Il punto di vista delle persone detenute

 

Per anni nella mia famiglia pareva che tutto andasse bene

Ora ho scoperto che le cose non erano come me le avevano raccontate

 

di Clirim Bitri, Ristretti Orizzonti

 

Per preparare questa giornata abbiamo confrontato diversi ordinamenti degli Stati Europei e non. Nel confrontarli abbiamo visto che in tutti gli ordinamenti è previsto un minimo di ore di colloquio che possono fare i detenuti, e poi viene lasciata all’amministrazione la possibilità di scegliere di concederne di più. Il minimo italiano però è davvero un minimo, sei sono le ore previste in Italia ogni mese, un numero del tutto inadeguato.  Io sono da quasi sei anni in carcere e per mia fortuna ho quasi finito, mi manca qualche mese per essere una persona libera. In questi anni ho subito tutte queste restrizioni, con sole sei ore di colloquio al mese, quattro telefonate quando le potevo fare, perché io vengo dall’Albania, e in tutti i sei anni ho sentito pochissimo la mia famiglia, e nella mia famiglia pareva che tutto andasse bene, nessuno che stava male, tutto perfetto. Mi sembrava strano! Dopo un anno e qualche mese di questi colloqui, io e la mia ragazza abbiamo deciso di separarci, perché sei ore al mese, con venti persone in una stanza, col divieto assoluto di abbracciarci e di baciarci, sorvegliati a vista dagli agenti, questi colloqui che facevo con lei erano più una sofferenza che un piacere di vederci, e allora abbiamo deciso di separarci.

Da qualche mese ho incominciato ad uscire in permesso, e ho così potuto chiamare i miei famigliari, e ho visto che le cose non erano come me le avevano raccontate. E mi sono sentito davvero solo!

Credo che oggi sono un estraneo per la mia famiglia, e nella mia famiglia ho visto che tutte le cose che non mi avevano detto si sono accumulate e ho dovuto venirle a sapere tutte quante insieme, è per questo che mi sembra di essere un estraneo per i miei cari, non ho più amici, non ho più un punto fermo come lo era la mia famiglia.

Per questo dico che adesso sono in difficoltà, ho finito la pena ma sono in difficoltà, faccio una grande fatica a non ricadere nelle vecchie conoscenze, perché ricadendo nelle vecchie conoscenze e ritrovandomi solo c’è il rischio di tornare a fare la vita di prima. Io spero di non farlo, spero di scegliere una strada diversa, però a questo mi hanno portato questi sei anni di detenzione, a ritrovarmi solo, e questo è quello che succede a quasi tutti noi.

 

 

 

 

Quando si esce dal carcere ci si deve reinventare di nuovo un ruolo in famiglia

 

di Sandro Calderoni – Ristretti Orizzonti

 

Prima di tutto io vorrei parlare non tanto di noi detenuti, di quello che sarebbe bene per noi, vorrei parlare in termini pratici del fatto che l’opinione pubblica deve capire che l’idea che abbiamo avuto noi, di interessare la politica affinché faccia una legge per gli affetti delle persone detenute, è prima di tutto un modo per garantire livelli di sicurezza maggiori nella società. Perché noi riteniamo che se una persona, che comunque è stata privata della libertà, viene privata anche della famiglia, al momento in cui finisce la pena e ritorna nella società, sola, senza affetti, è una persona oggettivamente più a rischio.

Il detenuto oggi, con i pochi colloqui e le pochissime telefonate che può fare finché è in carcere, difficilmente poi quando esce si ritrova la famiglia come sperava, anzi.

Dopo anni di carcere ci si accorge infatti che in un certo senso i figli non sono più gli stessi, i genitori sono diventati anziani senza quasi che ce ne accorgessimo, la propria donna, la propria moglie è cambiata, e quindi si ci si deve reinventare di nuovo un ruolo. Prima di tutto un ruolo di padre, perché io adesso ho una figlia che è già donna, che però aveva un anno quando io sono entrato in carcere, e fondamentalmente l’ho vista crescere a puntate, tramite colloqui, tramite telefono, quindi io non l’ho mai accompagnata a scuola, non ho mai avuto quelle attenzioni che un padre ha di solito con una figlia. E le difficoltà che hai quando sei in carcere con la famiglia te le ritrovi fuori, non avendo avuto la possibilità, nelle ore di colloquio, di riuscire a discutere, a confrontarti, ad avere un rapporto profondo, che per me per esempio significa anche che sia proprio mia figlia, sia proprio lei a chiedere a me di parlare di certe questioni in sospeso tra noi, di spiegare certe scelte.

Le vittime per noi non sono solo le persone che hanno subito i nostri reati, sono anche i membri della nostra famiglia, ma i nostri sentimenti, le nostre responsabilità non si possono spiegare in un colloquio in carcere, che dura un’ora, due al massimo, in un ambiente in cui l’unica cosa che riesci a fare è di chiedere ai tuoi cari come stanno.

E stanno tutti bene, naturalmente, nel senso che non hanno quasi il coraggio di dirti quello che non va. Io spesso faccio un paragone, descrivo la visita in carcere come una visita ad un malato, quando si va a trovare un malato di solito non si ci si parla mai apertamente dei problemi che ci sono, anzi, si cerca di evitargli le cose sgradevoli, sapendo che la persona malata è in una condizione di particolare debolezza. Ecco, la stessa cosa succede in carcere. Di conseguenza noi riteniamo che, se non ci si dà la possibilità di coltivare già a partire dal carcere gli affetti, sicuramente quando usciremo troveremo grossissime difficoltà in famiglia.

E poi, se non si ha l’appoggio delle famiglie, diventa difficile anche confrontarsi con la società esterna fuori, con tutti i luoghi comuni e i pregiudizi che ci sono.

 

 

 

 

 

Ho ritrovato le mie figlie, ora rischio di nuovo di perderle

 

di Biagio Campailla – Ristretti Orizzonti

 

Oggi hanno parlato tante figlie di detenuti. Per tanti anni mia figlia è stata lontana da me, ora mia figlia mi è stata restituita. Ho trascorso dieci anni in regime di 41 Bis, area riservata, proprio Veronica il colloquio lo faceva dietro un vetro, ricordo ancora come fosse adesso quando da bambina mi batteva la manina su quel vetro. Io oggi ho la fortuna di avere mia figlia qui, ma ci sono tanti miei compagni che hanno le figlie e non le possono vedere, ci sono persone che da anni hanno le figlie in Sicilia, e non gli vengono neanche dati i permessi per andare in Sicilia a incontrarle. Ecco, mia figlia mi è stata “restituita” dopo gli anni del 41 Bis, quando sono arrivato a Padova, e ho iniziato un percorso molto duro, perché riacquistare la parola uscendo dal 41 Bis è una fatica enorme, io devo ringraziare il progetto di confronto tra le scuole e il carcere che faccio con la redazione e grazie alla redazione sono un po’ riuscito a sbloccarmi.

Così sono arrivato anche a “ritrovare” mia figlia, ma in questi giorni si vocifera che la sezione di Alta Sicurezza di Padova verrà smantellata e saremo tutti “deportati” in giro per l’Italia, per la Sardegna in particolare, questo significa interrompere il percorso che ho fatto io, per i miei figli riperdere il padre, tanti detenuti che sono all’Alta Sicurezza, che con fatica si sono impegnati in un percorso di cambiamento, c’è chi fa ragioneria, chi fa l’università, chi viene in redazione, chi lavora, ma quale sarà il nostro futuro?

Non lo so! Io spero solo che ci sia dato modo di continuare questo nostro percorso.

Voglio finire con il testo di una telefonata tra me e un’altra mia figlia, che è quella che più ha subito il trauma del 41 Bis dietro un vetro:

“Amore mio, ti vorrei ricordare certi Natali passati insieme, e mi aspetto che mi dici “Quali Natali?”. Perché ti ho lasciato che avevi sei anni, oggi ne hai 22, sicuramente avrai qualche ricordo, ma non vuoi pensarlo, per il motivo che ti rende triste, sapendo di non poter passare più un Natale insieme. Questo è successo anche a me, di non volere più pensare per non farmi male, ci avevo provato i primi anni della mia carcerazione, ma poi vedevo che mi procuravo da solo tanta sofferenza.

Sicuramente succede anche a voi, a te e alle tue sorelle, vedi com’è il carcere che ti porta al punto di non pensare i momenti più belli della tua vita, ecco perché Carmelo Musumeci dice che il carcere è l’assassino dei sogni, ti ruba anche i sogni più belli che hai passato nella tua vita. Ieri sera ci avevo provato, a pensare come poteva essere, un Natale oggi, a passarlo con voi, con i vostri figli, ho cercato d’immaginare come giocare con i miei nipotini, ma subito ho preferito non pensare più: il motivo è che ho iniziato a sudare, a entrare in panico, e mi sono detto io stesso: non pensare, ti fai solo del male!

Allora cercavo di pensare a qualche Natale trascorso insieme, ma niente da fare, anche questo pensiero mi porta tremore, angoscia, a quel punto mi dico: l’assassino dei sogni ha portato via anche quello. Cerco di dire sempre quelle parole ripetitive e banali, quelle parole che non mi fanno male e con le quali non voglio far male a voi, per questo motivo vi chiedo scusa, vi chiedo di perdonarmi.

Oggi faccio tanta fatica a esprimermi con le parole, il tanto isolamento dentro l’assassino dei sogni, il regime del 41 Bis, si é portato via anche la parola. L’anno scorso l’ultima volta che ti ho visto al colloquio, mi chiedevi “Papà, pensi che il prossimo anno sarai con noi per il Natale?”. Io ti ho risposto “Mai dire mai”, perché non trovavo il coraggio di spiegarti cosa sia l’ergastolo ostativo, oggi ti voglio dire “Se riesci a pensare a quei bei Natali trascorsi insieme, quello sarà l’unico ricordo bello che ti possa rimanere del tuo papà”. Non penso che ci potranno essere più feste che possiamo trascorrere insieme, l’assassino dei sogni ha portato via tutto. Tante volte leggevo le lettere che mi scrivevate, vedevo che facevate dei disegnini, poi iniziavate a dire delle parole, poi iniziavate a fare dei discorsi, per me significava vedere la vostra crescita scritta su un pezzo di carta, ma l’immagine che avevo era di voi bambine, per questo motivo ancora oggi vi parlo come se foste delle bambine, perché è l’unico ricordo visivo che mi è rimasto. Il mio Natale oggi, per me è un giorno come gli altri, con la differenza che durante i giorni normali mangi il cibo dell’amministrazione, oggi preparo qualcosa con le mie mani, per ricordare come si mangiava a casa, spero che l’assassino dei sogni non si rubi anche questo, posso dire che non mi era permesso di fare questo in quei 10 anni di regime di 41 Bis, là veramente l’assassino dei sogni aveva ucciso tutto. Vi chiedo scusa figlie mie. Papà”

 

 

Io non conosco i miei figli e loro non conoscono il proprio padre

 

di Luca Raimondo – Ristretti Orizzonti

 

Sono un ragazzo di 33 anni di Catania, non voglio raccontarvi oggi di quelle scelte che mi hanno portato a rovinare fin da piccolo la mia vita, partendo dal mio primo arresto da minorenne, per andare a finire a tutti gli anni che ho fatto di carcerazione.

Vi voglio parlare delle difficoltà che ha un detenuto con la sua famiglia quando subisce un trasferimento lontano da casa. A me mi arrestano nel 2008 per rapine commesse al Nord Italia, mi spiccano un mandato di cattura a Catania, mi portano al Carcere di Piazza Lanza a Catania e dopo un paio di giorni dall’interrogatorio mi trasferiscono a Bolzano, a 1.600 Km di distanza da casa. Per mia “fortuna” diciamo, avevo dei processi da definire in Sicilia, quindi mi portano in un anno e mezzo a fare più di 23 spostamenti di carcere, ma paradossalmente li facevo volentieri, perché potevo vedere i miei figli, la mia ex compagna e mio padre anziano, purtroppo mia madre per problemi di salute sono sette anni che non la posso vedere.

All’inizio della mia ultima carcerazione ho lasciato i miei due figli che erano piccoli, avevano 5 e 6 anni, purtroppo come dico sempre agli studenti, io i miei figli li sto crescendo per corrispondenza, perché non mi hanno dato la possibilità di crescermeli, vista la lontananza che separa Catania da dove ho avuto i miei trasferimenti, come in questo caso Padova. Io ho cresciuto, se questo si può dire crescere, i miei figli per lettera e con dieci minuti di telefonata alla settimana, questi minuti da dividere anche con la mia ex compagna, i miei genitori anziani e appunto i miei figli, ecco che per questo motivo credo di essere un estraneo agli occhi dei miei figli, anche se mi chiamano papà. Vi racconto brevemente una telefonata che ho avuto tempo addietro con loro, in particolare con mio figlio più piccolo, gli dico: “Ciao amore mio, come stai?”,  e lui mi risponde: “Ciao zio! Scusa Ciao papà!”, vedete questo mi ha fatto riflettere tanto, forse è stato un istinto da parte di mio figlio a chiamarmi zio, perché purtroppo non sono stato vicino in tutti questi anni ai miei figli, in sostanza questa lontananza ha portato a un “non rapporto”, io non conosco loro e loro non conoscono il proprio padre. Vorrei portarvi a riflettere del disastro che avviene nel nostro Paese, cosiddetto democratico, per quel che riguarda la vita dei figli delle persone detenute: esistono delle leggi che prevedono che un detenuto dovrebbe stare il più vicino possibile a casa, nell’arco di 2-300 Km di distanza dal luogo di appartenenza, ma questo nella maggior parte delle volte non accade. Io penso che, per una mia scelta di vita sbagliata, con tutte le conseguenze possibili, tra cui processi, condanne, carcere, è giusto che io paghi per i miei errori, ma le nostre famiglie, oltre ad avere la colpa di amare una persona che è detenuta, che colpa hanno?

Io penso che se non ti danno la possibilità di stare vicino ai tuoi cari, si crea rabbia da parte nostra e anche da parte dei nostri familiari, e si potrebbe creare altra delinquenza, ma non perché lo dico io, ci sono statistiche che affermano che il 30 % dei figli di persone detenute è a rischio di delinquere come ha fatto il proprio genitore.

Spero che questa battaglia per l’affettività che stiamo facendo porti dei frutti, perché altri figli come quelli miei non abbiano un genitore per corrispondenza.