Il punto di vista dei tecnici

 

La “castrazione” della sessualità del detenuto come problema di legalità costituzionale

 

di Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara

 

1. Spazio della pena e infantilizzazione del detenuto

L’area entro la quale collocare il diritto del detenuto alla relazione affettiva con l’altro, in primo luogo con i propri familiari, è molto ampia. In ragione di ciò, chiama in causa diverse sue possibili declinazioni normative: gli spazi di socialità entro gli istituti carcerari, il regime dei colloqui e delle telefonate, quello dei benefici extramurari (a cominciare dai permessi premio).

Per mia indole, non amo le ricognizioni orizzontali. Preferisco approfondire in verticale, tra i tanti che rientrano nell’ambito di questo incontro, un solo problema. Che poi è il problema di fondo, intorno al quale è inutile circumnavigare: la richiesta dei detenuti ad avere, in condizioni di intimità, incontri con le persone con le quali intrattengono un rapporto di affetto.

È un terreno problematico che va trivellato a fondo, come si fa con i carotaggi, per portare in superficie quello che è un vero e proprio diritto sommerso. Perché tale è certamente per l’ordinamento, che – come vedremo – lo nega a larga parte della popolazione carceraria.

Ma sommerso è anche nella narrazione che gli stessi detenuti fanno della propria condizione: impressiona, ad esempio, che il libro di Francesca De Carolis, Urla a bassa voce. Dal buio del 41-bis e del fine pena mai (Stampa Alternativa, 2012), raccolga solo testimonianze mute su questo specifico aspetto della detenzione, sintomo evidente di una sofferta rimozione individuale.

L’odierno Seminario di Studi rompe opportunamente questo silenzio. Lo fa segnalando, già nel suo titolo, lo stretto legame tra lo spazio del carcere e la dimensione affettiva del detenuto. È un collegamento che trovo appropriato.

Gli spazi ristrettissimi dovuti al fenomeno del sovraffollamento, infatti, rispecchiano fedelmente (e ferocemente) la realtà di una pena che mira a ridurre ai minimi termini l’identità del recluso, restituendolo così ad una dimensione infantile. Perché in spazi ristretti il corpo rimpicciolisce e gli uomini rinchiusi ritornano bambini. Come bambini, infatti, i reclusi godono di una limitata libertà d’azione, sono sorvegliati a vista, perdono la loro capacità di autodeterminazione, i loro stessi gesti quotidiani sono regolati da altri, magari sollecitati dalle suppliche avanzate in apposito modulo che, fino a ieri, aveva un nome gergale – “domandina” – non a caso attinto dal vocabolario infantile.

 

2. Seghe

Questo processo regressivo, che approda all’infantilizzazione del detenuto, trova una sua vera e propria somatizzazione nella negazione della sfera sessuale, che dell’età adulta è una dimensione essenziale.

È un’amputazione massimamente evidente nell’ipotesi della condanna all’ergastolo, tanto più se nella sua variante più feroce – quella dell’ergastolo c.d. ostativo – che preclude al detenuto qualunque beneficio penitenziario extramurario, permessi premio inclusi. Anche in ragione di ciò, residuano nell’ergastolo connotati premoderni propri delle antiche pene corporali.

Non ne siete persuasi? Vi propongo allora un gioco di ruolo. Immaginatevi ergastolani, cioè – se ne siete capaci - nella condizione definitiva e senza appello di una castrazione affettiva e sessuale, implicita in ogni condanna senza fine, che s’imprime così, in modo sconvolgente, nella carne del condannato. Entrate, per un istante, nella vita degli altri, cioè dei familiari di un ergastolano: “vista da chi resta fuori, la persona condannata all’ergastolo esiste e non esiste“ (Valentino) e questa sua esistenza virtuale, alla lunga, fiacca fino a consumare nella solitudine o nel rancore anche i legami più solidi; non per scarsa resistenza delle persone, ma in ragione di una morte civile e sociale decretata con la condanna ad una pena fino alla morte.

Vengono in mente le parole dell’ex Presidente della Camera, Pietro Ingrao: “io sono contrario all’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo“.

La castrazione legale – sessuale e affettiva - non consegue solamente al carcere a vita. È una vera e propria pena accessoria che accompagna qualunque altra condanna alla reclusione intramuraria.

Per capirlo, è sufficiente ascoltare il racconto di un corpo dietro le sbarre, ascoltare cioè la voce di un detenuto dotato della capacità – con la sua penna – di dare voce a tutti i detenuti:

“Spesso avere un attimo di intimità in carcere è più difficile che fare una rapina: devi pianificare tutto.

L’orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l’infermiera con la terapia. Poi, con passo leggero, oserei dire astuto, ti guardi intorno ed entri in bagno, ti chiudi la porta per modo di dire, perché lo spioncino del bagno deve rimanere aperto per i controlli, ti sbottoni i pantaloni ed inizia la delicata operazione, ma sempre con un orecchio nel corridoio.

E così inizia la lotta titanica fra la voglia di concentrarsi e la paura che la guardia ti becchi in flagranza. Ci sono delle guardie che sono dei sadici nel prenderti in castagna, se vedo che c’è la guardia che passa ogni cinque minuti, “rinuncio” e mi faccio una camomilla o una decina di flessioni.

Se tutto va bene non devi tirare l’acqua perché in una cella accanto all’altra si sente tutto (…). E dà fastidio il pensiero che un compagno possa immaginare quando “ti fai una sega”.

Insomma l’amore in carcere è difficile in tutti i sensi: se sei allocato in cella singola, se sei una persona intelligente, sveglia, se hai esperienza, coraggio e tenacia ce la puoi fare con un minimo di riservatezza. Ma se sei in cella in compagnia persino con tre quattro persone praticamente è impossibile, ti senti osservato da tutte le parti sia dalle guardie che dai tuoi compagni.

È esperienza comune che gli atti migliori d’amore sono quando sei in punizione, in isolamento“

(Dalla tesi di laurea di un detenuto)

 

Su tutto questo il diritto mette il suo carico da undici: molti detenuti non sanno, infatti, che masturbarsi configura la fattispecie penale di atto osceno in luogo pubblico, perché pubblico è lo spazio del carcere. Puoi dunque essere denunciato per il reato di cui all’art. 527 del codice penale (per il quale è prevista la pena da 3 mesi a 3 anni, essendo l’onanismo una condotta dolosa). Puoi anche essere punito con la perdita di un semestre dal computo della liberazione anticipata, e sono così 45 giorni di galera in più (75, se ci va di mezzo la liberazione anticipata speciale).

Si sa, le seghe servono alla fuga. Perché permettono di tagliare le sbarre alla finestra della cella. Oppure, perché permettono – per un breve fazzoletto di tempo – di immaginare di essere altrove, con la persona amata. Servono per evadere, le seghe. Ecco perché sono vietate in carcere.

 

3. Un diritto negato

Oltre il nostro cortile di casa, il problema non è stato ignorato. Olanda, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Spagna, Svizzera e fin’anche Croazia e Albania – solo per rimanere in ambito continentale – sono alcuni degli stati ove è prevista la possibilità di usufruire di spazi all’interno dei quali, senza il controllo visivo del personale penitenziario, i detenuti possono trascorrere alcune ore in compagnia di persone con cui condividono legami di natura affettiva. E da noi?

L’incipit del nostro ordinamento penitenziario farebbe ben sperare. Il convincimento che la sfera affettiva rappresenti un aspetto indispensabile del trattamento, da proteggere e garantire anche durante la detenzione, è ben espresso nel suo art. 1: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi […]”. Altrettanto promettenti appaiono gli artt. 15 e 28 della legge n. 354 del 1975, che mirano ad agevolare i rapporti familiari quali elementi qualificanti del trattamento penitenziario.

Eppure, tali affermazioni di principio non trovano poi implementazione adeguata con riferimento alla dimensione più intima delle relazioni affettive.

L’impossibilità di sottrarsi al controllo visivo esclude che il diritto sommerso alla sessualità del detenuto possa emergere autenticamente in occasione dei colloqui in carcere: l’art. 18, comma 2, ord. penit., infatti, impone l’obbligatorio controllo a vista del personale di custodia, giustificato da elementari ragioni di sicurezza.

È vero che, nei confronti delle sole persone ammesse ai colloqui, l’art. 61 del regolamento esecutivo (d.P.R. n. 230 del 2000) consente al direttore del carcere di autorizzare “visite” finalizzate a trascorre parte della giornata in appositi locali o all’aperto e di consumare un pasto insieme. Ed è sulla base di tale riferimento normativo che, in alcuni istituti, sono stati attrezzati degli appositi spazi esterni (le cd. aree verdi): come a Rebibbia Nuovo Complesso e a Firenze Sollicciano. Ma anche tali visite devono svolgersi sotto il controllo visivo del personale di sorveglianza mediante apposite telecamere. L’intimità sarà maggiore, ma mai piena e completa.

Il problema della sessualità durante la detenzione finisce così per trovare il suo sfogo giuridico esclusivamente attraverso lo strumento dei permessi premio (art. 30-ter, ord. penit.). Di essi, tuttavia, non possono usufruire i detenuti in attesa di giudizio (che rappresentano circa il 40% di quanti affollano le carceri) perché concedibili solo ai c.d. definitivi. E nemmeno a tutti, visto che la legge Cirielli n. 251 del 2005 prevede per i recidivi delle condizioni di ammissione ai permessi premio particolarmente severe. Così come la loro concessione è preclusa ai definitivi in regime di 4-bis (1° comma, 1° periodo) e di 41-bis. Residua, alla fine, una ridotta platea di detenuti, astrattamente ammissibile, che peraltro non usufruisce di permessi premio in automatico, ma solo previa concessione discrezionale da parte dei magistrati di sorveglianza.

Se questa è l’istantanea della nostra situazione ordinamentale, non stupisce che la c.d. Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati (D.M. 5 dicembre 2012) non annoveri, tra le posizioni soggettive giuridicamente riconosciute ai soggetti ristretti, il diritto alla sessualità intramuraria.

 

4. Strappi costituzionali

Questo quadro normativo presenta diversi strappi rispetto al tessuto costituzionale di cui pure dovrebbe essere fatto. I rammendi necessari sono molti. I più urgenti da ricucire mi paiono i seguenti:

 

[1] Ad essere violato è, innanzitutto, il principio costituzionale di legalità della pena, sancito all’art. 25, comma 2, Cost.  Argomento sul punto riducendo l’essenziale all’essenziale. La condanna penale comporta una limitazione della libertà personale e di quelle altre posizioni soggettive di libertà strettamente correlate alla condizione detentiva. Non altro né nulla di più, perché della libertà personale la sanzione detentiva “costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione” (Corte cost., sentt. nn. 349/1993 e 526/2000).

 

“Non serve una laurea in medicina o in psichiatria per comprendere come l’astinenza coatta e prolungata con il partner, in persone che hanno ormai superato l’età puberale, inibisce uno sviluppo normale della sessualità con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico”

 

La domanda da porsi, allora, è la seguente: tra gli effetti afflittivi collaterali della sanzione detentiva, rientra legittimamente anche la compressione del diritto alla sessualità del detenuto? Certamente sì, ma solo nella misura imposta dalle esigenze di sicurezza. Esorbitando da queste – come insegna la Corte costituzionale - “la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile” con la Carta costituzionale (sent. n. 153/2013). È quanto, oggi, accade per tutti i detenuti dovunque siano ristretti o internati, perché il loro diritto alla sessualità non è semplicemente circoscritto, semmai integralmente negato. E quando la prevalenza di uno degli interessi in gioco comporta il totale sacrificio dell’altro, siamo certamente fuori dalla logica di un corretto bilanciamento costituzionale.

 

[2] Lo stesso spartito argomentativo conduce a individuare una soppressione oltremisura della libertà personale del detenuto, intesa nel senso più stretto e autentico di libera disponibilità del proprio corpo (art. 13, comma 1, Cost.).

Come insegna una giurisprudenza costituzionale consolidata, “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà [personale], ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”. E questo residuo è esercitabile compatibilmente con le limitazioni che, com’è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta (cfr. sentt. nn. 204/1974, 185/1985, 312/1985, 374/1987, 53/1993, 349/1993).

Vale - a mio avviso – per il diritto al godimento sessuale del proprio corpo, che può certamente trovare soddisfazione all’interno di appositi spazi carcerari secondo modalità compatibili con le esigenze di sicurezza proprie dello stato detentivo.

 

[3] Con la negazione del diritto alla sessualità dietro le sbarre mettiamo a rischio anche la finalità rieducativa cui tutte le pene “devono tendere”, secondo quanto prescritto nell’art. 27, comma 3, Cost.

Nell’affermare ciò, la norma costituzionale detta direttive vincolanti per l’organizzazione e l’azione delle istituzioni penitenziarie che, viceversa, l’astinenza sessuale coatta elude. Essa, infatti, ostacola il mantenimento di quelle relazioni familiari insostituibili nel difficile percorso di recupero del reo ed essenziali per il suo futuro reinserimento sociale.

Bandendo il rapporto sessuale con il partner, la sanzione rischia così di produrre una desertificazione affettiva e relazionale che lascia sul campo solo vittime: il detenuto, condannato così ad una ingiustificata solitudine causa di depressioni psicofisiche gravi; ma anche i suoi familiari, vittime dimenticate la cui sfera affettiva inevitabilmente si comprime in ragione di una condanna per un reato che non hanno mai commesso.

 

[4] Violato è anche l’art. 32, commi 1 e 2, Cost., posto a garanzia del diritto alla salute, sia individuale che collettiva.

Quanto al profilo individuale, non v’è dubbio alcuno che del diritto alla salute sia titolare il soggetto recluso in carcere, qualunque sia la pena cui è stato condannato: fino al paradosso – descritto da Foucault nel suo libro Sorvegliare e punire, Nascita della prigione (Einaudi 2014, uscito originariamente nel 1975) – per cui negli ordinamenti non abolizionisti perfino il condannato a morte, in attesa della esecuzione capitale, riceve tutte le cure e l’assistenza di cui abbisogna. Anche qui, la pretesa punitiva dello Stato deve coordinarsi sempre con la tutela della salute del recluso. E (secondo i dettami della Organizzazione Mondiale della Sanità, recepiti nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità italiane) lo stato di salute non è da intendersi semplicemente come assenza di malattia, bensì come uno stato complessivo di benessere fisico e di equilibrio psichico. Ora, non serve una laurea in medicina o in psichiatria per comprendere come l’astinenza coatta e prolungata con il partner, in persone che hanno ormai superato l’età puberale, inibisce uno sviluppo normale della sessualità con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico.

Quanto al profilo dell’interesse della collettività, è sufficiente il richiamo al recente parere del Comitato Nazionale di Bioetica (approvato, all’unanimità, il 27 settembre 2013) per la dimostrazione di come e perché la tutela della salute negli istituti penitenziari si ripercuota sulla salute dell’intera comunità. Ciò è particolarmente vero, nel caso di specie, se solo si pone mente agli effetti collaterali dell’astinenza sessuale cui è costretto il detenuto. Favorendo il ricorso a pratiche omosessuali – indotte o addirittura coercite – la repressione delle pulsioni sessuali è responsabile di una intensificazione dei rapporti a rischio, che incrementa in maniera significativa la diffusione tra i ristretti di malattie infettive sessualmente trasmissibili: il già citato parere del Comitato Nazionale di Bioetica conferma, ad esempio, i tassi di morbilità più elevati tra i detenuti (rispetto alla popolazione generale) con riferimento ai livelli di HIV (oltre che di patologie psichiatriche e, purtroppo, di morti suicidarie).

Anche qui assistiamo a un paradosso: quello per cui il carcere “fa ammalare anche chi è in buona salute. Non a caso la prigione è l’unico luogo in cui si apre una cartella clinica a una persona sana, che non è malata, ma che probabilmente lo diventerà” (Ruotolo)

 

[5] Epitome di tutti questi strappi costituzionali è la lesione al principio della dignità personale del

detenuto.

Il diritto all’affettività, infatti, è stato definito dalla Corte costituzionale come “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana [...] che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” (sent. n. 561/1987).

Una volta che si è riconosciuto al diritto alla vita sessuale (che del diritto all’affettività è componente essenziale) valore costitutivo della dignità di ogni persona, certamente non può essere negato al soggetto detenuto in ragione della sua condizione di cattività, non incompatibile con l’esercizio di quel diritto.

Intendiamoci. Le modalità del sesso immaginato e solitario, come pure dell’omosessualità rientrano certamente tra le espressioni legittime della propria sessualità.

Ma ad una condizione: che siano il frutto di una libera scelta. Se frutto, invece, di un consenso rassegnato alla situazione detentiva, il ricorso a pratiche masturbatorie o a rapporti omosessuali assume tutt’altro significato: quello di un avvilimento del detenuto e del degrado della sua dignità personale.

Perché un conto è cantare – come fa uno sconsolato e abbandonato Tiziano Ferro - “ho levigato la tua assenza/solo con le mie braccia”. Un conto è ironizzare – come fa Woody Allen in Manhattan  sull’onanismo come “uno dei miei hobby preferiti“. Altro è doverlo dire (e doverlo fare) perché costretti dall’assenza di alternative.

 

5. Domanda e risposte

La domanda di riconoscimento che viene da questo Seminario Nazionale di Studi è dunque. a mio avviso, costituzionalmente fondata. Chiedere “qualche metro e un po’ d’amore in più” non significa allora implorare un gesto di generosità, un soprassalto di umanità da chi sarà tentato di rispondervi con un “Che cosa volete ancora?“. Una simile reazione – figlia del rancore sociale e della demagogia più elementare e primitiva - andrà respinta al mittente. Perché ciò che voi esigete dall’ordinamento è – né più né meno – che il rispetto della sua stessa legalità.

Il problema, quindi, non sono le buone ragioni a sostegno della vostra domanda. Il problema vero è da chi attendersi la risposta alla vostra legittima richiesta.

È una risposta che non potete aspettarvi dai giudici di Strasburgo, come invece è accaduto per il problema del sovraffollamento carcerario.

Nei confronti del movimento di riforma in atto in molti paesi del Consiglio d’Europa, favorevoli a permettere rapporti sessuali all’interno del carcere, la Corte EDU ha reiteratamente espresso il proprio apprezzamento. Ma è stata altrettanto chiara nell’escludere che l’art. 8, § 1 e l’art. 12 della CEDU, prescrivano inderogabilmente tale soluzione ordinamentale. Quella del diritto alla sessualità dietro le sbarre è un’area in cui gli Stati godono di ampia discrezionalità nella determinazione del percorso da seguire per garantire l’applicazione della Convenzione europea.

 

“L’originaria proposta del nuovo regolamento di esecuzione penitenziario prevedeva espressamente la possibilità per il Direttore del carcere di autorizzare incontri tra i detenuti ed i propri familiari, fino a 24 ore continuative, in apposite “unità abitative” all’interno dell’istituto penitenziario, ovviamente al riparo dal controllo visivo del personale di custodia”

 

La vostra domanda non va rivolta neppure alla Corte costituzionale. L’ha già fatto, coraggiosamente, il Tribunale di sorveglianza di Firenze con una documentata questione di costituzionalità che ha così portato all’attenzione della giustizia costituzionale il mancato riconoscimento del diritto all’affettività-sessualità intramuraria. La Corte non può però sostituirsi al legislatore, nel colmare lacune ordina mentali suscettibili di differenti soluzioni normative: ecco perché la sua sentenza n. 301/2012 è stata una decisione processuale di inammissibilità. Allo stato della legislazione, la traduzione concreta del diritto alla sessualità intramuraria non può passare per la porta d’ingresso di Palazzo della Consulta.

La vostra domanda, infine, non va rivolta neppure all’amministrazione penitenziaria, perché la sua azione è costretta entro il perimetro tracciato dal principio di legalità dell’amministrazione: e se la legge non prevede qualcosa, quel qualcosa non può essere autonomamente concesso dal DAP.

È un film già visto e di cui conosciamo il finale. Nella XIII Legislatura, l’originaria proposta del nuovo regolamento di esecuzione penitenziario (elaborata sull’impulso dell’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e dell’allora direttore del DAP Alessandro Margara) prevedeva espressamente – all’art. 58 – la possibilità per il Direttore del carcere di autorizzare incontri tra i detenuti ed i propri familiari, fino a 24 ore continuative, in apposite “unità abitative“ all’interno dell’istituto penitenziario, ovviamente al riparo dal controllo visivo del personale di custodia.

Proposta apprezzabile e condivisibile, ma preclusa da un’insuperabile questione di gerarchia tra le fonti del diritto, dato che la legge – sovraordinata al regolamento – nulla prevedeva in merito. Un’antinomia normativa che fu rilevata dalla sezione consultiva del Consiglio di Stato, con il suo parere n. 61 del 2000.

Alla fine, resta un solo interlocutore istituzionale, quello vero: il Parlamento (e il Governo, quale organo titolare dell’iniziativa legislativa).

Nel bussare alla porta di Camera e Senato, potrete farvi forti del monito che la recente sentenza della Corte costituzionale ha rivolto al Legislatore, ammonendolo per la sua prolungata inerzia: è “una esigenza reale e fortemente avvertita […] quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale. […] Si tratta di un problema che merita

ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali […] e dall’esperienza comparatistica che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria“.

Solo un Parlamento colpito da grave ipoacusia potrebbe fingere di non aver sentito un richiamo così

forte e chiaro. Se non si arrenderà all’accidia e alla tirannia dell’abitudine (in questo campo) a non fare, il Legislatore troverà nella sentenza n. 301/2012 le linee guida per la legge che verrà. Come scrivono i giudici costituzionali, servirà “una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le

misure organizzative”.

Per darvi coerente seguito il primo atto formale necessario è il deposito di mirate proposte di legge: accadde (inutilmente) nelle scorse Legislature, è accaduto anche in quella attuale. Ad esempio, in Senato, con i disegni di legge n. 381 del sen. Barani, e n. 1587 del sen. Lo Giudice e altri; alla Camera, con le proposte di legge n. 1762 dell’on. Zan e n. 2319 dell’on. Rostellato. E poiché alcuni di questi parlamentari sono oggi qui presenti, lascio a loro l’onere e l’onore di illustrare le linee guida delle proprie iniziative legislative.

Quanto a me, chiudo esprimendo una convinzione. Gli eventuali ostacoli all’introduzione di una disciplina costituzionalmente orientata del diritto alla sessualità intramuraria sono – a mio avviso - essenzialmente di carattere culturale, non essendovi affatto insuperabili difficoltà, neppure di ordine

operativo: l’edilizia carceraria messa in moto da un piano carceri più volte reiterato, ben può subire apposite varianti in corso d’opera per contemplare – all’interno delle nuove carceri in costruzione come pure in quelle in via di ristrutturazione – adeguati spazi abitativi per l’esercizio di un diritto da sempre negato.

So bene che è sempre difficile dare vita a qualcosa di diverso da quello che già esiste. Eppure, in questo caso, l’utopia non è un sogno strampalato, semmai un ragionevole punto d’arrivo. Quanto a me, io ci sto. E sono pronto ad essere arruolato in questa battaglia di scopo.

 

6. Bibliografia di riferimento

Il presente testo riproduce la relazione svolta a Padova, il 1° dicembre 2014, presso la Casa di Reclusione “Due Palazzi”, in apertura del Seminario Nazionale di Studi Per qualche metro e un po’ di amore in più, promosso dalla rivista Ristretti Orizzonti.

Data la sua finalità prevalentemente esplicativa, il testo non ha particolari pretese di completezza o di originalità e mette a valore – anche attraverso stralci testuali - riflessioni dottrinali e informazioni parlamentari già presenti nel dibattito giuridico.

Per la sua elaborazione ci si è serviti essenzialmente dei seguenti contributi: C. PICIOCCHI, “La salute “dentro le mura““: commento al rapporto del Comitato Nazionale per la Bioetica sulla salute in carcere (27 settembre 2013), in Studium Iuris, 2014, fasc. 7-8, 845 ss.; A. PUGIOTTO, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è incostituzionale, in Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, a cura di F. Corleone e A. Pugiotto, Ediesse, Roma, 2012, 113 ss.; ID., Progettare lo spazio della pena: il fatto, il non fatto, il mal fatto, in Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, a cura di F. Corleone e A. Pugiotto, Ediesse, Roma, 2013, 65 ss.; M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2002; S. TALINI, Un diritto “sommerso”: la questione dell’affettività in carcere approda alla Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 18 ottobre 2012; ID., Diritto inviolabile o interesse cedevole? Affettività e sessualità dietro le sbarre (secondo la sentenza n. 301 del 2012), in Studium Iuris, 2013, fasc. 10, 1089 ss.; N. VALENTINO, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, Milano, 2° ed., 2009.

Preziose indicazioni sono state ricavate dall’ottima relazione illustrativa al disegno di legge n. 3420, Senato, XVI Legislatura, a firma dei senatori Della Seta e Ferrante, comunicato alla Presidenza il 24 luglio 2012.

Segnalo, infine, che il 14 dicembre 2012, nell’ambito delle attività didattico-scientifiche congiunte, il Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara e il Dottorato di ricerca in Tutela dei Diritti fondamentali e Giustizia costituzionale dell’Università di Pisa hanno dato vita a una simulazione di processo costituzionale, adoperando quale atto di promovimento proprio l’ordinanza di rinvio n. 132 del 27 aprile 2012 sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze (in G.U., Prima serie speciale, n. 27 del 2012): gli “atti di costituzione” e le “memorie integrative” elaborate dai dottorandi mi sono state di particolare utilità.

 

 

 

 

 

L’amore può essere un’arma per sconfiggere la criminalità

 

di Carmelo Musumeci – Ristretti Orizzonti

 

Desidero iniziare l’intervento con una premessa. Io credo che lo stato abbia il diritto di difendersi da chi infrange la legge.

Ma, a mio parere, lo dovrebbe fare dimostrando a sua volta di essere migliore di lui. Purtroppo, questo spesso non accade, e mi riferisco all’ambito affettivo penitenziario.

Penso che i detenuti debbano accettare ciò che dalla carcerazione gli viene imposto, ma è difficile farlo quando non se ne vede un fine, io per esempio non capisco come mai da 23 anni circa non posso scambiare una carezza o un bacio con la mia compagna, non capisco perché non posso passare una giornata con i miei nipotini.

Ecco, non capisco proprio perché lo Stato, la società, il carcere, hanno così paura dell’Amore. L’amore non fa male. Anzi, l’amore può essere un’arma per sconfiggere la criminalità e la micro-criminalità. Perché lo Stato non “usa” l’amore per le nostre famiglie, l’amore che c’è in noi, perché non lo usa per aiutare il nostro reinserimento? Questo accade in certi Paesi che noi riteniamo sottosviluppati, probabilmente, attenzione, in quei Paesi e in quelle carceri si sta peggio che in Italia, la vivibilità sarà peggiore, avranno problemi igienici, alimentari, sanitari, ma la cosa strana è che non manca l’amore.

Molti pensano che per rieducare una persona basta buttarla in carcere e gettare la chiave della cella, ma questa è una vera assurdità, perché il carcere non è la medicina, piuttosto è la malattia. Io non mi sento migliore di quando sono entrato perché non ho potuto crescere i miei figli come avrei voluto, come avrei voluto amare e godermi la mia famiglia. E adesso non posso crescere i miei nipotini.

Quello che a me mi ha veramente cambiato è stato l’amore per la mia famiglia, non certo lo Stato o questi 23 anni inutili, molti passati con fatica a studiare, rischiando di diventare un’enciclopedia che cammina. Ma se io non mi confronto con la mia famiglia, se io non cresco con la mia famiglia, è ovvio che il carcere mi peggiora.

Adesso, fatta questa lunga premessa, voglio descrivere come avvengono le telefonate. La normativa prevede una telefonata a settimana della durata di 10 minuti. Io normalmente decido di telefonare di domenica, verso le 13.00, e quando su per giù arriva l’orario comincio ad agitarmi e preoccuparmi. Compongo il numero dopo aver corso in fretta il tratto per arrivare al telefono, squilla e sento in sottofondo le voci dei miei figli che si contendono il telefono e bisticciano, lei, mia figlia, dice a mio figlio di darle il telefono e lui le ribatte: “Tanto papà vuole più bene a me perché sono un maschio”, e si contendono il telefono facendomi perdere secondi preziosi, ma alla fine vince sempre mia figlia. È da 23 anni su per giù che il telefono lo prende sempre lei. Sembra che non si sia mai mossa da quel telefono. E allora… inizia questa telefonata con mia figlia, che è la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita. E l’energia che dà al mio cuore per andare avanti e aspettare il fine pena che non ho. E ci scambiamo qualche coccola, poi mi chiede: “Cosa vuoi che ti porti a colloquio?”. Io le dico: “Va bene, portami la focaccia con le cipolle” e lei mi risponde “Papà, ma guarda che l’ultima volta non l’hanno fatta passare”, perché, in carcere, quello che passa oggi non passa domani, quello che passa domani non passa oggi, è tutto un mondo all’incontrario. Poi le dico, dandole un bacio, di passarmi mio figlio.

Il tempo, quando telefoni, sembra che voli via come una foglia in autunno, non la puoi afferrare, e sembra che col passare degli anni i minuti di telefono siano sempre più brevi. Sento mio figlio, lo sento che si lamenta con sua sorella e mi dice: “Papà, è sempre lei, ci sono i bambini che aspettano, è una prepotente…” e io gli dico “Vabbè, lascia stare, è sempre una donna …”, e lui borbotta un po’ e poi mi dice “Ci sono i bambini, chi vuoi che ti passi per primo?”, io mi faccio passare Lorenzo che è il nipotino più grande, ha 7 anni. Lorenzo mi chiama nonno Melo e gli chiedo come va a scuola, giusto qualche parola perché il tempo non lo puoi fermare, e poi mi chiede “Nonno Melo, ma quando vieni a casa?” e io gli rispondo “Guarda vengo presto”, gli dico le solite bugie che dicevo ai miei figli, ma l’ultima volta mi ha sconvolto perché mi ha detto “Nonno Melo, non fare come hai fatto con papà che gli dicevi sempre che venivi a casa e lo stai facendo aspettare da quando aveva 6 anni”. Questo è stato un calcio al cuore, proprio mi ha massacrato. Gli rispondo “No, no non ti preoccupare vengo presto”. Poi mi passa l’altro nipotino Michael di sei anni, e lui si lamenta perché non telefono tutti i giorni, perché non telefono più spesso. Mi dice che le guardie sono proprio cattive.

Allora io lì non voglio che i miei nipotini odino le istituzioni, odino lo Stato e gli spiego che non è colpa delle guardie, è che le telefonate costano e non posso telefonare spesso. Ma lui di recente mi ha detto “Va bene nonno, glielo dico io a papà di mandarti più soldi, semmai rinuncio io ai regali di Natale”.

Ecco i bambini fanno certi discorsi, che sembra che abbiano più buon senso di certi politici. È difficile capire perché non posso telefonare più spesso, come è incomprensibile perché la telefonata deve durare dieci minuti, non lo so, non è facile dare delle risposte. Proprio quando rimangono le ultime manciate di secondi mi faccio passare la mia compagna, poverina lei è sempre l’ultima però è sempre la prima nel mio cuore, e subito la domanda che mi fa è “Allora, ti ha risposto il magistrato di Sorveglianza?”.

Ho avuto una richiesta in bilico per due anni e non c’è stata mai una telefonata dove non mi ha chiesto se mi era arrivata questa risposta, e a me tutte le volte mi tocca difendere la magistratura di Sorveglianza dicendo che c’è il sovraffollamento, hanno tanto da fare, la mia posizione è difficile, la devono esaminare con cura. E lei borbotta, si lamenta “Ma come, ma cosa ci vuole a dire si o no, a scrivere dieci righe”. Insomma, anche lì mi tocca difendere le istituzioni incredibilmente, mi tocca fare anche questo, poi scatta una vocina che dice che la telefonata sta per finire.  A volte non riusciamo neanche a scambiarci un bacio, una coccola, che già si interrompe la linea.

Ecco io rientro in cella con il cuore in tumulto e non capisco anche lì perché lo Stato mi fa questo, perché fa questo alla mia famiglia, non lo capisco proprio.

Adesso per finire vorrei dare una notizia. Allora la notizia è questa, voglio proprio riportare, citare il discorso di Papa Francesco, proprio due righe, ci tengo in particolar modo a citare queste parole: “Tutti i cittadini, tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte legale o illegale che sia e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie nel rispetto della dignità umana, delle persone private della libertà, e questo io lo collego con l’ergastolo.

Nel Codice penale vaticano l’ergastolo non c’è più, il fine pena mai è una vera e propria pena di morte nascosta”. Adesso queste parole molti politici hanno fatto finta di non sentirle, molti politici che magari si definiscono cristiani. Però ecco Ristretti Orizzonti ha pensato di stanare quella parte di società e quella parte di politici che non stanno ascoltando le parole del Papa e ha fatto un numero speciale dedicato proprio a Papa Francesco.

 

 

 

 

 

Vedere la sofferenza della mia famiglia sommata alla mia mi avvilisce troppo

 

di Roverto Cobertera – Ristretti Orizzonti

 

Non mi sentivo adatto oggi a parlare dell’iniziativa sull’affettività, perché da poco tempo ho preso una decisione nella mia vita. Ho deciso di rompere il legame con la mia famiglia, perché vedere la loro sofferenza sommata alla mia mi avvilisce. Vedere l’impotenza della mia famiglia e non poter risolvere la mia situazione mi porta a stare veramente male. Sentire i miei figli chiedermi “Papà quando ritorni a casa?” e non sapere cosa rispondergli. Purtroppo non riesco a rispondere ai miei figli. Ho una condanna abbastanza pesante, una pena che finisce con la fine della vita, una condanna inflitta, per me in maniera incomprensibile, per un reato che non ho commesso, potete non crederci ma io sto combattendo per dimostrare la mia innocenza. Troppa superficialità, indifferenza nell’applicare la giustizia, io credo che il mio caso non sia giustizia, credo che sia cattiveria, razzismo e xenofobia. Non sono però qui per parlare della rabbia di Roverto Cobertera e neanche della sua amarezza, ma per parlare dell’affetto che mi ha portato qui oggi, perché sento che ho un dovere nei confronti di quelle persone della mia famiglia che ancora mantengono una relazione con me.

Io purtroppo non faccio tanti colloqui perché la mia famiglia abita all’estero, regolarmente uso il telefono e come sapete noi usufruiamo di 1 telefonata di 10 minuti a settimana, che alla fine non sono 10 minuti, sono 8 o 9 minuti.

Per esempio, quando io telefono la mia telefonata io la divido, perché ho due figlie che vivono in Spagna, una che abita a New York e mio nonno che quando era vivo abitava a Santo Domingo. Quando telefono a mia figlia in Spagna, la più piccola di 5 anni è la prima  che prende il telefono, ha un carattere un po’ particolare ed è molto intelligente. Quando prende il telefono arriva che ha tutto preparato per dirmi quello che fa durante il giorno, cosa fa a scuola, però lei non mi conosce veramente perché è nata che io ero in carcere, penso che lei abbia la necessità di conoscermi. Io guardo l’orologio, durante la telefonata, perché non ho abbastanza tempo, lei parla tanto al telefono e io le devo dire “Guarda, passami tua sorella Sofia perché se no non riesco a parlare con tutte e tre”. Allora lei mi ribatte “Guarda papà, già chiami poco e parli poco con me, non lo capisco”, io le rispondo che la ragione perché non chiamo abbastanza è perché non ho abbastanza soldi e non riesco a telefonare di più, allora lei mi dice “Va bene, dico alla mamma che ti spedisca più soldi così ti è più facile telefonarmi e parlare con me”. Io così mi vedo costretto a dirle “La mamma ha le sue difficoltà per andare avanti, non credo che la mamma mi possa mandare dei soldi. Passami Sofia, dai”. Allora lei mi risponde “Ti odio papà”. Questa risposta mi spacca in due e l’unica cosa che riesco a risponderle è “Ti voglio bene”. Dopo un sospiro lei mi risponde che mi vuole bene anche lei e mi passa Sofia. Sofia ha 9 anni, capisce più o meno la situazione e parliamo dei problemi scolastici, poi le dico di passarmi la mamma, anche perché si sente l’avviso che la telefonata deve terminare e quindi lei mi passa la madre, e riesco a dire a mia moglie che la amo e lei mi risponde “I Love You too”, e la telefonata finisce.

L’estate scorsa mio nonno è stato qui in Italia. Mio nonno è nato nel 1911, potete immaginare l’età di questo signore, ha avuto molta difficoltà a trovare una linea aerea che gli vendeva un biglietto, perché a quella età nessuna linea aerea si prende la responsabilità di portarlo in Italia. Arriva comunque in Italia e grazie alla comprensione del direttore mi concedono di fare il colloquio nell’area verde, mi autorizzano tre ore venerdì e tre ore al sabato. Di questi due giorni ho potuto fare il colloquio all’area verde di venerdì perché il sabato non c’era personale a sufficienza e mi mandano alla sala dei colloqui regolari.

Ma in questa sala potevo fare solo un’ora perché al sabato è consentita solo un’ora. Allora chiedo di poter parlare con il comandante, perché mio nonno veniva da Santo Domingo, non poteva stare solo un’ora a colloquio. Il comandante si è messo una mano sul cuore e mi ha concesso di fare tre ore in quella sala.

Ricordo un particolare, che quando mio nonno è arrivato al colloquio pensavo che lui per prima cosa mi abbracciasse, mi salutasse, lui invece subito mi ha chiesto “Figlio mio, ma tu come fai a stare qui senza fare sesso?”. Da noi il sesso non è un tabù, per noi in Centro America il sesso è una cosa normale, é come il mangiare, allora io gli dico che qui in Italia purtroppo non esiste questa possibilità, non permettono di fare il colloquio intimo con la propria compagna, questo è visto come un privilegio, e lui mi risponde “Come un privilegio? Questo non è un privilegio, questo è un dovere non un privilegio. Fare sesso con la persona che ami è un dovere”. Lui aveva una certa idea del sesso, lui diceva che la cosa più bella al mondo è fare sesso con la persona che ami, che noi esseri umani senza amore siamo come un metallo senza vita, e mi diceva anche che non capiva perché in Italia non esisteva una cosa del genere mentre in Haiti, che io so che è il paese più povero al mondo, che non c’è da mangiare, non ci sono medicine, non c’è acqua potabile e al detenuto gli si permette però di fare il colloquio intimo con la sua donna. Spero che questo serva per aprire le orecchie alle persone che gestiscono questo sistema.