Donne dentro

 

Natasha: la “sorpresa” di una lunga condanna in contumacia

 

Passare la frontiera tranquilli, senza neppure immaginare che in Italia ti possono condannare in tua assenza senza farsi troppi scrupoli. E trovarsi così con undici anni di galera addosso e una figlia di poco più di tre anni da cui doversi separare

 

Passare la frontiera per entrare nel nostro paese tranquilli, e scoprire di essere una criminale, condannata a undici anni di galera e con una figlia di poco più di tre anni da cui doversi separare.

È successo a una giovane donna del Montenegro, che spiega bene nella sua testimonianza il disastro di una vita rovinata da una condanna, di cui non sapeva assolutamente nulla e dalla quale non ha potuto in alcun modo difendersi; ma succede a tante altre persone, che finiscono in carcere e non sapevano neppure di essere state processate. Ora il Consiglio dei Ministri, dopo il recente intervento della Corte di Strasburgo che aveva condannato il governo italiano, colpevole di non rispettare i diritti della difesa, ha approvato un decreto legge che modifica le regole del processo in contumacia. Il Ministro della Giustizia ha detto che così si eviterà che sia negata l’estradizione dei latitanti in giro per il mondo, noi speriamo soprattutto che storie come quella di Natasha non si ripetano più.

 

Il racconto di Natasha

Io abitavo a Parigi, con il mio compagno e mia figlia, avevo documenti regolari, facevo l’estetista, una vita del tutto normale. Poi un giorno tornavo dalle vacanze in Montenegro e alla frontiera di Gorizia mi hanno arrestato. Ho scoperto di colpo che ero stata processata  in contumacia, non ne sapevo proprio niente. Dopo un mese ho capito che ero stata condannata a 11 anni, per fatti legati alla mia convivenza di anni addietro con un uomo che avevo lasciato da tempo proprio perché non condividevo la vita che faceva.

Con me quel giorno alla frontiera c’era mia figlia, è stata portata in questura anche lei e poi l’hanno affidata al padre. Lei piangeva disperatamente perché voleva stare con me, sento ancora adesso la sua voce.  Quando mi hanno arrestato aveva tre anni e mezzo, fra poco ne compie cinque. All’inizio è rimasta con il mio compagno, ed è venuta a trovarmi due volte, poi dopo cinque mesi il mio compagno d’accordo con me l’ha mandata in Montenegro dai miei genitori. Ora è lontana, ma almeno sono sicura che lì sta bene.

Con mia figlia adesso riesco a parlare solo per telefono, ma non la vedo da più di un anno. Lei ora ha imparato a scrivere e mi manda qualche lettera, e sempre più spesso dice alla nonna: “Non aspettarmi perché vado a trovare la mia mamma e non torno più, rimango con lei”. L’ultima volta che l’ho sentita mi ha chiesto anche il numero di telefono, per lei naturalmente sarebbe normale poter prendere l’iniziativa, e telefonarmi spesso, anche se devo dire che si rende conto che sono in carcere. Del resto, era con me quando mi hanno arrestata, quindi non ho neanche cercato di farle credere che sono via per lavoro o cose del genere, e poi non voglio che pensi che sto lontana da lei solo per una questione di lavoro.

Certo ora  potrebbe venire a trovarmi, ho una zia che è disposta ad accompagnarla, però ci sono problemi per i documenti, il mio avvocato ha già inviato tutta la documentazione necessaria all’ambasciata, ma sono cose che procedono molto lentamente. Il fatto è che non esiste un visto per andare a trovare un parente che si trova in carcere in un altro Stato, so solo che devo mandare una dichiarazione delle suore in cui s’impegnano ad ospitare i miei famigliari durante la loro permanenza. Spero comunque di riuscire a sbloccare questa cosa entro il prossimo mese, perché non ne posso più di aspettare.

La mia bambina lo sa che fra non molto dovrebbe venire a trovarmi, a dire la verità l’hanno portata anche da uno psicologo perché lei è convinta di rimanere qui con me, una volta arrivata. I miei genitori sono molto affaticati, è un grosso impegno per delle persone anziane prendersi cura di una bambina piccola. Loro fanno qualsiasi cosa per i nipoti e per aiutarmi, fanno tutto con amore, ma al mio paese la vita è dura, e io li sento sempre più stanchi. E poi una bambina di cinque anni ha bisogno di sua madre, lei sa che io ci sono, mi sente per telefono, e come può capire il senso di questa lontananza forzata, di questo assurdo distacco?

 

Contumacia: le modifiche introdotte dal decreto legge del Consiglio dei Ministri del 18.02.2005

Il Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2005 ha approvato un decreto legge in materia di sentenze contumaciali. Il provvedimento nasce dalla necessità di rendere più compatibile la figura della “contumacia” con quanto indicato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo: la Corte europea dei diritti dell’uomo - con sentenza di condanna all’Italia, del 10 novembre 2004 - aveva ribadito che lo Stato italiano, come gli altri, deve garantire, attraverso misure appropriate, il godimento del diritto di un imputato di essere informato sulle accuse che lo riguardano e sui procedimenti che lo interessano.

Inoltre la disciplina che assume nel nostro ordinamento la figura della contumacia è spesso risultata incomprensibile agli altri Stati, fino ad influenzare le relazioni bilaterali che si intraprendono in occasione dei procedimenti di estradizione: alcuni Paesi europei, come la Germania, prevedono espressamente il rifiuto della esecuzione del mandato di arresto europeo emesso in un altro Stato membro quando la legislazione dello Stato richiedente non garantisca il diritto ad un nuovo processo.

Il provvedimento introduce quindi un meccanismo per garantire il diritto delle persone condannate in contumacia ad ottenere un nuovo processo, limitatamente ai casi nei quali l’imputato non sia stato effettivamente informato del procedimento a suo carico: dal momento in cui viene a conoscenza che a suo carico c’è un processo aperto (o una sentenza definitiva) ha a disposizione 10 giorni durante i quali presentare richiesta per la riapertura dei “termini” utili per eventuali impugnazioni o ricorsi (nuovo articolo 175 del Codice di procedura penale).

Vengono anche modificati gli articoli 157 e 161 del Codice di procedura penale, per rendere più celeri e sicure le notificazioni all’imputato non detenuto che abbia un difensore di fiducia: in questi casi le notificazioni sono eseguite direttamente presso i difensori.

 

Nuovo articolo 175 Codice procedura penale: Restituzione nel termine

(In corsivo le parti aggiunte)

1.         Il pubblico ministero, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza (173), se provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore. La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore;

2.         Se è stata pronunciata sentenza contumaciale (487, 548-3, 585-1 lett. d) o decreto di condanna (460, 462), può essere chiesta la restituzione nel termine per proporre impugnazione (585) od opposizione (461) anche dall’imputato che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l’impugnazione non sia stata già proposta dal difensore (571-3) e il fatto non sia dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159, 161 comma 4 e 169, l’imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento.

3.         Se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, se risulta dagli atti che non ha avuto effettiva conoscenza del procedimento e non abbia volontariamente rinunciato a comparire e sempre che l’impugnazione o l’opposizione non siano state già proposte dal difensore;

4.         La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore ovvero, nei casi previsti dal comma 2, da quello in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza dell’atto. La restituzione non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento.

 

 

Corinne, anni ventuno. Rumena, con una bimba in grembo che sta per nascere

 

Briciole di vita al carcere femminile della Giudecca. Quando nemmeno le sbarre e i cancelli riescono a soffocare la poesia e il mistero di una nuova vita che viene al mondo

 

A cura di Suor Gabriella

 

Arriva al carcere femminile di Venezia il 30 ottobre 2004 dall’istituto circondariale di Rovereto. Aspetta un bimbo ed è quasi all’ottavo mese di gravidanza. È una giovane donna minuta, tranquilla, pensosa. Il suo sguardo è profondo e grave. Lei sa, è consapevole che un piccolo essere si sta formando tra i suoi fianchi. Nel suo ventre c’è il suo segreto vivente.

Dopo qualche giorno, mi accorgo che è occupata a conoscersi. Ha visto il suo corpo trasformarsi ed è curiosa su tutto quello che succede dentro di lei. Si pone mille interrogativi ed esprime in molti modi il desiderio di vivere in pienezza quest’attesa. Nessuno le ha spiegato la sua maternità, ma Corinne intuisce la durata dell’oscura gestazione che la conduce al travaglio del parto, alla futura nascita della sua bambina.

A volte la sua allegria è velata d’ansia: davvero sto per avere un figlio? Sarò capace di farlo fin nel più piccolo lobo del cervello? Le mie apprensioni d’oggi lo segneranno per sempre? Corinne chiede, prega, congiunge le mani, abbassa lo sguardo… Pensa. Nessuno dei momenti che fanno parte dell’elaborazione di questa bambina che ha dentro le sembra banale o insignificante. Cammina per la sezione con il maglioncino legato sulla pancia… Vuole proteggere la sua creatura da qualsiasi “freddo”. Pur in questo luogo di chiusura e di sofferenza, da lei emerge una gioia segreta che la illumina dentro!

Prepara la culla e il corredino. L’aiutano le sue amiche, le agenti, le suore, e anch’io rimango affascinata da quest’attesa che si fa vicina. È la creazione che continua! Quando osservo questa mamma, mi accorgo che il quotidiano svela l’inspiegabile. Le ricchezze di questi giorni sonnecchiano in un volto che s’interroga, nei gesti di una donna che accarezza un corredo tutto rosa, in un ventre che è custode e tabernacolo di vita. Si sente e si vede che esiste una potenza vitale che fa nascere e rinascere senza sosta, la forza di vivere, di ricominciare, senza rancore e amarezza.

Corinne partorisce. È il primo parto, con il suo fardello d’incertezze e paure. Nasce Angela, bella come la mamma. Corinne torna nella sua stanza del carcere il quinto giorno della sua vita ed è accompagnata da un gran bagaglio di solitudine. In punta di piedi, tutte le donne recluse vanno, vengono, le portano piccoli doni. È un altro presepe: è vivente.

È un’altra epifania: Angela è la luce. I magi, i pastori, sono le donne che ricordano i figli avuti e le maternità negate dalla carcerazione. Corinne è cristiana-ortodossa e, come vuole la sua tradizione, il quattordicesimo giorno di vita di Angela avviene il rito della purificazione della bambina. È un giorno biblico, sette più sette è il giorno della pienezza della fede e della VITA. In quella stanza si compie una celebrazione modesta e prodigiosa. Si accendono i ceri, si prepara la tinozza con un poco d’acqua benedetta, e le dodici giovani donne del Canto della Carità… cantano: vivere la Vita… è l’avventura più stupenda dell’Amore… Intanto suonano la chitarra e il tamburo. L’amica della mamma, Susanna, compie il “primo bagnetto”.

C’è tanta commozione e quando la bambina è rivestita a festa, la mamma la solleva verso il cielo e recita in lingua greca il Padre Nostro. Tutte ascoltiamo attonite e silenziose. Dare la vita è un regalo: Corinne la offre a Dio perché è convinta del suo valore. È lei che dice: “Ogni giorno si mette nuovamente al mondo il proprio figlio.” Corinne e Angela lasciano il carcere il 9 febbraio 2005, è il primo giorno della Quaresima, ed è l’inizio del cammino verso la Pasqua.

Mi saluta: “Me ne vado con la mia principessa. La mia vita è cambiata”.

 

 

A Roma c’è chi accoglie le detenute coi figli. Offrire un’opportunità per cambiare vita

 

Ha compiuto quattro anni la legge Finocchiaro, che prevede la detenzione domiciliare per le donne in cella con figli piccoli. Ma per molte resta un miraggio. Non esiste una statistica nazionale sulla sua applicazione, le case d’accoglienza per le detenute scarseggiano, i nidi interni ai penitenziari continuano a registrare grandi numeri…

 

di Emanuela Zuccalà

 

Ana ha trent’anni e quattro figli. Due sono rimasti in Albania con la sua famiglia. Un altro le è stato tolto dai servizi sociali. La più piccola, Hannen, che fra poco compirà tre anni, è entrata con lei in carcere a Rebibbia che aveva appena nove giorni. Ha fatto in tempo ad abituarsi all’orizzonte limitato del lungo corridoio, al rumore dei cancelli e delle chiavi, e ancora adesso che lei e la madre stanno in una casa d’accoglienza, la bimba chiede dove sono finite le agenti e ogni tanto scandisce gli orari del mangiare urlando “pranzo!” e “cena!”. Anche la piccola Eva, due anni, per mesi ha vissuto in cella a Rebibbia con la madre Lucia, condannata a cinque anni di detenzione per aver trasportato 375 grammi di eroina pura dal Belgio all’Italia. Un atto d’amore verso il suo uomo che a lei è costato una penosa interruzione della sua vita, e alla bimba un’aggressività assorbita in carcere che fatica ad abbandonarla anche adesso che in cella non ci vive più.

E ancora Giulia, spagnola di Granada, racconta che da tempo faceva la trafficante dalla Spagna a Roma prima che l’arrestassero, l’8 marzo del 2003, alla stazione degli autobus di Tiburtina. Sua figlia, che oggi ha venti mesi, ha evitato la galera per un soffio: Giulia era già incinta di sei mesi, il suo pancione era d’ingombro in un carcere affollato come Rebibbia. Non le è stato difficile ottenere subito gli arresti domiciliari. L’ultima figlia di Alina, invece, rom di trentasei anni, la galera l’ha vissuta da quando aveva sei mesi e finché non ha compiuto tre anni. Poi sua madre è riuscita a ottenere gli arresti presso una casa d’accoglienza e da poco, quasi una sfida contro se stessa e il suo vecchio stile di vita, finisce di scontare la pena al campo nomadi sulla via Nomentana. E assicura: “Quando vedo una borsa facile da aprire, come la tua, non mi viene più naturale infilarci la mano dentro. E sai perché? Perché se no mi tolgono mia figlia e la danno in affidamento. Significherebbe non vederla mai più”.

Queste donne hanno storie estreme, alle spalle. Eppure si sentono fortunate, perché sono tra le poche detenute madri a beneficiare della legge 40 dell’8 marzo 2001, che porta il nome dell’onorevole Anna Finocchiaro. Stabilisce che le donne con condanne definitive, che hanno figli minori di dieci anni, dopo aver scontato un terzo della pena in carcere il resto lo possono passare agli arresti domiciliari, a casa loro o in strutture d’accoglienza. Per evitare ai bambini il trauma della detenzione e incoraggiare le loro madri a cercare nuovi stimoli per rifarsi una vita.

L’8 marzo scorso la legge ha compiuto quattro anni, ma c’è stato poco da festeggiare. Per molte detenute madri resta lettera morta, perché non hanno una residenza, le case d’accoglienza scarseggiano e - soprattutto nel caso delle rom - il rischio di tornare a delinquere è alto e scoraggia i magistrati dal concedere la detenzione domiciliare. Una legge da rivedere, allora? Chissà. Senza una rilevazione statistica sulla sua applicazione, è difficile tirare le somme. E il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria questa rilevazione non l’ha ancora fatta: le detenute madri uscite dal carcere grazie alla legge 40 rappresentano una voce “statisticamente non significativa”, dice l’ufficio relazioni esterne del Dap. Peccato che nei quindici nidi presenti nelle carceri italiane ci siano ancora 71 bambini (il dato, l’ultimo disponibile, è del giugno scorso; un anno prima i piccoli ospiti erano 47), sui quali gli effetti dell’infanzia da reclusi si vedranno nel lungo termine. “Avevamo proposto al Dap di fare una ricerca sull’applicazione della legge Finocchiaro fra le detenute di Rebibbia, che ha il più affollato nido tra le carceri d’Italia: dodici posti, ma le donne arrivano anche a venti, trenta l’anno scorso. Poteva servire da osservatorio sulla legge. Non se n’è fatto nulla”, dice Leda Colombini, presidente dell’associazione “A Roma insieme”, che ogni sabato porta in gita i piccoli reclusi di Rebibbia, ed è riuscita a farli iscrivere nei nidi pubblici della zona, perché, almeno per qualche ora al giorno, possano giocare con i loro coetanei liberi. Leda Colombini riconosce le difficoltà oggettive nell’applicare la norma, ma è convinta che “se diamo a queste donne un’opportunità concreta, saranno in grado di cambiare vita. Per le nomadi, per esempio, si dà per scontato che, una volta uscite dal carcere, ricominceranno subito a rubare. E invece ci stanno capitando tante donne rom che ci chiedono di aiutarle, di non farle tornare al campo perché non vogliono ritrovarsi al punto di partenza. E un’altra novità incredibile è che alcune di loro preferiscono dare i figli in affidamento temporaneo - cosa alla quale si erano sempre, strenuamente opposte - piuttosto che farli tornare al campo con le loro famiglie e immetterli, di nuovo, nel circuito delle elemosine e dei furti”.

Anche Paola Lamartina, che a Roma, sulla via Tiburtina, gestisce la casa famiglia “Ain Karim”, di bambini segnati dal carcere ne ha conosciuti molti. Da quando esiste la legge Finocchiaro, dalla sua struttura sono passate una decina di madri detenute: “Due sono evase. Ma adesso ho capito che se lascio la porta aperta non scappano”. Attualmente la casa ospita cinque ragazze madri e due detenute con bambini: Lucia e Giulia. Alcune di loro lavorano nella cooperativa “En Kanà”, creata dall’associazione, che offre un servizio di catering multietnico, originale e di qualità, per convegni, matrimoni e feste. Partecipa ai menù anche Amira, rom di 29 anni, che ora sta in affitto in un appartamento vicino alla casa, sostenuta dall’associazione. Paola Lamartina la porta con sé ai convegni perché testimoni il suo cambiamento: “Mentre era in carcere, nessuno della sua gente è andato a trovarla. Così lei si è sentita tradita e ha cominciato a pensare con la sua testa. Ha affrontato un serio percorso interiore, ha saputo leggere a ritroso la sua vita: da quando era adolescente entrava e usciva dal carcere per furti e rapine. Ora desidera cambiare per il bene della sua ultima figlia”.

Ci sono poi casi più difficili, quasi impossibili. Paola racconta di una donna, un’altra rom, alla quale il magistrato di sorveglianza non si fida di concedere gli arresti domiciliari: “Suo figlio ha compiuto tre anni, ha dovuto lasciare il carcere e ora vive con noi. Era attaccatissimo a sua madre e sta vivendo la separazione da lei in maniera drammatica. Perfino il suo corpo implora di stare con lei, scatenando una serie di allergie. Io sto chiedendo in continuazione di far venire qui sua madre, ma nei confronti delle zingare il sospetto è forte. Certo, la loro situazione la conosciamo, ma una chance dovremmo pur dargliela, soprattutto di fronte a un bambino che soffre”. E il carcere, che tracce lascia sui più piccoli che non hanno colpe? “I bambini sono come spugne: percepiscono l’ambiente e lo assorbono. C’è qui una bimba che all’inizio, appena uscita dal carcere, era aggressiva, mordeva tutti. Le sono bastati pochi mesi lontano dalla cella per riacquistare un po’ di serenità. Un’altra era angosciata dal fatto di voler controllare tutto, come vedeva fare in carcere alle detenute e alle agenti: non si abbandonava mai. I bambini vanno tolti da un ambiente che, nonostante tutto, anche se ci sono agenti disponibili e brave educatrici, resta violento: violento perché ci sono sbarre, orari, chiavi, rumori. Perché alle donne viene tolta l’opportunità di essere madri. In una casa d’accoglienza si recupera invece la dimensione riabilitativa della pena, che spesso il carcere non sa dare”.

Vittoria Quondamatteo (Vicky, per tutti), responsabile dell’associazione “Fiore del deserto”, ospita undici donne in difficoltà in un’altra casa d’accoglienza, una villa con parco e orti in fondo alla via Nomentana. Una di loro è Ana, la trentenne albanese che ha portato sua figlia in carcere a soli nove giorni. “Non crediate che la vita qui, per loro, sia facile”, dice Vicky, che è terapeuta familiare. “La detenzione, qui, è più faticosa che in galera. Perché noi lavoriamo sul recupero del loro ruolo genitoriale, sulla ricostruzione della loro storia di vita. Qui ci si mette in gioco, altrimenti non si va verso nessun cambiamento”.

Queste due associazioni romane accolgono le detenute madri grazie a una convenzione con il quinto municipio, quello dove si trova il carcere di Rebibbia: una retta pubblica che permette loro di offrire un’alternativa a queste donne. “Non è facile aprire la porta a chi deve scontare una pena”, ammette Paola Lamartina. “Spaventano le condanne lunghe, ma anche il pericolo di evasione. Per non parlare delle forze dell’ordine che vengono anche di notte a controllare. Fa parte dell’impegno che abbiamo preso, ma sono i motivi che forse dissuadono altre case d’accoglienza dall’ospitare le donne detenute”. Come il centro Giaccone, direttamente gestito dall’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma: è stato inaugurato un anno fa, aveva annunciato l’imminente accoglienza di detenute madri, ma a oggi, dalle sue stanze, non ne è passata nemmeno una.

Un altro problema che la legge Finocchiaro non tocca - ma che in compenso la Bossi-Fini sull’immigrazione aggrava - riguarda le straniere senza permesso di soggiorno, che a fine pena devono essere automaticamente espulse dall’Italia. Alcune di loro però, in carcere o in detenzione domiciliare, sono cambiate, magari hanno un lavoro, e i loro figli sono inseriti a scuola e quasi naturalizzati in Italia. Rimandarle al loro Paese, in questi casi, significa interrompere un percorso importante oppure, nei casi peggiori, metterle in condizione di dover lasciare i figli in Italia e darli in affidamento, per non costringerli a tornare con loro nei luoghi privi di opportunità dai quali erano fuggite. La Consulta permanente cittadina per i problemi penitenziari del Comune di Roma ha presentato lo scorso autunno alla Camera dei deputati una proposta di legge per evitare a queste donne, in casi particolari dove si possa dimostrare una concreta volontà di cambiamento, l’espulsione immediata. “L’idea è stata accolta, ma non calendarizzata…”, alza le spalle sconsolato Luigi Di Mauro, presidente della Consulta. Chissà, magari ci si penserà il prossimo 8 marzo.

 

“E pensare che volevo abortire…”. La storia di Lucia

Negli otto mesi che è stata a Rebibbia, era l’unica italiana. Adesso Lucia, romana, trentasei anni, abita in via Galla Placidia nella casa di “Ain Karim”. E sua figlia Eva, che in carcere aveva imparato solo rabbia e aggressività, ora si è calmata ed è affettuosissima con gli altri bambini. “Non pensavo bastassero pochi mesi lontano da quel posto…”, dice sua madre. Lucia è stata sposata due volte, ha altri due figli di diciotto e quindici anni. La piccola Eva l’ha avuta dall’uomo che nel 2002 l’ha spinta a trasportare eroina da Bruxelles a Roma. Lei era incensurata. “Mi aveva portata là per una vacanza, diceva. Invece prima mi ha chiesto di accompagnare in Italia una nigeriana che aveva ingerito ovuli di eroina, poi, con vari giri di parole e bugie, mi ha detto che dovevo tornare da sola, in treno, con la droga. Ormai gli avevo detto di sì. Non ho nemmeno guardato quanta roba mi metteva in borsa. Anzi, mi sentivo fiera di poter fare qualcosa per lui, di dimostrargli che poteva considerarmi la sua donna… Dovevano essere quattro o cinque ovuli, invece erano quasi cinquanta. Alla frontiera di Chiasso, in Svizzera, c’erano i finanzieri che mi aspettavano. Io ero incinta di due mesi, l’avevo appena scoperto. E quando mi hanno portata in carcere a Como, la prima cosa che ho pensato è stata abortire: non volevo avere un figlio in carcere, mi sembrava che così avrei proprio toccato il fondo. Invece sia l’avvocato che le altre detenute mi hanno convinta a tenere il bambino, dicevano che mi avrebbe aiutata a uscire prima… Con il rito abbreviato mi hanno dato cinque anni. Ho trascorso sette mesi agli arresti domiciliari da mia madre, poi in una casa famiglia perché mia madre non poteva mantenerci. Ho partorito, e quando Eva aveva sedici mesi sono entrata a Rebibbia. Dopo otto mesi mi hanno accolta in questa casa”.

Ma Lucia non ha mai pensato a sua figlia come a una “via” per uscire dal carcere. Si sente in colpa quando ricorda quanto la sgridasse (“Ma non l’ho mai picchiata”), quando stavano a Rebibbia: “Era normale sfogare sui figli la nostra tensione. Ho visto madri così violente…”. All’inizio la convivenza con le altre detenute non è stata facile: “Erano quasi tutte rom e io le disprezzavo, mi sembravano sporche. Invece ho dovuto adattarmi, e alla fine ci volevamo bene, erano così carine con me e con Eva”. Ora Lucia pensa solo a un lavoro, per ottenere l’affidamento ai servizi sociali e far passare i tre anni che le mancano. Il tempo immobile del carcere le è servito, dice, per ripensare alla sua vita. Dolorosa e, in fondo, sempre segnata dalla reclusione: un padre violento, lei e i cinque fratelli tolti da casa e mandati in istituto quando Lucia aveva cinque anni, due mariti che la sfruttavano, la prostituzione… “Il fondo lo dovevo toccare, prima o poi. Per imparare la lezione”. Unico rimpianto, quell’uomo che l’ha coinvolta in questa storia di droga. “E’ rimasto in Belgio, non ho saputo più nulla di lui. Non lo odio, la colpa è stata mia che ci sono cascata come una scema. Vorrei incontrarlo di nuovo. Solo perché vedesse Eva, sua figlia”.

 

“Finalmente ho qualcuno che mi dice cosa è giusto e sbagliato”. La storia di Giulia

Ventisette anni, tre figli. Due stanno in Spagna, il suo Paese, affidati ad altre famiglie. La piccola ha venti mesi ed è qui con lei, nella casa dell’associazione “Ain Karim”, dove Giulia sconta una condanna per traffico internazionale di stupefacenti. “Mi hanno arrestata l’8 marzo del 2003. Non era la prima volta che facevo un trasporto, ma quel giorno ci fu una soffiata. Ho preso tre anni e mezzo. Avevo già il pancione e per questo in carcere ho passato neanche tre mesi. La piccola è nata fuori, e subito ci hanno accolte in questa casa. Suo padre sta in Colombia, non ho più sue notizie”. A Granada, Giulia faceva la prostituta. Poi aveva raddrizzato la sua vita e si era messa a lavorare come cuoca, “ma mi ero stancata presto, avevo bisogno di soldi. Conoscevo certa gente che conosceva certa gente, e così sono finita a trasportare droga. Non mi ha obbligata nessuno: ho voluto farlo io.

Pensa che a Milano volevo scendere dal pullman e raggiungere Roma con altri mezzi, così, per sicurezza. Ma avevo troppo sonno e ho continuato a dormire. Ero convinta che non mi avrebbero mai presa, che io ero più intelligente della polizia. Sai, quando fai questo lavoro, arrivi a un momento in cui ti convinci che puoi ridere del mondo: invece alla fine è il mondo a ridere di te. È così sempre”.

La sua bimba è troppo piccola per rendersi conto che la madre è detenuta. Anche perché adesso Giulia ha ottenuto l’affidamento ai servizi sociali ed è libera di portare la figlia al nido e andarla a riprendere. Come una mamma qualunque. Ha anche ripreso a fare la cuoca, “proprio il mestiere da cui ero fuggita”, scherza. Lavora al servizio di catering multietnico inventato dall’associazione per impiegare le ospiti della casa. E il futuro? “Preferisco non pensarci”, sorride, “ma sto bene qui. Non vorrei tornare in Spagna da mia madre: ha raccontato la mia storia a un giornale nazionale, dicendo anche delle bugie, per esempio che ero tossica. Io la droga la spacciavo ma non l’ho mai presa. Chissà, forse pensava che le dessero dei soldi… Il risultato è stato che i servizi sociali mi hanno tolto i figli”.

Nel breve periodo che ha passato in carcere, Giulia ha cercato di trarre forza dal fatto che presto sarebbe stata di nuovo madre: “Mi sforzavo di stare tranquilla perché ero incinta, volevo questa figlia, era la cosa più importante in quel momento. Più del fatto che fossi finita in galera”. “Adesso”, dice, “ho imparato tante cose. La me stessa di qualche anno fa la conosco meglio, sta sempre accanto a me, però è un’altra cosa, un’altra vita. E sai perché posso guardare con lucidità al passato? Perché ho conosciuto Paola, la responsabile di questa casa.

Con lei sono tornata bambina, lei mi dice quello che pensa sia giusto e sbagliato, senza impormi nulla ma con fermezza. Forse se l’avessi conosciuta vent’anni fa, la mia vita sarebbe stata diversa. Perché io non ho mai avuto nessuno che mi dicesse cosa fosse giusto o sbagliato.

Le scuole le ho fatte in collegio perché abitavamo in campagna e non c’era altro modo di studiare, e spesso i miei si dimenticavano di venirmi a prendere per il fine settimana. Mia madre è un po’ strana, mio padre è vecchio.

A dodici anni andavo in discoteca e nessuno mi diceva che era troppo presto. Potevo tornare a casa con un occhio nero che nessuno mi chiedeva cosa avevo fatto. O mi lasciavano fare quello che mi pareva, oppure mi davano degli ordini senza spiegarmi perché dovevo fare così e così. Mai un dialogo, neanche con gli insegnanti. Non ho mai avuto una persona che mi desse una spinta per andare avanti, per valorizzare i miei lati buoni e non colpevolizzarmi per quelli negativi. Adesso ce l’ho, questa persona. E sono convinta che non è troppo tardi”.

 

Per informazioni sul catering multietnico della cooperativa sociale “En Kanà”, che dà lavoro a donne in difficoltà e in detenzione domiciliare speciale: Telefono 0643535920, mescolando@etnocatering.com, www.mescolando.com

 

 

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