che misura questa enunciazione potrà essere seguita dai fatti.

 

L’idea è che lunghe semilibertà non sono utili

 

Il progetto è diviso in titoli, come lo era già il precedente Ordinamento, ed il primo titolo è dedicato al trattamento. Per esempio le dimensioni degli istituti, l’attrezzatura delle camere, l’osservazione, il trattamento vengono convertiti in diritti. Da questo deriva un primo punto, che è quello del tentativo di far finire il sistema delle domandine, e credo che la proposta sia gradita ai detenuti ma anche agli operatori, perché è un sistema che riempie di carta tutto e tutti.

Fra i diritti ci sono tutti quelli che riguardano l’osservazione ed il trattamento: diritto ad avere l’osservazione, diritto ad avere il trattamento, in modo tale che la persona possa essere presa in carico, conosciuta. Se l’istituto ha dimensioni maggiori deve essere diviso in tante sezioni, diciamo così, autonome in qualche modo, che poi fanno riferimento all’organizzazione centrale, per quelle che possono essere le questioni comuni, ma nell’ambito delle singole strutture autonome invece il discorso è gestito da chi è responsabile di quel particolare settore. Tra i diritti viene inserito il diritto all’affettività, con le caratteristiche che ha il progetto di legge Boato, elaborato proprio in questo carcere, che prevede alcuni colloqui senza controlli visivi.

C’è anche un riesame dei permessi, con qualche aspetto, come dire, “osé”, nel senso che prescinde dall’uso abituale del termine: ci sono permessi un po’ speciali, che fanno pensare a quello che era stato progettato a suo tempo per il teatro di Volterra per recarsi all’estero. Vengono introdotti i permessi semestrali, proprio per recarsi in famiglia, di ulteriori 10 giorni ciascuno, che effettivamente portano i permessi a 65 giorni l’anno. Poi si è sottolineato il fatto che tendenzialmente i permessi previsti devono essere concessi tutti entro l’anno, e non, come si usa attualmente, centellinati a piccole dosi, che poi impediscono il raggiungimento del numero massimo che si può ottenere.

Il secondo titolo concerne le misure alternative, e con le misure alternative riguarda anche l’esecuzione delle pene diverse da quelle detentive, nonché la magistratura di sorveglianza. Per le misure alternative il discorso di fondo è contenuto nell’articolo 57, che utilizzando sentenze costituzionali stabilisce sostanzialmente che le misure alternative sono una misura ordinaria attraverso cui l’esecuzione penale si sviluppa, cioè non sono un’eccezione. Stabilite certe condizioni, che sono quelle previste dalla legge, anche qui si parla di diritto. In altre parole, talvolta ci sono dei rifiuti che fanno riferimento a precedenti penali e gravità dei reati, ci sono valutazioni che non dovrebbero esserci proprio, perché se il fatto è grave l’esecuzione penale sarà più lunga e quindi ci sarà un tempo più lungo per accedere ai permessi o alle misure alternative, ma a quel punto - se dovessero essere confermati tutti i punti necessari come alcuni elementi esterni o i risultati dell’osservazione - dovrebbe esserci un esito positivo ordinario.

Con riferimento alle singole misure alternative, poi, in particolare per l’affidamento in prova al servizio sociale, si cerca di eliminare ciò che è diverso dall’intervento del servizio sociale, quindi tutto quello, per esempio, che è entrato in uso attraverso varie forme, come l’intervento di polizia, che è un intervento fuorviante nell’ambito di una misura che invece è fondata sul ruolo dei servizi sociali. La semilibertà prevede uno sviluppo che si chiama “progressi nel trattamento”, per cui ci sono dei tempi che si concluderanno con allargamenti dei programmi di trattamento e poi alla fine con il passaggio alla liberazione condizionale, perché l’idea è che effettivamente lunghe semilibertà non sono utili, non sono positive. Ad un certo momento la persona scoppia, perché la diversità di sistema fra la libertà esterna e gli inevitabili condizionamenti interni è evidente.

Si introduce quindi la liberazione condizionale come misura alternativa, nel senso che la si sottrae al Codice penale e si inserisce nella legge penitenziaria senza grandi modifiche di testo, di condizioni: è la gestione che cambia, perché la gestione è sì di intervento di polizia, che è quello sull’osservanza delle prescrizioni, ma soprattutto di intervento del servizio sociale che segue il vero e proprio processo di reinserimento della persona.

In questa parte ci sono poi alcune cose importanti, una delle quali riguarda le preclusioni all’ammissione ai benefici per i reati che sono sicuramente quelli più gravi, anche se disgraziatamente si allargano sempre di più, perché nel 4-bis vanno a finire i reati che colpiscono l’opinione pubblica e non solo. Ad un certo punto, dopo un periodo di esecuzione molto lunga, anche le persone detenute per i reati che attualmente sono ostativi, possono essere ammesse ai benefici, ci può essere il finire della preclusione. Poi c’è il problema dell’esecuzione della pena a lunga distanza di tempo dalla commissione del reato, per la quale si privilegia la soluzione delle misure alternative e quindi si avvicinano i momenti di ammissione alle stesse.

La seconda parte di questo titolo, dedicato alle misure alternative, riguarda l’esecuzione delle condanne diverse dalla pena detentiva. Io sostengo che la pena detentiva ha avuto un trattamento di maggiore attenzione costituzionale rispetto a tutti gli altri contorni della pena, che sono appunto la pena pecuniaria, le pene accessorie, le misure di sicurezza. Su queste si dicono alcune cose, per levare alle stesse la capacità attuale di essere una lunga serie di ostacoli che si frappongono alla conclusione del reinserimento. Quello a cui si tiene è che siano sollecite, cioè che vengano eseguite in contemporaneità o subito dopo la pena detentiva, e che abbiano comunque delle uscite che non siano ostative al processo di reinserimento che si è già avviato.

Il terzo titolo riguarda l’organizzazione penitenziaria: una parte è dedicata alla descrizione dei vari  tipi di istituti, con la creazione delle “Case territoriali di reinserimento sociale” che fanno riferimento all’organizzazione degli enti locali, come più o meno accadeva per le Case mandamentali. Poi c’è tutta l’organizzazione del personale, che però vi interessa fino ad un certo punto, ed infine si passa proprio alle pratiche e alle procedure che dovrebbero sostenere ed avviare il reinserimento sociale, e con questo io credo di aver finito.

Francesco Maisto: Prima che si arrivasse alla redazione quasi definitiva di questo testo, ci sono stati molti incontri. Che cosa noto io in questo tipo di incontri? Lo dico proprio come avvertimento preliminare: il fatto che non si fa una lettura complessiva dell’articolato. So che è difficile e faticoso, però sapete cosa succede di solito, che più o meno ognuno legge la parte che gli interessa. La conclusione è che i colleghi magistrati di sorveglianza vanno a leggere soltanto la parte relativa alla magistratura di sorveglianza, gli ospiti dei penitenziari italiani vanno a leggere sostanzialmente la parte relativa ai diritti e alle misure alternative, gli assistenti sociali, gli educatori e la polizia penitenziaria si vanno a leggere soltanto la loro parte.

Alla fine sfugge il nodo della vicenda, e cioè che tutto si tiene in questi 177 articoli, e non è un caso che si concatenano l’uno all’altro. Senza il concatenamento non si riesce a vedere effettivamente qual è la dimensione complessiva. Faccio un esempio: non serve a niente dire che qui si è modificata l’operatività della liberazione anticipata, se poi non si prevedessero - così come prevede l’articolato - dei sistemi di carattere organizzativo e strutturale che riguardano l’amministrazione e la magistratura di sorveglianza, quanto a professionalità e a modi di accedere alla stessa. Insomma, se non si prevedesse tutta l’armonizzazione dell’articolato, il lavoro avrebbe poco senso, perché la liberazione anticipata deve essere effettiva, cioè non deve succedere la cosa più scandalosa che appare in ambito penitenziario, e cioè che una persona, pur avendo diritto ad essere scarcerata, cioè ad uscire perché deve avere la liberazione anticipata, di fatto resta in galera ancora perché non viene esaminata in tempo l’istanza, perciò in qualche maniera è come se continuasse ad avere un credito di libertà nei confronti dello Stato.

La lettura complessiva dell’articolato consente di dire che c’è una stretta correlazione, tra la parte relativa ai diritti, la parte relativa ai doveri, la parte relativa alle misure alternative, quella relativa all’organizzazione e quella relativa al reinserimento sociale, che non è l’uscita e basta, ma è un progetto razionale di reintegrazione sociale che si struttura in un modo molto preciso. Questa è la prima avvertenza, quindi quando parliamo di misure alternative non valutatele soltanto in sé, ma dovete anche valutare, cosa che a voi sembra che non conti niente, invece conta eccome, una diversa strutturazione dell’amministrazione e delle figure che operano all’interno di essa.

Seconda avvertenza: in corso d’opera si è reso necessario un punto fondamentale nell’articolato. Sapete che questo progetto si pone nel solco e in un superamento in avanti della legge Gozzini, o meglio ancora, della 354 del ‘75, nostra prima legge penitenziaria. Sta di fatto invece che in questi giorni noi abbiamo avuto “l’ammazza Gozzini”, abbiamo cioè avuto la legge ex Cirielli, quindi abbiamo sentito la necessità di inserire subito un articolo in questo progetto: l’abrogazione della legge ex Cirielli, perché l’articolato non regge senza la preliminare abrogazione di questa norma.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Nei giorni scorsi, infatti, ci chiedevamo come si fa a prevedere la permanenza in cella solamente per 14 ore al giorno, e scalare un’ora ogni anno fino ad arrivare ad un massimo di 10, così almeno prevede l’articolato, con le strutture che ci sono ora, con il sovraffollamento, con i pochi operatori. Poi invece abbiamo letto che per arrivare a questo è prevista tutta una serie di adeguamenti, che riguardano tutto il sistema, dalle strutture al personale. Volevo aggiungere soltanto un’altra considerazione: io sono tra quelli che, ovviamente, sono andati a leggere bene il capitolo inerente le misure alternative, e non riuscivo a trovare niente che mirasse a risolvere il problema che nasce dalla larga discrezionalità dei magistrati. Cioè, se si capita nel carcere “giusto”, dove ci sono i magistrati di sorveglianza che applicano veramente la legge Gozzini, si esce anche, ma in alcune realtà, in alcune regioni sappiamo che avere i benefici è quasi impossibile. Abbiamo visto dei rigetti di magistrati di sorveglianza dove sta scritto “Ha un lontano fine pena”, però è anche vero che se una persona ha la condanna molto lunga ma è nei termini per accedere ad esempio ai permessi, significa che ha già scontato un periodo di detenzione sufficientemente adeguato da poter ottenere tali benefici. Con il vostro articolato, come funziona la discrezionalità dei magistrati?

Alessandro Margara: L’articolo 57 dice: “La misura alternativa rappresenta un intervento ordinario e necessario, attraverso il quale la pena viene eseguita e tale rimane anche nei casi in cui la legge ordinaria la preveda nei confronti di persone in stato di libertà”. Poi si dice in particolare che l’assegnazione alla magistratura di sorveglianza è prevista tenendo conto della specifica preparazione in materia penitenziaria, acquisita sia con la frequenza di corsi di formazione e studio relativi alla stessa, sia con l’attività giudiziaria svolta presso gli uffici e i tribunali di sorveglianza, sia con attività istituzionali svolte presso istituti o centri di servizi sociali penitenziari. Per stringere, ci dovrebbe essere una specialità nella preparazione della magistratura di sorveglianza, per evitare che alla stessa approdino persone che ne sanno poco e che in pratica hanno un po’ di resistenza a queste disposizioni, cosa che si è verificata e si verifica spesso.

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Entrando nel merito in un punto particolare, la questione delle telefonate, mi chiedevo se non si possa davvero uscire da un solco, fatto da una serie di limitazioni infinite, che è esclusivamente italiano: non sarebbe ora che ci adeguassimo un po’ al mondo occidentale? Nelle sezioni normali non si potrebbe arrivare, come in tutta Europa, come in America, ad avere il telefono a scheda e al fatto che uno possa davvero chiamare quando gli pare?

Alessandro Margara: Nell’articolato è previsto l’uso della scheda, ma è mantenuto un sistema che limita il numero delle telefonate e dei minuti. È vero che in altri paesi il sistema è più libero, ricordo che una famosa detenuta italiana in America telefonava al proprio legale a carico del destinatario (e devo dire che questi era un po’ preoccupato dal sistema). Nella mia proposta di legge si applica il sistema di telefonate con le schede al settore della media sicurezza. Quindi ecco, c’è questa disposizione che dice: “Deve essere favorita l’utilizzazione di schede prepagate per l’uso del telefono negli istituti o sezioni con sistemi di sorveglianza media o attenuata, le schede vengono ricaricate mensilmente con un sistema limitativo del tempo a disposizione, tenendo conto come parametro decisivo della residenza di congiunti e conviventi.

Le schede vengono messe a disposizione degli utenti nei giorni e per il tempo previsto dal regolamento dell’istituto”. Non so se questo risolverà il problema, d’altronde oggi come oggi i controlli sono molto modesti, quindi praticamente questo sistema dovrebbe e potrebbe funzionare ed evitare tutte le complicazioni dei passaggi delle domandine, che per la verità non ci dovrebbero essere più.

 

Il carcere faccia il carcere, non può fare l’albergo dei poveri, l’ospedale psichiatrico, la casa di cura e così via

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Vorrei aggiungere una cosa che riguarda i colloqui. Le faccio un esempio: c’è una detenuta alla Giudecca che è stata in carcere in Germania ed i suoi familiari sono riusciti ad andare solo una volta a trovarla. Lei aveva un’amica conosciuta in carcere che quando è uscita andava a fare i colloqui con lei ogni settimana. Anche in Francia se arrivi al carcere, entri e fai colloquio. In Italia abbiamo delle limitazioni, per le compagne e i compagni di detenuti servono i certificati di convivenza, e poi ci sono molte difficoltà ad avere colloqui con terze persone, con amici, o con una persona che è già stata in carcere, è un po’ tutta fortemente  delimitata la questione che riguarda telefonate e colloqui.

Alessandro Margara: È interessante senz’altro vedere cosa succede negli altri sistemi, per cui si potrebbe anche arrivare ad eliminare queste limitazioni sulle persone da autorizzare per le telefonate e a lasciare essenzialmente il discorso di non eccedere oltre un certo limite, per cui la scheda sarebbe prepagata per un costo definito che verrebbe ovviamente prelevato subito. È un settore, comunque, in cui si può ancora lavorare.

 

Salvatore Pirruccio (direttore della Casa di reclusione di Padova): Volevo chiedere solo una cosa: in Italia abbiamo questo grosso problema del sovraffollamento, e credo che per l’avvenire non si risolverà in fretta. Non si riesce a prevedere l’impossibilità di portare detenuti in un istituto dove la capienza massima è già raggiunta? Se io ho in ipotesi 300 posti, l’istituto è chiuso se sono tutti occupati, non posso riceverne altri perché altrimenti la gente è accatastata e tutto quello che è previsto dalla legge diventa allora difficile da realizzare.

Alessandro Margara: Anche qui si deve dire che altri regimi conoscono soluzioni di questo genere, nel senso che ci sono Paesi dove, quando l’istituto è pieno, fuori c’è scritto “completo”. È ovvio che dov’erano previste 500 persone o anche meno, e ce ne sono 1000, le strutture non possono funzionare come dovrebbero. All’inizio di questo ordinamento si ribadisce il concetto che l’istituto deve ospitare il numero di persone per il quale è stato progettato, ma non si arriva a limitare le entrate.

Francesco Maisto: Qui c’è una parte che è proprio intitolata “Il contrasto al sovraffollamento”, è vero che non si arriva alla soluzione, che c’è in alcuni ordinamenti nord-occidentali particolarmente progrediti, in cui addirittura si può prenotare il posto. Però è anche vero che il sovraffollamento è l’alibi per non fare niente. Allora, posto che il sovraffollamento non è causato dal carcere, ma il carcere viene affollato da altre questioni, innanzitutto bisogna rilanciare le altre questioni che non funzionano e che dovrebbero funzionare al posto del carcere. Come dire: il carcere faccia il suo mestiere, il carcere faccia il carcere, non può fare l’albergo dei poveri, l’ospedale psichiatrico, la casa di cura e così via; gli altri facciano il loro mestiere. Il che non è impossibile, è possibilissimo.

Tenuto conto che il carcere è uno strumento costoso, non è vero che facendo funzionare di più il carcere si spende di meno di quanto si spenderebbe se le persone invece di stare in carcere stessero nei posti a loro deputati. Noi abbiamo un 25-30 per cento di tossicodipendenti che però non hanno commesso gravi reati: siamo nell’ambito della microcriminalità, così come abbiamo extracomunitari che non appartengono alla criminalità transnazionale, cioè commettono dei reati “artificiali”, reati senza vittima. Sto parlando di quelli che sono senza il permesso di soggiorno. Allora, bisogna incidere sulla legge degli stupefacenti e sul testo unico per quanto riguarda l’immigrazione, che non significa soltanto la Bossi-Fini, significa anche la Turco-Napolitano.

Bisogna fare delle scelte che vanno in un altro senso, cioè evitare che chi delinquente non è, gli extracomunitari che delinquenti non sono, diventino delinquenti per il solo fatto che non hanno un pezzo di carta. Vedete che così facendo se ne va il 50 per cento della popolazione carceraria, il che significa che c’è la possibilità di fare altro.

Si tratta poi di allargare le possibilità di accesso alle misure alternative. Voi avrete visto che oltre all’affidamento ordinario, cioè il 47 a voi noto, c’è una sorta di 47-bis. È un affidamento per persone che hanno un handicap sociale, e i parametri di valutazione da parte della magistratura di sorveglianza lì non sono gli stessi di quelli del 47 ordinario, si tratta di dimostrare la situazione di disagio psichico e sociale, niente altro.

Anche le Case territoriali di reintegrazione e di reinserimento sociale, in quanto dirette dal sindaco, quindi con l’impegno delle strutture locali, permetterebbero di alleggerire il carico per la polizia penitenziaria, per i funzionari, per gli assistenti sociali, per gli educatori, però in compenso dovrebbero essere la Regione e il Comune ad occuparsi di queste fasce che sono quelle più ampie di detenuti. Le più bisognose, ma anche quelle per le quali è sempre più difficile, in un regime ordinario, riuscire a fare qualcosa. Allora, questa è un po’ una “zavorra penitenziaria”. Il detenuto classico non deve essere questo, deve essere un’altra cosa.

Alessandro Margara: La questione di fondo è che per limitare l’intervento penale bisogna rendere più efficace l’intervento sociale. Per cui ecco, tutti questi progetti per fare uscire gente dal carcere e stare, per esempio, in questi istituti territoriali, sono progetti che vogliono vedere nuovamente un territorio partecipe di questo problema e che si riprende le questioni che dovrebbero essere di sua competenza. Perché i tossicodipendenti non sono seguiti adeguatamente, e perché i Ser.T. non funzionano come dovrebbero? Perché anche per loro si è ridotto lo sforzo che c’era e che era già insufficiente, ma oggi è diventato più insufficiente che mai, per cui di tossicodipendenti in carcere che potrebbero ottenere le misure alternative ce n’è una fetta considerevole.

 

Graziano Scialpi: Speriamo che nel frattempo passi anche il nuovo Codice penale che, se non erro, prevede che il giudice possa già in sentenza stabilire la misura alternativa rispetto al carcere, forse anche quello aiuterebbe un po’.

Alessandro Margara: Le misure alternative date in sentenza pongono problemi molto complessi, e generalmente quelli che le chiedono, nell’ambito politico, nell’ambito teorico di studio, non si rendono tanto conto dei problemi che pongono. Pongono problemi sia nel momento dell’inflizione – a chi si devono dare e come si devono dare –sia nel momento dell’applicazione, e cioè come si fa a stabilire le modalità con cui la misura alternativa si esegue, cosa che nella fase esecutiva è stabilita dal Tribunale di Sorveglianza.

Francesco Maisto: Poiché voi con il vostro periodico fate opinione anche nel mondo penitenziario, è bene essere chiari su questo punto. Uno degli slogan che sta andando più di moda in quest’ultimo periodo in molti ambienti è che “si esce da questo empasse con il nuovo Codice penale”. Non dico che non è così, ma lo è, secondo me, per il 60-70 per cento e non di più. Che cosa vuol dire? Credo che bisogna fare i conti con la cultura dei giudici oggi in Italia.

Voi potreste rispondermi che se il Codice prevede la detenzione domiciliare scritta in sentenza, il giudice ce la deve mettere per forza. Problema: ma come ce la mette questa detenzione domiciliare? Perché se la mette in maniera tale che l’avrò sempre e comunque, anche quando abito in un monolocale in cui impazzisco e preferisco andarmene in carcere piuttosto che stare in detenzione domiciliare, allora l’obiettivo è fallito. La cultura del giudice è determinante, perché noi abbiamo dei precedenti passati e recenti in cui c’è quello che i francesi chiamano “l’impermeabilizzazione del diritto”, cioè tu hai voglia che ci sia una legge, ma quella legge non viene applicata. Per fare un esempio ricordo che quando ero più giovane lodavamo le misure alternative, ma il vecchio professor Pisapia ricordava che “anche il Codice Zanardelli, cioè quello prima del codice Rocco, prevedeva gli arresti di fine settimana come pena, però i giudici italiani non l’hanno mai applicata”. Abbiamo un altro esempio: nel 2004 è stata fatta una modifica della disciplina della sospensione condizionale della pena, per cui una volta avuta la prima volta la sospensione condizionale, non si può avere una seconda volta, per i reati commessi dopo il 2004 naturalmente. Si può avere, però, a condizione che al posto della sospensione si offra di svolgere una attività di pubblica utilità. Sapete quanti sono i casi in cui è stata applicata questa norma in Italia? Uno solo, nei confronti di uno spacciatore dal giudice Salvini di Milano. È con questo che noi dobbiamo avere a che fare quando diciamo “pene alternative date dal giudice in sentenza”.

Seconda osservazione quando parliamo di pene alternative: le pene alternative sarebbero naturalmente per i reati di media dimensione, non per i reati gravissimi. Posto che nel Codice penale si preveda la pena alternativa per questi reati non gravi, che cosa comporta? La necessità di un’abitazione e di un minimo di reddito sufficiente, un minimo di attività lavorativa, cioè quello che attualmente poco viene offerto dalla nostra società. Dunque, la conseguenza sarebbe che in caso di violazione della pena alternativa la si sostituisce con la misura carceraria.

Questa possibilità non esiste nella legge sul giudice di pace, nella quale la violazione della pena alternativa è punita con la reclusione fino a un anno. Quindi, in un modo o nell’altro, la detenzione ritorna. Allora, concludendo questo discorso, che cosa succederebbe? Succederebbe l’assurdo, il paradosso, che la pena data come alternativa al carcere alla gran parte delle persone per le quali verrebbe prevista, in realtà si trasformerebbe non più in alternativa, ma si trasformerebbe in un carcere previsto sicuramente: questo è il punto sul quale non ci intendiamo con molte teste dure del diritto penale sostanziale.

 

Ornella Favero: Vorrei tornare un attimo sulla questione del primo comma del 4 bis, quello che riguarda i sequestri, l’associazione e altro, perché ieri ne discutevamo e in fondo, visto da qui, risultava che comunque con il 4 bis non sei più una persona ma sei una categoria, però anche le persone che hanno commesso i reati elencati in questo articolo hanno storie molto diverse. Di solito non mi va di considerare il caso singolo, però qualche volta mi sembra giusto farlo: c’è un detenuto in redazione che ha il 4 bis primo comma per un sequestro e si farà 16 anni di carcere ininterrotti, senza un permesso, per un reato commesso quando era praticamente un ragazzo, senza vittime reali, mentre ci sono poi persone qui che hanno commesso un omicidio ed escono regolarmente in permesso, e giustamente, io certo non critico questo fatto. A me pare però che ci sia una disparità di trattamento, perché il detenuto che ha il 4 bis primo comma fa parte di una categoria, invece l’omicida ha una sua storia, un suo reato che viene valutato e si dice: “Va bene, tu dopo un certo numero di anni puoi accedere ai permessi”. Ho visto che qualcosa è modificato nella sua proposta, però ancora con delle grossissime difficoltà per accedere alle misure alternative o ai permessi.

Alessandro Margara: Non grossissime, tranne una che è quella fondamentale, cioè che ci vuole parecchia galera per arrivare a qualcosa, mettiamo la semilibertà, che è il caso che ci interessa, per arrivare a questa si devono fare due terzi della pena, e si dice due terzi della pena ma senza calcolare la liberazione anticipata. È vero che il discorso è stato introdotto con una normativa che la Corte costituzionale non ha ritenuto pertinente, non ha ritenuto soddisfacente, perché ha detto appunto che qui si arrivava al “tipo di autore” e questo è contrario all’articolo 27 terzo comma della Costituzione. La questione, per esempio, della legge ex Cirielli sui recidivi è la stessa cosa: effettivamente anche questa entra nel discorso del “tipo di autore di reato” e quindi ignora la finalità rieducativa della pena che dovrebbe riguardare un po’ tutti. È un aspetto non facile introdurre dei termini di ammissibilità meno rigidi di quelli che ho introdotto in questo progetto, fermo restando che bisogna trovare il modo per superare questa cosa.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Ma per sfuggire a questo automatismo e riportare a galla quella che è la rieducazione, non sarebbe più opportuno fare in modo che il 4 bis non sia così automatico per chi ha commesso un determinato reato, ma che sia un organo, tipo il magistrato di sorveglianza, a decidere, tenuto conto di come è stato commesso il reato e il contesto, se sia il caso di applicare oppure no il 4 bis? Cioè di delegare qualcuno perché l’applicazione sia decisa in un secondo momento. Penso all’articolo 74 della legge 309/90, il traffico internazionale di stupefacenti: questo articolo, per esempio, comprende svariati tipi di autore, da quello che traffica un quintale di cocaina a chi va a prendersi un etto all’estero; anche lì che ci sia un’autorità che decida se sia il caso di applicare il 4 bis oppure no.

Alessandro Margara: È la legge che stabilisce se applicare o no il 4 bis. Se si introduce invece un interprete ulteriore che differenzia tra i casi, c’è una violazione di uguaglianza anche all’interno dello stesso articolo, che naturalmente può però essere motivata. Nel progetto di legge presentato con prima firma Boato, in materia di riforma della 309/90, l’articolo 74 viene limitato, perché anche nella mia specifica esperienza di 74 se ne trovano di tutte la qualità. Si dice narcotrafficanti, ma i narcotrafficanti stanno in Bolivia, in Colombia, anche l’Italia ha i suoi pezzi buoni, ma in effetti molti 74 sono modesti concorsi di persona nel reato.

Per la verità qualcosa si fece nel 1992, subito dopo il decreto legge Martelli, nell’eccezione di incostituzionalità nella quale puntavamo molto sul fatto che questi reati non avevano sempre dei protagonisti appartenenti alla criminalità organizzata, e questo è un altro degli aspetti. Sotto questo profilo, effettivamente, si giustificherebbe anche un po’ quello che dite, nel senso che ci sono sicuramente, e in un certo periodo di tempo ci furono pacificamente, quasi tutti i sequestri di persona rimessi ad iniziative individuali, sostanzialmente in piccoli gruppi che non avevano nessuna parentela con la criminalità organizzata, però poi, accanto a questi, c’erano anche quelli della criminalità organizzata. Potrebbe esserci la soluzione di accertare volta per volta la permanenza dei collegamenti con la criminalità organizzata, farla diventare un elemento della ammissibilità della preclusione, cioè dire che la preclusione c’è se in effetti la realtà concreta del fatto commesso è relativa alla criminalità organizzata. Lavorare su questo è possibile.

 

L’espulsione revocata condiziona i provvedimenti amministrativi, nel senso che i provvedimenti amministrativi sono soccombenti rispetto alla decisione di revoca del Magistrato di Sorveglianza

 

Elton Kalica: Ho visto che nell’articolo 1 del vostro progetto è stato inserito che gli stranieri, anche se sono sprovvisti del permesso di soggiorno, in carcere possono avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Questo è secondo me un grande passo perché a noi permette prima di tutto di avere la residenza nella città in cui si trova l’istituto, che adesso per chi non è in regola è impossibile, e poi altri effetti per quello che riguarda il servizio sanitario, oppure avere delle borse di studio dalla Regione o da altri enti. Poi c’è anche un altro articolo che riconosce il diritto alle relazioni con i familiari. Stavo pensando che congiuntamente questi due articoli, cioè il fatto di avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia e il diritto alla relazione familiare, dovrebbero far sì che chi ha la famiglia in Italia, regolarmente inserita nella società in cui vive da alcuni anni, al momento del fine pena, mentre adesso con la Bossi-Fini deve essere espulso, rimanga invece nel territorio italiano in rispetto al diritto all’unità familiare.

Alessandro Margara: Nell’articolo 100 si favorisce il riconoscimento, se l’esecuzione della pena è stata soddisfacente, che l’espulsione deve venire meno, e che l’espulsione revocata condiziona i provvedimenti amministrativi, nel senso che i provvedimenti amministrativi sono soccombenti rispetto alla decisione di revoca del Magistrato di Sorveglianza. L’espulsione della Bossi-Fini è un’espulsione che ha la caratteristica di nascere esecutiva, cioè se viene data si viene espulsi, e allora contrasta un poco con questa parte qui riguardante l’esecuzione della pena terminata in modo soddisfacente. Posso dire che c’è stata recentemente una questione che riguardava una ragazza sudamericana, che era fuori con il lavoro all’esterno, stavano per decidere se concederle la semilibertà, ma nel frattempo è andata sotto i due anni di pena e le hanno dato l’espulsione. Ecco, per la verità il Tribunale di Sorveglianza è stato chiamato a dire se in questi casi l’espulsione incideva su una sorta di diritto che lei aveva maturato in relazione a quelle sentenze che riguardavano la semilibertà, secondo cui, quando uno è già dentro il percorso di reinserimento, non gli si può levare quello che ha già avuto, allora l’espulsione non dovrebbe essere data in questi casi. Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha deciso in questo senso.

Francesco Maisto: La disciplina legislativa, cioè la legge sull’immigrazione, si deve ispirare a principi, diciamo sani, così come anche la disciplina sugli stupefacenti; poi viene il problema del regime penitenziario, invece molte volte attraverso un modo vizioso e viziato, si cerca attraverso il penitenziario di risolvere le grane che dà la disciplina sull’immigrazione o quella sugli stupefacenti. Ma questo è sbagliato, perché è chiaro che la legge penitenziaria, se resta l’articolo 4 bis, non può che dire: “Chi è associato a delinquere per traffico di stupefacenti (articolo 74), resta nel 4 bis”, però se si modifica il 74, prevedendo per esempio una diversificazione delle associazioni, nel senso che non tutte le associazioni sono uguali, e nel senso che non tutti gli associati sono uguali, allora vedete che il riverbero sul penitenziario è diverso.

Alessandro Margara: Una riflessione che si può fare per concludere su questo punto è che l’intervento che si è adottato all’interno di questa proposta di legge è molto limitato, e che si può fare senz’altro qualcosa di più “estroso”, a partire dal riconoscere se l’autore del reato è veramente un soldato oppure se è un graduato o addirittura se è un generale, allora le cose cambiano, e poi, probabilmente si può determinare un maggior rispetto della necessità di non seguire le vie del “tipo di autore di reato”.

Attenzione, non potete sparare alla schiena dei ladri in fuga!

Il tabaccaio e il ladro di piante. Ristabiliamo la verità a proposito della nuova legge sulla legittima difesa, pessima secondo noi, ma che non dà la licenza di abbattere come animali una persona che sta scappando

 

di Graziano Scialpi

 

Ci sono occasioni nelle quali aver visto giusto non dà alcuna soddisfazione, ma lascia l’amaro in bocca. Due numeri or sono di Ristretti Orizzonti, collegata ad un articolo sulla nuova legge sulla legittima difesa, avevamo pubblicato una vignetta nella quale un ladruncolo veniva preso a fucilate mentre cercava di svignarsela con un nanetto da giardino in braccio. Non appena la legge è entrata in vigore, a Salerno, una giovane vita è stata stroncata da una fucilata per difendere… una palma nana… Naturalmente il tabaccaio che ha scaricato la lupara sul giovane ladro, all’arrivo dei carabinieri, si è trincerato dietro la “legittima difesa”.

Dopo tutto non era stato sbandierato ai quattro venti che ora c’era la nuova legge che finalmente permetteva di difendere con le armi i propri beni? E non duriamo fatica a immaginarlo caricare a pallettoni il suo fucile da caccia (ma cosa si caccia a Salerno? Lupi? Orsi? Cinghiali?) e sistemarlo vicino alla finestra in trepida attesa di quei teppisti che già altre volte si erano presi gioco delle sue piante. E riusciamo anche a immaginarci il suo sbigottimento e la sua incredulità quando i carabinieri, invece di complimentarsi con lui per la precisione del colpo, gli hanno messo le manette e lo hanno condotto in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Del tabaccaio non vogliamo dire oltre. Ora dovrà vedersela con la Giustizia e con la sua coscienza. In fondo è l’unico che verrà chiamato a rispondere di quello che è successo. Basta questo a garantirgli un minimo di simpatia umana.

 

Di quel sangue sono sporche anche le mani dei giornalisti di molti dei principali mezzi di informazione

 

Perché una cosa è certa: il tabaccaio di Salerno non è l’unico responsabile di quella vita stroncata. Di quel sangue sono sporche anche le mani di quei membri della maggioranza di Governo che, in vista delle elezioni, hanno voluto elargire al popolo una legge demagogica, che cambiava la sostanza di quella precedente giusto quel tanto per confondere le idee alla gente e farle credere che finalmente aveva il diritto di sparare e uccidere impunemente. Arruffapopoli che si sono presentati alle piazze annunciando: “Finalmente potrete difendervi, finalmente potrete sparare senza essere sottoposti a ingiusti processi da parte di giudici comunisti preoccupati di difendere più i ladri che gli onesti cittadini”.

Di quel sangue sono sporche anche le mani di alcuni membri dell’opposizione che non si sono rivolti alla gente gridando: “Attenti, guardate che anche con questa legge potrete sparare solo ed esclusivamente per difendervi se siete in pericolo. Non potete inseguire i ladri in fuga, non potete sparargli alla schiena mentre stanno rubando senza minacciarvi. Se non siete in pericolo non potete uccidere. La nostra costituzione non lo permette. Vi stanno gettando fumo negli occhi!”. Ma invece di spiegare queste cose alla gente hanno rafforzato la confusione, sbraitando che il governo aveva fatto una legge che trasformava il Paese in un Far West dove si sarebbe potuto uccidere chiunque per difendere la proprietà.

Di quel sangue sono sporche anche le mani dei giornalisti di molti dei principali mezzi di informazione e soprattutto della televisione che, invece di spiegare al pubblico la nuova legge e le differenze con quella vecchia, hanno preferito continuare con la loro linea dell’emergenza perenne e del terrorismo mediatico  e rafforzare la confusione nella testa della gente. Dopo essersi indignati per l’incriminazione per omicidio di due gioiellieri di Milano che, usciti armi in pugno dal loro negozio, hanno inseguito e ucciso due ladri disarmati (due ladri, si badi, e non rapinatori, perché non erano nemmeno entrati nella gioielleria, ma avevano spaccato la vetrina con un mattone, la differenza è enorme) hanno dato voce al furor di popolo che reclamava un cambiamento della legge. Ma quale legge volevano? Una legge che consente di abbattere le persone in fuga come animali? Una legge che consente di giustiziare sul posto un ladro di palme nane? Una legge simile non si può fare in Italia, non si può fare in nessun paese civile e nemmeno in molti paesi “incivili”. Non si può fare nemmeno in America. E questo i giornalisti l’hanno taciuto, non l’hanno spiegato a chiare lettere, come sarebbe stato loro sacrosanto dovere.

 

Anche il tabaccaio di Salerno è una vittima, perché i politici, e gli organi di informazione, hanno affermato con tanta forza una falsità da indurlo a credere che fosse vera

 

Governo, e mass media, ma in qualche modo anche quell’opposizione che ha calcato la mano nelle critiche, hanno deciso di far credere alla gente che una simile legge era stata fatta. Hanno voluto far credere al tabaccaio di Salerno che poteva piazzarsi alla finestra con il fucile e sparare addosso ai sequestratori della sua palma nana… E lo hanno voluto far credere coscientemente, per ragioni meramente elettorali e di informazione-spettacolo, non curandosi delle possibili, tragiche conseguenze delle loro menzogne. In questo senso anche il tabaccaio di Salerno è una vittima, perché se è vero che la legge non ammette ignoranza, è altrettanto vero che i politici, quasi nessuno escluso, e gli organi di informazione hanno affermato con tanta forza e senza sollevare alcun dubbio una falsità da indurlo a credere che fosse vera.

Imparare a pesare bene rischi e benefici

Quanto una società può rischiare per rendere possibile un reale cambiamento delle persone che hanno commesso reati?

 

di Stefano Bentivogli

 

Sarebbe troppo comodo in questi giorni, quando è emersa con grande evidenza la possibilità che un percorso di riabilitazione di un detenuto fallisca in maniera drammatica, rimanere in silenzio e lasciare spazio solo alle grida di chi sembra non vedere l’ora di avere argomentazioni indiscutibili per mettere in discussione radicalmente il nostro sistema penale. Un sistema che permette di scontare parte della pena fuori dal carcere, con un percorso di avvicinamento alla libertà attraverso i permessi premio e poi le misure alternative alla detenzione.

È veramente una situazione difficile, perché se da un lato usare politicamente i fatti di questi giorni, i reati commessi da detenuti in semilibertà,  per sostenere la nocività della legge Gozzini viene considerato assolutamente corretto, provare invece a contrastare queste spinte reazionarie viene facilmente preso per mancanza di rispetto per le vittime, per i loro parenti e tutti quelli che si sentono direttamente coinvolti da reati che si chiamano omicidio, che sono i più gravi e secondo me coinvolgono tutti, e le persone in esecuzione della pena per prime.

La mia prima preoccupazione quindi è quella di essere frainteso, che a qualcuno passi anche lontanamente per il cervello che il mio intento sia quello di giustificare, sminuire la gravità di questi episodi, dove un detenuto a cui è stato concesso un permesso premio o una misura alternativa, invece di impegnare le sue energie a concludere positivamente la sua pena, ricomincia a delinquere ed arriva ad uccidere.

È però necessario dire qualcosa, perché chi parte subito con la richiesta di modificare le leggi, restringendo brutalmente e sommariamente l’accessibilità ai benefici penitenziari, e parlo evidentemente di tanti politici, eviti di cavalcare con posizioni strumentali il giusto risentimento della gente. La matassa inestricabile di leggi alla quale siamo arrivati dovrebbe difatti far capire che è controproducente modificare in un senso e poi nel suo contrario un impianto normativo, è utile invece fare uno sforzo di lucidità ed andare veramente a fondo sulla questione.

Questo significa entrare nel merito di ogni singolo fatto criminale, che è un obbligo se non si vuole fare della giustizia sommaria distruggendo, come in questo caso, quelle opportunità di recupero di persone che hanno sbagliato, che, insieme a un sostegno reale delle vittime, a me sembra l’unico vero compimento della giustizia. Invece c’è chi vuole abolire tutti i benefici, chi li vuole abolire per certi reati, chi pensa a farlo per i recidivi, senza distinguere i casi diversi, senza capire che ogni situazione è unica ed individuale, come dovrebbe essere il percorso di reinserimento delle persone detenute. Quindi, partendo dall’omicidio del carabiniere Cristiano Scantamburlo da parte del già omicida Antonio Dorio, morto anche lui nel conflitto a fuoco, ho cercato di vedere qualche altro caso per cercare di capirne di più.

 

Semilibertà e reati gravi, ecco alcuni casi:

 

Antonio Palazzo: A Verona, l’uomo condannato in passato per tentato omicidio di una ex fidanzata e ora in semilibertà, ha ucciso l’ex compagna Chiara Clivio, che già diverse volte lo aveva denunciato per maltrattamenti.

Michele Trotta: Un rapinatore rimane ferito nella sparatoria con i carabinieri, all’esterno di un supermercato a Cusano Milanino, dove aveva appena messo a segno un colpo con un complice, Gino Amenta, 40 anni, che è rimasto ucciso. Da una prima ricostruzione di quei momenti drammatici, infatti, sembra che sia stato dalla pistola di Trotta (in semilibertà), con matricola abrasa come quella di Amenta, che è stato esploso il colpo che ha ferito al fianco un carabiniere.

Angelo Izzo: Il massacratore del Circeo, in semilibertà, ha ucciso in provincia di Campobasso Maria Carmela Limucciano, di 48 anni, e Valentina Maiorano, di 14 anni, rispettivamente moglie e figlia di un esponente della Sacra corona unita da lui conosciuto in carcere.

Maurizio Minghella: Condannato all’ergastolo per l’omicidio di quattro donne, ne ha uccise in semilibertà altre tre.

Antonio Mantovani: Uccide due donne quando era in semilibertà per scontare l’ultima parte di una condanna per l’assassinio della moglie di un amico.

Cataldo Spada: Uccide durante un permesso un ventunenne e rientra in carcere per rispettare il regime al quale era sottoposto già da un mese per scontare un cumulo di pene per oltre 4 anni di reclusione.

Luigi Iennaco: Anche lui in semilibertà, è considerato il mandante dell’omicidio di un carrozziere.

Tutte queste persone hanno una cosa in comune, ossia nonostante i loro reati precedenti, sono riuscite a convincere educatori, psicologi, psichiatri, Polizia penitenziaria e quanti altri redigono in carcere le cosiddette “sintesi di osservazione scientifica della personalità”, che vi erano le condizioni per concedere permessi premio e misure alternative. Agli operatori si sono uniti un Magistrato di Sorveglianza, e un intero Tribunale di Sorveglianza nel caso di misure alternative, nel ritenere che si poteva rischiare di conceder loro un po’ di libertà. Sono in realtà casi tutti abbastanza particolari, dietro i quali ci sono delitti inquietanti. Tornando all’ultima vicenda, quella di Antonio Dorio, lui nel ‘91 aveva ucciso un’anziana tabaccaia per 300.000 lire con una settantina di coltellate. A me, riflettendo su queste storie, viene subito da pensare a che cos’è il carcere e qual è la sua capacità di entrare, tramite i mezzi che ha, nel cervello di certe persone.

Parlo di persone complesse e di una complessità pericolosa, e penso ad un carcere sovraffollato, sotto organico soprattutto nelle figure che più dovrebbero acquisire conoscenza della persona. Penso infine all’incapacità di interagire con questi casi pericolosi, che fa sì che alla fine ci si nasconda dietro la  pericolosità dei benefici stessi, dimenticando che, come nella vicenda di Dorio, tra otto anni circa lui sarebbe stato comunque libero e probabilmente uguale a come era in questi ultimi mesi. Mi è capitato, anche con un certo imbarazzo, di discutere con alcuni compagni che scontavano condanne per omicidio, e di scoprire che non avevano mai incontrato uno psichiatra o uno psicologo.

Anche se è facile constatare che i casi di recidiva di omicidio sono veramente pochissimi, oggi però mi rendo conto che bastano questi casi eccezionali, perché tali restano, per metterci in condizione di dover difendere da attacchi furibondi l’utilità dei permessi premio e delle misure alternative come opportunità per tutti. Ma se proprio nei confronti di questi casi veramente pericolosi, soprattutto perché in un modo o nell’altro la loro pericolosità riescono a nasconderla, non si comincerà ad avere maggior cura ed attenzione, prima o poi si arriverà a convincere la gente a fare grossi passi indietro riguardo all’esecuzione della pena, che negli ultimi anni ha già subito attacchi in alcuni casi riusciti. Sta anche a noi quindi chiedere serietà, attenzione e cura per il bene di chi è dentro quanto di chi sta fuori, chissà che così diminuisca l’occasione di sentire attacchi insensati alla Gozzini.

Non ci sono giustificazioni per buttare via le chiavi a priori per nessuno

 

Certamente le responsabilità vanno accertate, e ad esempio per il caso Izzo io non ho ancora capito come sia andata a finire. E Antonio Palazzo, che aveva tentato in passato di uccidere la fidanzata, e ora in semilibertà continuava a minacciare la compagna da cui aveva avuto un figlio, era considerato comunque sano di mente. E come lui tanti altri, nonostante i gravi problemi psichici, continuano a passare inosservati da quando gli mettono le manette a quando li scarcerano, e chi è stato in carcere di questi casi sa che non è raro incontrarne.

Ma a me sembra assurdo sentire riproporre modifiche della legge, nei termini di negare i benefici a chi ha commesso omicidi o sequestri, mettendo tutti insieme come se non si trattasse di persone, sì, uomini e donne per i quali non si ha l’attenzione necessaria a conoscere la storia personale e a provare a capire quando, dove e come la loro pericolosità viene ad essere davvero minima. Questo dovrebbe significare, per gli operatori che poi valuteranno questo grado di pericolosità, entrare in una relazione con la persona con una preparazione scientifica e una disponibilità a mettersi in gioco, che nelle funzioni istituzionali purtroppo non sono certo obbligatorie.

Per il resto, che siano state perse altre vite non può essere una giustificazione a buttare via le chiavi a priori per nessuno, sarebbe la pena di morte mascherata e ripulita. Forse occorre una nuova logica del rischio nei confronti del reale cambiamento della persona che ha sbagliato, che sia basata sulla voglia e la speranza di tentare sempre di recuperarla. Questo non vuol dire però fare degli azzardi, che in certi casi sono evidenti anche per noi, che stiamo pur sempre dall’altra parte. E sono azzardi spesso dettati da un sistema al collasso che non funziona. I Magistrati di Sorveglianza, che devono occuparsi di come le persone condannate sconteranno la loro pena, sono solo 150, ma a tutti quelli che con la galera non avranno mai a che fare, qualche volta solo perché se lo possono permettere, cosa volete che interessi dell’esecuzione della pena? Tangentopoli è finita e bancopoli sembra già risolta.

I reati commessi da detenuti che hanno usato male la loro libertà

Storie di “benefici” finiti male. Quando l’orrore della cronaca nera

si abbatte come un macigno sul destino di chi sta in carcere

a cura della Redazione

 

In questi giorni c’è stato un momento in cui noi che stiamo in carcere non avevamo più neppure voglia di aprire i giornali o guardare la televisione: le notizie di apertura erano infatti macigni, storie tragiche di gente che, uscita dalla galera, è tornata ad ammazzare. Poi abbiamo deciso di non nasconderci ma di affrontare con un po’ di coraggio una questione scottante come questa: dove è in gioco il nostro futuro, e il senso che può avere, per la società, accettare un sistema che permette, a chi commette un reato, di scontare parte della pena con un percorso graduale di uscita dal carcere, attraverso i permessi premio prima e il lavoro in regime di semilibertà poi. Le testimonianze che riportiamo cercano di convincere i cittadini “liberi” che questo sistema è buono e giusto, e che i rischi sono pochi, e sono senz’altro meno che non se le persone condannate si facessero tutta la carcerazione in galera e uscissero, alla fine, incattivite, senza più affetti, senza una rete di protezione ad accoglierle. Ma ci piacerebbe, su questo tema, confrontarci proprio con quelli che stanno “fuori” e con le loro inevitabili paure.

Conoscevo Antonio Dorio

 

di Altin Demiri

Dopo anni trascorsi dietro le sbarre spesso mi sento “incattivito” dai tanti problemi personali: la lontananza dal mio paese, dagli affetti, dalle speranze che si traducono in miraggi… Ma il culmine della delusione lo raggiungo quando si verificano gravi reati commessi da detenuti in permesso premio o in misura alternativa, come l’ultimo, Antonio Dorio, che, pochi giorni fa, nei pressi di Ferrara, dopo aver ucciso un carabiniere ha perso a sua volta la vita. Vorrei riuscire a trasmettere i miei sentimenti nel modo più giusto, per far capire che determinati fatti non hanno scosso solo l’opinione pubblica, ma hanno turbato anche me e tanti altri miei compagni di galera. Comprendo quindi lo sdegno e le critiche, c’è poco da fare per difendere la “categoria” alla quale appartengo. Certo che questo fatto è terribile e fa male, fa male anche a chi, come tanti di noi, cerca di mediare e di riconciliarsi con la società che abbiamo offeso, riprendendo le relazioni di pacifica convivenza che abbiamo “rotto” nel momento in cui abbiamo commesso reati.

Questi episodi infatti rimettono ogni volta in discussione un lavoro fatto di anni e anni di sacrifici messi in campo da molti operatori, dalle associazioni di volontariato e infine anche dalla maggioranza delle persone detenute che cercano di scontare la propria condanna il più serenamente possibile. Conoscevo molto bene il detenuto Antonio Dorio, sono stato per ben cinque anni in sezione con lui nel carcere di Bologna. Lo ricordo come una persona che si impegnava, che frequentava le varie attività, e ancora mi chiedo, a pochi giorni dai terribili fatti di cui è stato protagonista, cosa non abbia funzionato. Dopo l’evasione da un permesso premio forse ha perso la testa, forse era drogato, e la consapevolezza che quando sarebbe stato ripreso non avrebbe più ottenuto benefici lo ha fatto precipitare a un punto “di non ritorno”. Ma ormai poco importa: so soltanto che, proprio perché anch’io sono detenuto, devo avere la forza di dire che certi fatti così atroci non dovrebbero mai succedere, e devo farlo con la stessa lealtà e solidarietà con le quali cerco di difendere i diritti dei detenuti affinché ci sia concesso un futuro migliore.

Dobbiamo avere il coraggio di giudicare noi stessi, di prendere una posizione e di condannare questi gravissimi casi, ma con la stessa determinazione dobbiamo dire che non vogliamo tornare indietro di trent’anni, quando la pena era solo punizione e il recupero del reo non interessava a nessuno. A coloro che affermano che i benefici penitenziari sono portatori di ulteriore criminalità dico che non è vero, e che non si devono mai fare queste inutili generalizzazioni. Se si reagisce emanando leggi più restrittive si rischia di far precipitare nel baratro –e di privare di tutte le speranze – anche le persone detenute che vogliono tornare a vivere onestamente, e comunque rispondere al male con il male non porta da nessuna parte.

Salviamo quella legge, pensata proprio per restituire

alla società persone cambiate, uomini nuovi

 

di Flavio Zaghi

 

Quando assistiamo a certi fatti ci viene spontaneo pensare quanto sia piccola la nostra, seppur dolorosa, esperienza, in confronto a quella di altri. Questa volta in un’assurda sparatoria a perdere la vita, purtroppo, sono stati in due, “un buono e un cattivo”. Il cattivo: Antonio Dorio, 36 anni, già autore di una sanguinosa rapina, evaso da un permesso premio dopo aver scontato gran parte della condanna, è stato fermato dai carabinieri alla guida di un’auto rubata. Forse i due carabinieri non hanno calcolato che quell’uomo, in quel momento, era disposto a buttare via la sua vita già irreparabilmente segnata e anche quella degli altri. Lo hanno fatto salire sulla loro macchina, lui deve aver tirato fuori una pistola, forse non era stato perquisito bene. Un carabiniere viene ferito e muore in ospedale; l’altro, l’evaso, è ormai perso, tenta una fuga tanto disperata quanto impossibile, ma finirà la sua folle corsa e la sua stessa vita in un fossato.

La notizia ha fatto il giro dei telegiornali, la gente si indigna e forse, a ragione, spara a zero: “Bisogna rivedere la legge, gente come questa deve restare in galera per sempre!”. Come si fa a dargli torto? Mi piacerebbe però, in una pacata discussione, far capire che se tutti noi  riteniamo giusto vivere in una società “civile”, fatta di individui responsabili, in una società democratica in cui ci si possa sentire liberi, allora bisogna anche accettare di mettere in conto dei rischi. Il più delle volte infatti, quando succedono fatti gravi come questo, il cittadino è indignato e terrorizzato, e a ragione invoca lo Stato per curare le sue angosce. Tutti si sentono abbandonati e diffidenti, quindi chiedere più controlli sembra l’unica soluzione, ma se lo Stato applica livelli maggiori di repressione, anche sociale, è la libertà stessa per i cittadini in generale a diminuire, mentre il carcere altro non diventa che una fiorente industria di contenimento e null’altro.

Le istituzioni parlano del carcere come luogo atto al reinserimento dei soggetti detenuti: bene, in buona misura questa non è la verità. Il carcere è spesso luogo di educazione al crimine, di inasprimento della cattiveria individuale e generale che porta poi alla reiterazione dei reati. Se non fosse per scelte personali o interventi di elevato spessore culturale che arrivano quasi solo dal volontariato, è pressoché impossibile prendere parte in carcere a iniziative mirate alla reintegrazione e al reinserimento. E invece un percorso finalizzato al reinserimento dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione, ma anche una garanzia per la società, che non deve essere truffata nella sua giusta aspettativa di riaccogliere al suo interno individui rieducati e migliorati.

Io vorrei che la gente pensasse che la funzione della detenzione dovrebbe essere quella di far capire a chi ha commesso reati che esiste un modo diverso di vivere, e poi di creare le condizioni perché non arrechi più danni alla società. Nessun intervento “muscolare”, a mio avviso, può dare buoni frutti, l’uso della forza amplifica i problemi e non  li risolve affatto. Chiudere la gente in gabbia e “buttare via la chiave” non serve a niente.

Mi rendo conto che è molto più facile elencare gli esiti negativi di casi in cui la legge Gozzini, quella che permette di scontare parte della pena fuori, in misura alternativa, è stata applicata, però qui a Padova, ad esempio, sono molte le persone che con fatica, anno dopo anno, si stanno reinserendo proprio grazie a questa legge, pensata per restituire alla società persone cambiate, uomini nuovi, che sanno anche prendere le giuste distanze da fatti di ordinaria follia come quelli di Ferrara, e che come tutte le persone “normali” si uniscono al dolore a al cordoglio dei familiari di entrambe le vittime e si chiedono se queste morti si potevano in qualche modo evitare.

Un carcere che punisce e non cura

 

di Graziano Scialpi

 

Di fronte a delitti commessi da detenuti in misura alternativa, anche in carcere si prova sbigottimento e costernazione. Ma in carcere si aggiunge anche la consapevolezza che, a mo’ di “giustizia riparativa”, qualche tegola si abbatterà sulla testa di migliaia di altri poveracci che attendono da anni di poter trascorrere un week-end con i figli e la moglie o con la propria madre e che mai si sognerebbero di andare ad ammazzare qualcuno.

Quando si tratta di gravi fatti di sangue, in fondo, una dura reazione è tanto umana che anche in carcere la si accetta come ineluttabile. E anche chi fa informazione dal carcere è consapevole che, di fronte al dolore dei parenti delle vittime e all’indignazione pubblica, è inutile e forse dannoso argomentare con cifre e statistiche. Ma questa volta una cifra voglio farla: in Italia ci sono migliaia di persone che godono di misure alternative alla detenzione o di benefici (semilibertà, permessi premio eccetera), e solo lo 0,24 per cento commette reati durante queste misure, di fronte a una media del 3 per cento che nel resto d’Europa è considerata “accettabile”.

Detto questo, a mio parere, almeno nel caso di Antonio Palazzo, che uscito dal carcere, dove scontava una pena per il tentato omicidio della fidanzata, ha ammazzato qualche giorno fa la sua ex convivente, qualcosa forse si poteva fare. Il nostro sistema penale prevede che il carcere debba anche rieducare, affinché chi termina la pena (e Palazzo prima o poi sarebbe comunque uscito), possa uscire migliore di quando è entrato. Se il sistema funzionasse, fin dal suo ingresso in carcere Palazzo avrebbe dovuto essere seguito costantemente da psicologi, psichiatri ed educatori, che nel corso di incontri frequenti avrebbero forse potuto accorgersi che il suo primo crimine non era un episodio determinato da fattori contingenti, ma nasceva da qualche tipo di “ossessione” o da un disturbo affettivo nei rapporti con le altre persone. Si sarebbe allora dovuto curare Palazzo per cercare di riportarlo alla normalità e di lenire la sua sofferenza, perché, non dimentichiamolo, è stata una atroce sofferenza che l’ha portato a questo esito autodistruttivo prima ancora che distruttivo. E questo intervento avrebbe dovuto essere mirato non a escludere Palazzo dai benefici di legge, ma ad evitare che al momento della inevitabile scarcerazione uscisse con gli stessi disturbi che lo avevano portato a tentare di uccidere.

La colpa è quindi degli psicologi ed educatori che avevano in carico Palazzo? No, perché educatori e psicologi sono talmente pochi che in molte carceri passano mesi prima che un detenuto riesca a parlare con l’educatore, che invece della quarantina di detenuti che dovrebbe seguire ne ha in carico magari 300. La colpa non è neppure dei magistrati di sorveglianza, pochi anch’essi, che dovrebbero dare la possibilità di reinserirsi nella società, sapendo che un reinserimento graduale aiuta a diminuire la recidiva. La responsabilità è soprattutto di chi ha costantemente ridotto le spese per le carceri, ha bloccato i concorsi per l’assunzione di operatori e non ha fatto nulla per contenere il numero dei detenuti, vanificando il lavoro quotidiano di quanti cercano di restituire alla società persone migliori di quelle che sono finite dietro le sbarre.

Per difendersi dalla cattiva informazione

Fantasie e luoghi comuni sul carcere e sulle pene. Quando stampa e tv parlano di detenzione senza spiegare, o senza capire, o a volte senza voler capire…

 

di Stefano Bentivogli

 

Spesso scrivere e parlare sono strumenti che invece di aiutare a capire assumono un ruolo che è esattamente il contrario. Si arriva addirittura a creare degli stereotipi, delle generalizzazioni, che sono assolutamente strumentali a deformare la realtà, fino a renderla funzionale a logiche di parte. Per quanto riguarda poi l’ambito penitenziario, c’è il vantaggio, per chi fa certe operazioni di autentica disinformazione, di non avere nessuno che replichi o smentisca, sia perché chi si trova dietro le sbarre non ha facile accesso ai mezzi d’informazione, sia per una cultura che tende a togliere il diritto di parola a chi ha commesso un reato, ed anche perché i mezzi culturali che il detenuto medio possiede sono scarsi.

Tra i motivi della cattiva informazione sui temi del carcere e del disagio sociale ad esso connesso c’è anche un elemento che oscilla tra l’impreparazione degli addetti all’informazione, e la pigrizia di andare a capire un ambito molto particolare, nel quale leggi, regole e usi consolidati sono abbastanza difficili da comprendere anche per chi è dell’ambiente, i detenuti stessi. Tutto ciò giova spesso ai tanti che, sfruttando proprio questa immagine deformata dei detenuti e della detenzione, ne approfittano per farne un’arma utile a sostenere le continue spinte giustizialiste alle quali ormai ci si è abituati ad assistere. Basta guardare le ultime leggi approvate, oppure più semplicemente un qualsiasi articolo di cronaca nera o giudiziaria.

Proverò a mostrare solo alcune immagini classiche, quelle che comunemente rientrano tra i modi di dire e di pensare della gente, e che ovviamente ritroviamo sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici che usano ancora il populismo per attirare consensi, dimenticando il dovere all’informazione corretta, unica attività che rende i cittadini più liberi di giudicare criticamente e quindi di avere opinioni consapevoli, e non derivanti da un immaginario che magari con la realtà non ha niente a che vedere.

 

Ecco alcuni esempi:

 

In Italia le pene sono brevi

 

Questo è uno dei modi di dire tipici di chi con il sistema penitenziario non ha avuto niente a che fare. È vero che bisogna tenere presente quale è il sistema di riferimento che si prende perché, come sempre, qualcuno che sta peggio lo si trova, ed in ambito penitenziario non necessariamente c’è corrispondenza tra livello di democrazia ed entità delle pene. Quindi, se vogliamo prendere a riferimento gli Stati Uniti, dove oltre alla pena di morte c’è una legge che dopo tre reati prevede il carcere a vita, noi italiani siamo veramente messi bene e non dobbiamo lamentarci. L’unico commento può essere che la sicurezza negli U.S.A. è molto minore che da noi, e che quindi non vale l’equazione: durezza e lunghezza delle pene=maggiore sicurezza sociale.

Se guardiamo altri Paesi, più vicini culturalmente e geograficamente, troviamo che per quanto riguarda lo spaccio degli stupefacenti siamo tra quelli con pene più alte e con un sistema di aggravanti che le portano vicine ai massimi applicabili (trenta anni). Per l’omicidio volontario poi ci sono in Italia pene che vanno dai ventuno anni, all’ergastolo nel caso di particolari aggravanti. Esistono Paesi, dove la pena massima alla prima condanna (tranne casi eccezionali) è comunque  quindici anni, raggiunti i quali la pena viene riesaminata e viene deciso se il condannato può essere rimesso in libertà o meno.

Un’altra cosa che si dice spesso ed impropriamente è che in Italia, per ogni anno di carcere scontato, viene anticipato il “fine pena” di tre mesi, la cosiddetta liberazione anticipata. Ci si dimentica sempre di ricordare che questo beneficio è legato alla “buona condotta”, che non significa solo non commettere né reati né infrazioni al regolamento, significa anche “aderire positivamente alle offerte trattamentali” che l’istituzione penitenziaria propone. Ora non è semplice come potrebbe sembrare, in carceri sempre più sovraffollate, mantenere lo status della “buona condotta”, con persone sempre più sofferenti anche di disagio psichico, con un personale dove gli operatori, addetti alla custodia e non, sono sempre sott’organico, dove la convivenza di etnie e disagi diversi viene compressa in spazi e regole spesso difficilmente comprensibili. Basta una discussione, un’incomprensione, a volte una parola detta in più per perdere questo beneficio.

Le pene in Italia sono abbastanza lunghe, addirittura nel caso degli stranieri irregolari, dove gli innumerevoli processi in contumacia impediscono l’esercizio di un reale diritto alla difesa, le pene sono lunghissime, e per chi non ha i mezzi per difendersi è quasi sempre così. Ma poi, quanti sono quelli che sono in grado di stabilire qual è davvero la “lunghezza” di un anno, dove ogni giornata è fatta di venti ore chiusi in una cella di pochi metri quadrati?

 

I recidivi: professionisti del crimine e irriducibili del male

 

Con la recente legge ex-Cirielli si è tornati a parlare in maniera forte del fenomeno della recidiva. I recidivi per legge sono coloro i quali, essendo condannati in via definitiva una prima volta, commettono altri reati e subiscono altre condanne. Sempre per legge poi ci sono vari distinguo a seconda che le condanne successive alla prima siano per reati della stessa indole, avvengano nell’arco di cinque anni ecc..

Se questa è la neutra definizione che ne dà la legge, c’è invece poi l’interpretazione che ne danno i politici, soprattutto quelli che la ex-Cirielli l’hanno proposta. Recidivi: si tratterebbe di persone spregevoli, la cui abitudine a violare le leggi è data dall’odio per gli altri, un odio  che neanche la galera, strumento principe della rieducazione, è riuscito a volgere in amore e rispetto per le regole. Una  volta l’ho sentita mettere nei termini “ad una persona viene data una possibilità, poi una seconda, ma se sbaglia ancora, allora possibilità non se ne danno più”, così un politico commentava il senso della ex-Cirielli. Provate a pensare ad una persona che abbia problemi a livello di disturbi del comportamento, oppure ad un tossicodipendente: è possibile stabilire una quota di trasgressioni entro le quali si applicherà una pena normale, oltre la quale si passa invece ad un aggravio tale da consegnare gran parte della sua vita alla vita da gabbia?

La gran parte dei recidivi lo sono per reati di lieve entità, e se i loro reati sono frutto di problemi quali la tossicodipendenza ed il disagio sociale, come si fa a stabilire un limite oltre il quale queste persone sono da considerare irrecuperabili? L’immagine che se ne vuole dare è invece di tipo moralista, dove l’opzione illegale è una scelta, uno stile di vita che sottende una cultura ai limiti dell’eversione: e in occasione delle varie dichiarazioni che si sono sentite sulla ex-Cirielli si è tentato di dare proprio questo tipo di definizione del recidivo.

Ad ogni modo solo un ipocrita può far finta che la recidiva non sia un problema, e che non sia un problema serio il fatto che ci siano persone che commettono ancora reati, dopo averne scontate le pene per altri. Ma come tutti i problemi seri, è più complessa l’analisi che ne va fatta. Bisognerebbe chiedersi ad esempio come mai il carcere non sortisce il benché minimo cambiamento nel recidivo, e quindi quanto senso ha inasprire ulteriormente le pene attuali che, se applicate, consentono già un discreto aggravio dell’entità della condanna per i recidivi.

Ma chi sono questi benedetti recidivi? Se ne può fare una categoria rigida al punto da proporre leggi che appiattiscono, sempre in maniera rigida, le risposte della giustizia (come la ex-Cirielli vuole stabilire)? Chi in carcere c’è stato un’idea di chi siano i recidivi se l’è fatta, anche perché già oggi le carceri ne sono piene, tanto che sembra quasi che il carcere stesso nella produzione di recidiva un ruolo ce l’abbia. Statisticamente i reati dove c’è maggior recidiva sono quelli contro il patrimonio legati al consumo di stupefacenti e lo spaccio degli stessi e quelli a sfondo sessuale.

Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che siamo di fronte a questioni di tipo patologico, sulle quali, invece di continuare a pensare ad inasprire le pene, sarà meglio iniziare a pensare a come curare, durante ed anche dopo la pena, questo tipo di persone. Persone che, quando prima o poi escono, commettono di nuovo gli stessi reati, quindi il problema è più serio di una legge che aumenta le pene. In realtà i detenuti per questo tipo di reati vengono chiusi in sezioni isolate dalle altre, dove spesso non viene svolta alcuna attività, né di tipo “rieducativo”, né di tipo terapeutico.

Per quanto riguarda invece i reati legati alle tossicodipendenze e la recidiva ad essi collegata, il problema è a monte. Finché per mantenersi la dipendenza le persone dovranno procurarsi sostanze che sono proibite, e che quindi hanno un costo proibitivo, continueremo ad avere tanti reati quanto sarà il bisogno di soddisfare le dipendenze esistenti. Sono questi i mostri, i principi del male, quelli da bastonare con anni ed anni di carcere, quelli che hanno un solo problema per la legge italiana, ossia non chiamarsi Calissano, Elkann, Maradona, Colombo e come i pochi altri (ma pare che non siano poi tanto pochi) che hanno redditi tali da consentirgli di pagarsela coi loro soldi, la roba?

Sono questi la gran parte dei recidivi che riempiono le galere italiane, magari il loro malessere e la depressione che li porta a farsi non è lo stress da successo o da troppi soldi, magari è invece una vita sempre più difficile e con pochi sogni, con una miseria e una precarietà materiale e culturale che fa cadere nella voglia di anestesia o nell’illusione di poter essere di più di quello che si è, non accettando il vivere frustrati da modelli oggi proposti come vincenti, che però sono, per la maggioranza, irraggiungibili. Ma quanti profitti creano questi modelli dell’uomo vincente, pieno di soldi, donne, macchine, vestiti, di tutto e di molto costoso!

Questi sono i recidivi, i cattivi, quelli che proprio non la vogliono capire che devono rispettare le leggi, quelli che qualcuno sta cercando di convincere la gente che vanno chiusi in una cella di cui va buttata via la chiave.

 

La polizia li prende ed il giorno dopo sono già fuori

 

Un altro luogo comune è che i criminali vengano presi e il giorno dopo siano fuori liberi. Ma più che un luogo comune è una mezza verità che confonde le idee. Quindi che nella gran parte dei casi dopo l’arresto si esca rapidamente è vero, anzi molti passano qualche ora in commissariato per la denuncia, poi vengono messi in libertà subito, a meno che:

non si corra il rischio che scappino

non abbiano la possibilità di inquinare le prove

non vi siano elementi tali da presupporre che il presunto colpevole possa commettere di nuovo il reato

Si torna liberi sì, ma in attesa di processo perché, per fortuna, si è considerati innocenti finché non sarà stata emessa sentenza definitiva. Poi è vero che, se anche non si torna liberi subito, ossia il magistrato convalida l’arresto, esistono tempi entro i quali o si viene processati e condannati, o si deve essere rimessi comunque in libertà. Questo periodo si chiama “custodia cautelare” e la sua lunghezza varia a seconda della gravità dell’imputazione. Ora, come al solito, quello che fa più scalpore è il tossicodipendente che, il giorno dopo essere stato preso mentre ruba una macchina, è fuori, e magari viene incontrato proprio dalla sua vittima. È comprensibile la rabbia delle vittime ma, ve lo posso garantire personalmente, prima o poi si viene processati, e non si scappa, le pene vengono cumulate e ci si trova ad un certo punto con svariati anni da scontare tutti insieme.

La giustizia è lenta, e situazioni come quella che vi ho descritto, se pure a prima vista non sembra, vanno a svantaggio anche del criminale, che alla fine si ritrova con cumuli di pene da brivido. Ma si scontano poi queste pene, ve lo posso assicurare, i condannati per piccoli reati scontano quasi sempre tutto, magari con qualche anno di ritardo e dopo che hanno cambiato vita, ma scontano tutto. La giustizia lenta fa comodo solo a chi riesce ad arrivare ai termini di “prescrizione”: significa che se il processo dura troppo, per l’imputato, colpevole o innocente che uno sia, la storia finisce lì. Ma queste persone non destano allarme sociale quando il giorno dopo essere finite sotto indagine sono ancora in televisione, oppure su uno scranno in parlamento. E i loro reati non sono mai meno gravi del furto, né meno pericolosi, solo che sotto indagine non ci sono dei poveracci, bensì dei potenti in grado di pagare fior di avvocati.

Andate a vedere che tipi di reati vengono prescritti: non certo quelli dei tossicodipendenti, normalmente presi in flagranza di reato e che, per non rischiare una pena esorbitante, “patteggiano” (cioè chiedono di essere condannati per ottenere uno sconto di pena). A loro il problema della lentezza della giustizia non li riguarda, al processo sono condannati in prima udienza e subito, o nel giro di qualche mese, sono in carcere. Quindi sembrerà strano, ma quelli che il giorno dopo sono in giro a caccia dei soldi per una dose, o vivono sotto falso nome, cercando di evitare gli effetti della Bossi-Fini, pagano, pagano tutto. Gli altri invece usufruiscono di una sorta di impunità automatica, che le nuove norme della legge ex Cirielli facilitano, riducendo ulteriormente i tempi necessari alla prescrizione.

 

Dopo così pochi anni esce dal carcere

Così titolano spesso i giornali, lasciando intendere che per certe persone, dopo pochi anni di carcere, lo scontare la pena sia finito e che il detenuto torna in libertà. In realtà si tratta in molti casi  dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, oppure ai permessi premio. Per capire come stanno le cose occorre leggere tutto l’articolo, ed a volte non basta lo stesso. È successo ad esempio quando Omar (coimputato di Erika nell’omicidio di Novi Ligure) sembrava volesse chiedere un permesso premio: già i titoli erano “Omar esce dal carcere”. Solo leggendo si capiva che invece si trattava di passare qualche ora presso una comunità. Ma la stessa cosa avviene quando qualcuno accede alla semilibertà o all’affidamento in prova; sui giornali si fa apparire la cosa come se si trattasse realmente di riottenere la libertà.

Il fatto di poter accedere ad una misura alternativa al carcere cambia radicalmente la vita del condannato, a seconda del tipo di misura concessa il legame col carcere diminuisce  ed aumentano gli spazi di libertà, di autonomia. Ma tutto prevede delle regole e limitazioni, un vero e proprio contratto sul  quale si valuta la buona riuscita o meno del percorso di reinserimento sociale. Non si tratta di riottenere la libertà, piuttosto di scontare la pena in maniera diversa, dove si va dal passare alcune ore a lavorare fuori dal carcere come per la semilibertà o l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, all’affidamento che, secondo i casi, può avvenire presso una comunità terapeutica, o a casa propria con un lavoro. Sulle misure alternative viene effettuato un controllo, sia da parte dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (e del Ser.T. nel caso di tossicodipendenti) che delle forze dell’ordine tramite l’Ufficio misure di prevenzione. Quando il comportamento dell’affidato o del semilibero non risulta idoneo alla prosecuzione della misura alternativa, questa viene revocata, e per tre anni non è più possibile riaccedervi.

Le misure alternative alla detenzione non sono un diritto e, per usufruirne, a parte l’articolo 21 che viene concesso tramite la direzione del carcere, occorre aver scontato gran parte della pena. Sono misure che riguardano in genere la parte finale e dovrebbero consentire un graduale rientro nel mondo libero. Non si tratta comunque di libertà: a parte l’affidamento in prova, nelle altre si continua a pernottare in carcere e, negli orari d’uscita, ci sono severe limitazioni a quello che si può fare o meno. Non è difficile subire una revoca della misura, dipende molto dalla discrezione del Magistrato di Sorveglianza, la stessa discrezione che comunque mantiene nella concessione della misura stessa. Un discorso simile vale per i permessi premio, per i quali, secondo il reato commesso e l’entità della pena ricevuta, cambiano i tempi entro i quali vi si può accedere. E non si è mai liberi di uscire e scorrazzare ovunque, a qualsiasi ora e a fare quello che si vuole. Anche qui vi sono delle prescrizioni da rispettare, possono essere al massimo 45 giorni l’anno ed allo stesso modo delle misure alternative, i permessi premio possono essere revocati.

Quando un detenuto arriva alla concessione di permessi premio o misure alternative, accade spesso che sui giornali si titoli, sempre senza spiegare di cosa si tratta, “X, famoso per aver commesso questo e quell’altro reato, torna a casa”. Magari ha ottenuto mezza giornata per andare a trovare l’anziana madre, ed invece sembra che sia uscito dal carcere libero, e non che abbia un percorso obbligato, degli orari da rispettare, il divieto di incontrarsi con pregiudicati, di usare stupefacenti, di abusare con l’alcol, che possa lasciare l’abitazione della madre solo per qualche ora, che debba passare in Questura per l’obbligo di firma, che non possa uscire dal Comune presso il quale si reca, e che infine debba tornarsene in cella.

Sebbene permessi premio e misure alternative siano ormai istituti datati in termini di legge, sembra sempre che quando sono concessi siano una novità. In realtà, essendo misure di assoluta discrezione del Magistrato di Sorveglianza, la possibilità di una loro concessione cambia radicalmente da un ufficio di sorveglianza ad un altro, tant’è che, potendo costituirsi all’avvio dell’esecuzione di una pena, ci sono persone che scelgono istituti di pena ove, per fama, si sa che l’accesso alle misure alternative è più semplice. Ma la questione delle misure alternative e dei permessi è spesso mal spiegata proprio perché è mal digerita ed accettata, soprattutto quando il reato ha lasciato ferite aperte e rancori non superati.

Difficilmente i parenti delle vittime, ma anche i mezzi di informazione in genere, accettano che il responsabile ad esempio di un fatto di sangue possa ad un certo punto della sua pena cominciare a riaffacciarsi gradualmente alla libertà. Questo è previsto dalla legge che però, in quanto tale, non può sanare il conflitto che si è creato al momento del delitto. La pena dovrebbe di per sé retribuire le vittime ed i parenti del danno subito, in realtà non è quasi mai così, neanche quando la pena è stata scontata integralmente. Di qui deriva che il recupero alla libertà di una persona, che sta scontando o ha scontato una pena,  non è quasi mai visto come l’atto conclusivo di un conflitto dovuto ad un grave torto subito. Il conflitto rimane quasi sempre aperto ed ogni occasione che porti a ricordare il delitto riapre le ferite. Negli ultimi anni si sta ipotizzando di affrontare problemi di questo tipo con la mediazione penale, un tentativo di incontro tra vittime e reo, dove il conflitto può essere almeno attenuato.

Resta comunque, al di là dei tentativi che si possono fare per spiegare meglio i luoghi comuni che sono troppo ricorrenti sui mezzi di informazione, la sensazione che dietro ci sia un problema di tipo culturale, ossia che provare ad affrontare in maniera laica la “questione pena e carcere” sia ancora un’impresa molto difficile. Soprattutto c’è ancora poco ascolto e poco confronto tra chi è dentro e chi è fuori dalle carceri e l’informazione, dentro il carcere, tra le persone che lo popolano, fa fatica ad entrare, vuoi perché questa istituzione è ancora troppo chiusa, vuoi perché in molti non si vuole credere che anche lì dentro, se la si vuol cercare, c’è un po’ di verità che aiuta a capire anche quello che succede fuori.

Informazione dal carcere: insieme per farsi sentire

Carceri più trasparenti: la Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere muove i primi passi. Da diversi anni chi si occupa di informazione dal carcere tenta di darsi una qualche forma di aggregazione, che garantisca un riconoscimento anche giuridico e che consenta di superare le diffuse difficoltà nell’operare in questo settore

 

a cura della Redazione

 

Bologna, 24 novembre 2005

La “Giornata di formazione per chi fa informazione dal carcere”, che si è tenuta il 24 novembre a Bologna, è stata il punto di arrivo di una vasta attività di informazione prodotta da chi opera o vive dentro gli istituti di pena italiani. C’è infatti dietro una storia parecchio lunga quanto travagliata, che nasce dalla volontà di gruppi di detenuti e volontari di realizzare giornali che hanno lo scopo di portare all’esterno delle mura quanto succede dentro le carceri. Il tentativo è quello di impegnarsi per rendere pubblica una realtà, quale quella della detenzione, spesso occultata e dimenticata a causa di una cultura della pena che vorrebbe attuare il massimo di segregazione nei confronti di chi ha commesso un reato.

È da diversi anni che chi si occupa di informazione dal carcere tenta di darsi una qualche forma di aggregazione, che garantisca un riconoscimento anche giuridico e che consenta di superare le diffuse difficoltà nell’operare in questo settore. Ora è stato dato a Ristretti Orizzonti il ruolo di capofila, per promuovere iniziative comuni che abbiano anche un risvolto in termini di condivisione, di visibilità e quindi di maggior forza e tutela per le realtà più piccole o di recente costituzione. L’incontro di Bologna ha avuto di particolare la collaborazione ed il sostegno dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, che ha dimostrato non solo sensibilità ad un settore dell’informazione che l’editoria spesso ignora, ma anche disponibilità ad entrare in gioco fornendo consulenza e formazione alle nostre realtà che di questi apporti hanno oggi grande bisogno.

Il tempo è quindi stato dedicato in parte ad alcune questioni tecniche quali il trattamento delle notizie, la verifica delle fonti, il problema della responsabilità nei confronti di terzi, che sono spesso causa di difficoltà nell’affrontare la diffusione dell’informazione, partendo da un ambiente particolare come il carcere. Per questo abbiamo deciso che proprio la formazione doveva diventare una delle attività in grado di costituire il collante per la rete che stiamo promuovendo, dove l’utilizzo di mezzi e conoscenze deve essere una base comune su cui arrivare a costruire anche un linguaggio che ci consenta di dialogare con le istituzioni e con un pubblico di lettori più allargato di quello degli “addetti ai lavori”.

Dietro c’è la volontà di consolidarsi all’interno del mondo dell’informazione come soggetto a pieno titolo, di diventare referenti credibili su questioni dove “l’informazione ufficiale” spesso è distratta o addirittura malinformata. Il costituire quindi una Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere, che potrebbe sembrare un normale associarsi tra realtà già funzionanti, rappresenta nel nostro caso, e ce ne siamo resi conto nel piccolo dibattito che è seguito agli interventi di giornalisti ed esperti, la possibilità di costruire spazi maggiori e maggiore tutela in tanti istituti dove l’attività di informazione è ancora vista come un’appendice dell’amministrazione penitenziaria, e non un soggetto chiaro e definito che si pone al di là delle istituzioni e dà libero accesso a chiunque, singolo, associazione o ente, abbia intenzione di collaborare. Perché la logica dovrebbe essere quella di aprire il carcere all’esterno superando forme di controllo e censura, che in alcuni casi nascondono l’ostilità a rendere le questioni legate all’esecuzione della pena fatti e notizie disponibili a chiunque voglia essere informato.

Una tappa importante deve essere anche quella di definire, con il Dipartimento della amministrazione penitenziaria, un rapporto stabile che sia utile ad affrontare di volta in volta i problemi che possono crearsi nelle redazioni, e a stabilire degli spazi nuovi all’interno dei quali i detenuti, le associazioni di volontariato, gli enti locali ed i rappresentanti del territorio in genere trovino informazioni utili a creare iniziative di cambiamento. Finora la realtà delle carceri è rimasta troppo chiusa per non diventare alla fine un momento di frattura totale nella vita delle persone che scontano una pena. Ci si accorge invece sempre più che portare la conoscenza di questa realtà alla cittadinanza è un’occasione formidabile per iniziare a provocare cambiamento tanto dentro il carcere quanto fuori da esso.

Ma la situazione dalla quale si parte in molte città è ancora quella di carceri che sono luoghi dove non è lecito sapere cosa  succede dentro, dove la stessa istituzione non è in grado di rispettare le norme fino a porsi ai limiti, o oltre, la legalità. Per questo occorre che l’attività di informazione si estenda ovunque possibile, senza necessariamente realizzare giornali o siti internet che in alcuni casi non si ha poi la forza di gestire. Con queste finalità la Federazione ha raccolto le prime adesioni (alla giornata di Bologna hanno partecipato più di 100 persone) ed invita ad aderire tutti, detenuti, volontari, testate di giornale, siti internet, trasmissioni radio e TV, chiunque insomma a questa iniziativa, che si costituisce con l’impegno di crescere e durare nel tempo, ha volontà ed interesse a dedicare tempo, energie e competenze.

 

Milano, 25 febbraio 2006

A Milano la Federazione ha cominciato a camminare sulle sue gambe. È stato uno spazio importante, quello ottenuto alla Triennale, nell’ambito di una serie di iniziative sul tema della rappresentazione della pena. La mattina è stata dedicata a un incontro con l’Ordine dei giornalisti e gli studenti delle scuole di giornalismo di Milano. E la sensazione è che l’Ordine dei giornalisti, a partire dall’esperienza di Bologna, abbia deciso in qualche modo di “adottare” i giornali e le altre realtà dell’informazione dal carcere.

Al centro della possibile collaborazione, soprattutto la disponibilità dei giornalisti a promuovere momenti di formazione per le redazioni interne alle carceri, ma anche il sostegno che l’Ordine può dare alla Federazione per affermare i diritti delle persone detenute ad essere informate e a fare, a loro volta, informazione. E non è cosa da poco, se si pensa alla precarietà del lavoro di chi fa informazione dal carcere, e alla assoluta mancanza di tutele, ma anche di criteri comuni che regolino la possibilità dei redattori-detenuti di gestirsi degli spazi di lavoro accettabili. L’esempio è che a Padova la redazione di Ristretti Orizzonti ha uno spazio dove le persone lavorano cinque ore al giorno, e il giornale non viene “visionato” prima di andare in stampa, c’è un direttore responsabile che ne risponde come per qualsiasi altro giornale, mentre da altre parti è ancora in uso il controllo, e la censura, da parte della direzione del carcere, e le redazioni hanno spazi esigui per riunirsi e lavorare.

Durante l’incontro un ruolo attivo l’hanno avuto anche le scuole di giornalismo di Milano, e pure su questo terreno possono svilupparsi forme di collaborazione professionale interessanti, perché in fondo anche le redazioni in galera sono straordinarie scuole di giornalismo. Il tema del pomeriggio è stato “Informazione e luoghi comuni”, e questo è un terreno sul quale chi fa informazione dal carcere ha fin troppo da dire, visto che si misura ogni giorno con una informazione “ufficiale” che sui temi della sicurezza, della cronaca nera e giudiziaria “massacra” senza pietà le persone detenute.

È difficile, per le piccole redazioni che operano in carcere, diventare fonte attendibile di notizie per i giornali “grandi”, ma il vice direttore di Repubblica, Dario Cresto-Dina, ha avanzato delle proposte interessanti: che qualche redattore-detenuto, per esempio, possa fare uno stage nella redazione del suo giornale, e che a sua volta un giornalista di Repubblica possa “frequentare” la redazione di un giornale dal carcere e “allenarsi” a conoscere più da vicino la realtà della detenzione e a combattere gli stereotipi e le generalizzazioni che imperversano nel mondo “fuori”.

Da Sergio Cusani è arrivata invece la proposta di promuovere una specie di “Fondazione di amici della Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere”, che si occupi anche di cercare forme nuove di finanziamento. Una proposta non campata per aria, perché di possibili “amici”, di gente autorevole e competente che si occupa delle carceri oggi ce n’è molta, e dovrebbe essere anche suo interesse sostenere quelle uniche realtà che per fare informazione impegnano in prima persona i detenuti. Del resto, l’idea di fondare una Federazione era nata, tempo fa, proprio da Sergio Cusani e da Sergio Segio, e quindi perché non riconoscergli la capacità di “guardare lontano” in questo difficile ambito e di avere delle felici intuizioni?

Una attenzione forte da parte del mondo dell’informazione, dell’Ordine dei giornalisti e dei giornali “veri”: questa è la novità più significativa che la Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere è riuscita a mettere in moto, anche se con grande fatica, perché le redazioni che si muovono all’interno delle carceri sono ancora fragili e stentano a consolidarsi e a lavorare insieme. Ma la direzione è quella giusta, e la prossima tappa è già stabilita: il 26 maggio a Padova, in una Giornata di Studi sui temi dell’informazione che porterà all’interno del carcere di Padova, a confrontarsi con i detenuti, centinaia di persone, giornalisti, esperti sui temi della comunicazione, operatori di associazioni che abbiano la voglia e le risorse per cimentarsi attivamente nell’ambito della informazione dal carcere e sul carcere.

 

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