Quanto è difficile che le persone detenute imparino ad assumersi le loro responsabilità

È difficile oggi più che mai, perché l’esempio che dà chi rappresenta le istituzioni e dovrebbe risolvere i problemi del sovraffollamento è spesso una desolante manifestazione di IRRESPONSABILITA’

 

di Ornella Favero, Ristretti Orizzonti

 

Mai come in questi ultimi anni il mio “mestiere” di volontaria e giornalista in carcere è diventato insopportabilmente difficile. Quando per esempio leggo certe notizie e certi commenti sull’ultimo decreto, superficialmente definito “Svuotacarceri”, la rabbia mi monta dentro perché è davvero un’impresa disperata cercare di ragionare con le persone detenute sulla loro responsabilità, sulla difficoltà di tanti di loro a riconoscere il ruolo delle istituzioni, sulla “antipatia” che troppe volte hanno mostrato per le regole, se poi lo Stato, le Istituzioni, la Società, l’Informazione, sono spesso rappresentati da persone che si dimostrano disattente, manipolatrici, acritiche, IRRESPONSABILI. A me non piace fare “la maestrina dalla penna rossa”, ma qualche domanda la vorrei fare, per esempio all’ex dirigente dell’Amministrazione penitenziaria Sebastiano Ardita, che Il Fatto Quotidiano definisce “una delle persone più competenti in materia essendo stato per nove anni direttore generale dei detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria” e che, in Commissione Giustizia alla Camera, ha dichiarato a proposito del decreto “Non serve a risolvere il problema del sovraffollamento, è molto peggio di un indulto. E, soprattutto, premia i mafiosi”.

 

Prima domanda: oggi ci sono circolari dell’Amministrazione penitenziaria che parlano di “umanizzazione delle carceri”, quindi ammettono tranquillamente che negli anni passati le carceri sono diventate “disumane”, e non solo per i numeri del sovraffollamento, ma forse perché qualcuno se ne è fregato alla grande delle condizioni di detenzione, finché non è arrivata l’Europa a metterci con le spalle al muro. Ora, il dottor Sebastiano Ardita è stato responsabile “dei detenuti e del trattamento” in quegli anni, in cui la situazione è degenerata, senza che nessuno capisse fino in fondo la drammaticità del problema delle carceri “disumane”: ci può aiutare allora a individuare le responsabilità, e a capire perché si è fatto così poco prima che l’Europa ci “minacciasse”?

 

Seconda domanda: questo “terrore” per l’aumento della liberazione anticipata “speciale” mi fa pensare che qualcuno stia barando nel seminare il panico, se quegli 8, dico 8 mesi di carcere in meno (due all’anno dal 2010), che arriveranno massimo a 12 nel 2015, dato che poi il provvedimento cessa, spaventano così tanto i cittadini. Perché comunque le persone, qualche mese prima o qualche mese dopo, poi finiscono di scontarla, la pena, e allora poniamoci piuttosto il problema di COME la scontano. Sempre Ardita sostiene che “anche un penitenziarista poco esperto può ben comprendere come uno strumento così concepito venga a minare alle fondamenta i principi stessi del trattamento penitenziario, che presuppone sempre percorsi  nei quali i benefici siano il frutto di sacrificio, attraverso la revisione critica del proprio passato criminale e la provata volontà di reinserirsi nel tessuto sociale”. “Un regalo, bello e buono, a chi ha commesso gravi delitti e non ha mostrato neanche il minimo segno di pentimento” commenta il quotidiano. Scusate, ma di cosa stiamo parlando? Ma qualcuno sta davvero raccontandoci che in carcere si rispettano oggi “i principi del trattamento penitenziario”? Mi viene da chiedere allora: lo Stato che tratta le persone in questa maniera, l’ha fatta una “revisione critica” del suo passato e del suo presente di continue e reiterate illegalità?

 

Terza domanda: Dice Ardita:“La misura prevista dal decreto si applica a tutti i detenuti, 416-bis compresi, perché si basa come unico presupposto sull’opera di rieducazione. Che, attenzione, non vuol dire altro che colloqui con la famiglia, attività teatrali, attività sportive”. No guardi, dottor Ardita, “l’opera di rieducazione”, non dovrebbe essere affatto una banalità come colloqui con la famiglia, attività teatrali, attività sportive”, dovrebbe essere costituita da percorsi di studio, lavoro, confronto con la società, rientro graduale in famiglia, RESPONSABILITA’ che dovrebbero poi sfociare nelle misure alternative, le sole che sono in grado di abbattere la recidiva. Ma il piccolo dettaglio che le chiedo è: secondo lei, lo Stato garantisce ai suoi cittadini detenuti questi percorsi di risocializzazione? In realtà succede spessissimo che non gli viene data la liberazione anticipata, quella “normale”, perché non si comportano bene, ma spesso non si comportano bene perché sono trattati in modo illegale e non vedono in alcun modo rispettati i loro diritti. Quindi forse quei pochi mesi in più di sconto di pena andrebbero dati a tutti, senza intasare gli uffici dei magistrati di Sorveglianza, che già sono pochi, obbligandoli a fare sottili distinzioni fra chi li ha meritati e chi no, e impedendogli così di occuparsi di cose ben più importanti, come i permessi e le misure alternative. Io in carcere ci sono ogni giorno, e quando con i detenuti della mia redazione incontriamo tantissimi studenti, io chiedo che chi porta la sua testimonianza, spiegando come è arrivato a commettere reati, si assuma la sua responsabilità,

senza cercare alibi. Ma è dura, molto dura parlare di responsabilità con i detenuti, se chi rappresenta le istituzioni è autorizzato a violare le regole e a maltrattare impunemente.

 

Quarta domanda: Gentile dottor Ardita e gentile Il Fatto Quotidiano: qualcuno davvero è convinto che far scontare le pene parcheggiati in carceri disumane, non solo per le ristrettezze ma anche e soprattutto per l’assenza di qualsiasi attività, carceri in cui le persone passano il tempo spesso imbottite di psicofarmaci, arrabbiate, incattivite per la mancanza di speranza, renda la società più sicura? È difficile, io credo, immaginare qualcosa di più inutile, e anzi dannoso delle attuali galere, e allora smettiamola di fare a finta che far scontare un po’ di tempo in più rinchiusi lì dentro possa portare qualcosa di buono. E partiamo da lì, dalla necessità di ridare senso alle pene, anche “accorciando” le attuali carcerazioni: mandiamo un po’ di gente a casa qualche mese prima, come forma di modesto risarcimento per l’illegalità dello Stato, così ridurremo almeno parzialmente il sovraffollamento, e chissà che intanto la politica metta mano alle leggi “carcerogene” e l’Amministrazione penitenziaria pensi a fare quello che non è stato fatto dopo l’indulto, quando i detenuti erano scesi a 37.000: “umanizzare” le galere, come si dice ora. A proposito di umanità e di responsabilità, nel nostro sito qualche famigliare ci ha segnalato che ci sono carceri dove ancora si va a colloquio con i vecchi, disumani banconi con i divisori in vetro, che il Regolamento penitenziario del 2000 imponeva di rimuovere. Ma qualcuno si occupa di far rispettare la legge, oltre cha ai delinquenti, anche ai bravi cittadini responsabili delle nostre galere?

 

 

 

 

 

Un uomo ombra risponde a Sebastiano Ardita

 

di Carmelo Musumeci

 

La legalità prima di pretenderla va data (Frase trovata scritta sulla parete di una cella di un detenuto impiccatosi fra le sbarre della propria cella) Sulla Rassegna Stampa di Ristretti Orizzonti del 15 gennaio 2014 leggo:

“Si parla di un indulto mascherato, ma è peggio. L’indulto opera in maniera generalizzata, uguale per tutti, invece con il meccanismo previsto dal decreto lo sconto cresce con il crescere della pena” e “non essendovi sbarramento, vi è la possibilità di far uscire i soggetti più pericolosi sul piano criminale”. È la stroncatura del procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita della cosiddetta “liberazione anticipata speciale”, prevista dal decreto Cancellieri sulle carceri.”

 

Ricordo all’ex Consigliere del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che il carcere in Italia è diventato il posto più illegale di qualsiasi altro luogo e che l’uomo detenuto non è certo un oggetto, un pezzo di legno da tenere accatastato in una cella per farlo a pezzi e distruggerlo, perché dopo, vedendo che il sistema è peggiore di lui, uno finisce per non provare nessun rimorso né vergogna per il male che ha commesso. Purtroppo, nel nostro Paese il carcere non ha più nulla di umano anche perché non c’è più logica né razionalità. E i detenuti ormai si muovono come zombi intorno al nulla aspettando il niente, e molti si tolgono la vita perché non accettano l’assoluta disumanità del carcere in Italia. D’altronde se si chiudono in uno spazio limitato, in una gabbia, dei topi, una volta raggiunta una certa densità, questi si lasciano morire o diventano aggressivi. Leggo pure: Ardita critica anche il “risarcimento equitativo” di 100 euro al giorno per ciascun detenuto nel caso di mancata ottemperanza alle disposizioni imposte dai magistrati di Sorveglianza, per l’impatto economico che l’attuale formulazione potrebbe avere. Su questo punto ricordo che uno Stato di Diritto ha l’obbligo di rispettare la legge, sia interna sia sovranazionale e internazionale, e non può infrangere le sue stesse regole come ha fatto finora. Per questo, se i funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non applicano i provvedimenti della magistratura di Sorveglianza, lo Stato è giusto che paghi e risarcisca i prigionieri, perché la legalità prima di pretenderla bisogna darla. Ricordo anche che molti mafiosi della liberazione anticipata non sanno che farsene perché sono condannati all’ergastolo ostativo. E il sottoscritto ergastolano ha chiesto la revoca di quella che ha già ottenuto. Per ultimo, mi permetto di ricordare che la liberazione anticipata speciale contestata serve allo Stato per riportare legalità nelle carceri e risarcire i prigionieri per averli costretti a vivere in uno stato inumano e degradante. Personalmente, da ex criminale, credo che combattere la mafia in carcere con la legalità porta più risultati di quelli che si ottengono con i regimi disumani. Il carcere così com’è invece di recuperare esclude ed emargina e fa uscire persone ancora peggiori e più mafiose di quando sono entrate.

 

 

 

Mi sono accorto che dietro a un gesto orrendo non c’era un mostro

 

di Luigi Guida

 

La cattiva informazione e certe pessime dichiarazione dei politici ci hanno fatto credere che dietro l’orribile tragedia delle tre sorelline di Lecco si nascondesse il mostro,e poi invece ci è capitato di svegliarci una mattina e accorgerci che dietro  questo tremendo gesto (come spesso accade) non c’era un mostro, ma una mamma premurosa che amava i propri figli fino a pochi giorni prima, ma che in preda ad uno stato di disperazione, di solitudine e abbandono, come per altro ha dichiarato anche il prete del paese che la conosceva, ha perso il controllo della propria vita e ha commesso un reato terribile, ma che non ha niente a che fare con una volontà criminale come può esserci dietro altri tipi di omicidi. Molto spesso la paura diventa un affare e un business politico per raccogliere qualche voto in più, e il politico di turno cerca di vendere un antidoto fatto di parole dure che vanno a colpire la pancia dell’opinione pubblica, creando così solo un mercato della paura, ma evitando di fatto di trovare soluzioni efficaci per affrontare questo tipo di problemi alla radice. Mi chiedo: ma veramente si può credere che una mamma che arrivi a togliere la vita ad un figlio, che è il bene più grande che la vita ci possa donare, la si possa fermare dicendole che il nostro ordinamento prevede l’ergastolo per questo tipo di reati? No, non cambierebbe nulla, perché le persone che arrivano ad un gesto cosi estremo in quel momento hanno perso il contatto con la realtà e con la società in cui vivono, e sono certo che anche se un giorno la pena carceraria per loro finisse, il rimorso che si porteranno nella coscienza una volta tornate in società le punirebbe per il resto della loro esistenza. Tuttavia, comprendo il sentimento di rabbia e di indignazione che si forma nell’opinione pubblica dopo aver ascoltato una notizia del genere, perché anch’io, che sono in carcere per aver commesso reati diversi da quelli di cui stiamo discutendo, in passato pensavo che la punizione unica per i reati contro le donne e i bambini fosse la pena di morte o quanto meno il buttare via le chiavi. Ma da anni ormai faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti” e ho conosciuto persone che hanno commesso reati in famiglia. Ascoltando le loro storie, ho iniziato a mettere in discussione alcune convinzioni che erano radicate fortemente dentro di me, perché mi sono accorto come a volte dietro questo tipo di reato, diversamente da chi come me ha commesso reati per una scelta di vita specifica, ci sono persone che prima di quel gesto estremo erano uomini miti, non violenti e con un gran senso per la famiglia, e che mai avrebbero pensato di varcare la soglia del carcere. Quando ti accorgi di questo inizi a pensare che nessuno può ritenersi immune da tutto ciò, perché potremmo svegliarci un giorno e accorgerci che l’autore di un terribile gesto come quello di cui si è resa responsabile la madre di Lecco è un nostro amico, un parente, o addirittura noi stessi. Spero dunque che noi tutti, compresi i nostri politici, facciamo una riflessione più profonda su questo tema, e smettiamo in nome della sicurezza di pensare che problemi cosi difficili possano essere risolti con l’introduzione della pena di morte o con l’ergastolo, perché è anche nella capacità di essere umane e miti, e non intransigenti, che si misura la civiltà delle istituzioni.

 

 

 

Su Facebook scriveva che le sue figlie erano tutta la sua forza

 

di Davor Kovac

 

La terribile notizia di una madre che uccide le sue tre figlie per sollevarle da una possibile schiavitù o incertezza futura, ha suscitato una particolare tristezza anche in me. Dire che questa mamma fosse malata o depressa è un po’ poco. Troppo sbrigativo. Le è mancata la forza di affrontare la vita, la maturità nel portare avanti la famiglia in un periodo sempre più difficile, la capacità di cercare soluzioni positive. Su Facebook scriveva che le sue figlie erano tutta la sua forza. Ora, sapendo che il marito era partito per l’Albania per ufficializzare la loro separazione, leggo quel messaggio di Facebook come un segnale della sua profonda solitudine. Le difficoltà economiche poi non l’hanno certo aiutata. Cercando di dare una spiegazione a questa tragedia, mi viene da pensare che la profonda e irreparabile disperazione nella quale era caduta ha cercato di “affrontarla” con la cosa più tremenda e orribile che avrebbe potuto fare: forse si sentiva distrutta e così ha voluto distruggere tutto ciò che più amava e anche se stessa. È un dramma senza fine, perché se questa donna ce la farà a sopravvivere, dovrà fare i conti per tutto il resto della vita con quell’orribile gesto, l’aspetterà una prova durissima, trovare la forza di continuare a vivere e cercare, se sia mai possibile, di dare una spiegazione a quel gesto. I politici e i mass media si preoccupano di quale condanna esemplare attribuire. E per quanto sia giusto che chi sbaglia deve pagare, è ancor più importante, soprattutto in storie come questa, pensare a come si possa aiutare quella donna a trovare la forza di continuare a vivere. Ogni giorno leggiamo sui giornali o sentiamo in televisione una continua “caccia alle streghe”, dove sembra che le pene non siano mai sufficienti perché non si punisce mai abbastanza chi sbaglia. Dovremmo fermarci a pensare di più tutti quanti… se per esempio quella mamma non fosse stata strangolata dalle difficoltà economiche e soprattutto avesse vissuto in una comunità più sensibile e vicina… chissà come sarebbero andate le cose.

 

 

 

 

 

Dov’è finita la speranza?

 

di Erion Celaj

 

Sono un ragazzo albanese che si trova in carcere da un pezzo e che nella vita ne ha combinate tante, ma oggi sto facendo un percorso di reinserimento sociale, soprattutto grazie a un progetto che consiste nell’incontrare tanti studenti e raccontare la propria storia e come siamo finiti in carcere, senza cercare alibi ma facendo capire che determinate azioni possono recare danni irreparabili alla società e alla propria vita. Questo progetto ha l’importanza di comunicare emozioni, per certi versi emana speranza e aiuta a porsi seri propositi, che spero mi accompagnino una volta fuori da queste mura. Quello che per noi conta di più è che la gente non giudichi, ma capisca quanto sono complicate le vite delle persone. L’altro giorno ascoltando il telegiornale ho sentito una notizia terribile, quella madre che a Lecco ha ucciso le sue tre bambine e cercato poi di togliersi la vita, sono rimasto turbato e non volevo pensarci su, ma l’istinto certe volte ci avvicina a quei pensieri che meno vorremmo ci assillassero. Sto cercando di capire quale sia la giusta pena per questa donna, se davvero esiste una giusta pena, ma più la cerco e meno la trovo, forse perché non c’è una pena peggiore di quella di non vedere più i propri figli, non c’è pena peggiore di quella di non poter più rimboccargli le coperte né accarezzarli e dargli il bacio della buona notte, ecco tutte queste cose questa donna non le potrà mai più fare. Sia che si trovi in carcere sia che si trovi libera se mai un giorno dovesse uscire dal carcere, questa donna sarà macchiata per sempre e non c’è giudizio altrui che possa far male più della propria coscienza. Ciò che mi ha sconvolto sono state anche le dichiarazioni di un importante politico, che ha annunciato carcere sino alla fine dei propri giorni per quel delinquente che ha ucciso quelle tre bambine, mostrando così i muscoli invece di riflettere sui nuovi “criminali” che stanno apparendo ai giorni nostri, uomini e donne che si tolgono la vita o peggio ancora la tolgono ai propri cari perché non trovano più una soluzione ed hanno smarrito la strada della speranza, gente che presa dal panico della crisi economica agisce perdendo il lume della ragione, ecco io a questo politico vorrei chiedere cosa pensa dopo aver saputo che la criminale in questione è una madre disperata di fronte alle avversità della vita. Se per questa donna il carcere sarà il suo destino, cercate almeno di farle capire il gesto che ha commesso, cercate di curarla perché solo così si renderà conto di come è arrivata a un atto così tragico. E cercate per un attimo di pensare che il carcere non è la soluzione a tutti i mali, e inserite nei vostri programmi politici anche pene alternative, riconoscendo che, in particolare per chi soffre di un disagio psichico, o chi è tossicodipendente, ci deve essere almeno un grande punto interrogativo sulla loro sorte e sul bene che può fargli il carcere.

 

 

 

 

 

Dobbiamo tutti imparare a chiedere aiuto

 

di Pjerin Kola

 

Sono un detenuto albanese che da parecchi anni si trova in carcere per un reato gravissimo. Prima di entrare qui dentro avevo sempre una risposta sulle persone che facevano reati di qualunque tipo, dicevo “ma come si fa a fare una cosa simile?” o “gli sta bene la galera perché doveva pensarci prima”, come se avessi pronta la soluzione a ogni male e la mia soluzione fosse sempre quella giusta, però oggi la penso in modo del tutto diverso. Guardando il telegiornale in questi giorni è uscita la notizia di una madre che ha ucciso le sue tre bambine e devo dire che è una notizia scioccante, in un primo momento ti viene il pensiero di dire che non è possibile che un essere umano faccia una cosa del genere, però io che da molti anni mi trovo in Italia e da parecchio tempo in carcere, oggi non ho più quel pensiero e non riesco neanche a giudicare quella madre che ha compiuto un gesto estremo e terribile, e non so darmi una spiegazione. Persino i miei genitori in Albania, quando hanno visto il telegiornale albanese, si sono messi a giudicare il gesto di quella donna. Io infatti li ho sentiti per telefono ed è la prima cosa che mi hanno detto: “Hai visto in TV cos’è successo e cosa ha combinato quella madre? ma come fa una mamma a massacrare i propri figli?”. Ho avuto l’impressione che ritenessero quella donna un mostro e volessero dimostrare tutto il loro disprezzo, e ho allora cercato di spiegare alla mia famiglia che io in carcere ho capito che non esistono i mostri, esistono esseri umani che a volte arrivano a fare cose terribili, importante è imparare almeno a contare fino a dieci prima di giudicare. Ho paura però di non essere riuscito a convincerli, e poi sentendo il ministro Alfano dire che chi commette reati di quel genere deve passare tutta la sua vita in carcere, mi sono reso conto che è ancora più dura far capire che persone come quella donna hanno bisogno di cure e non di carcere. Perché non è il carcere a vita che le farà capire lo sbaglio che ha fatto uccidendo le sue creature, quella donna è già condannata, vivrà con questo incubo per sempre e le può bastare, perché lei non era una criminale come è stata definita, era una mamma come tante altre che ha cercato di resistere fino all’ultimo all’angoscia ed alla fine si è arresa, cercando di farla finita nel peggior modo possibile. Io non la giustifico e non la sto condannando, però dico che ci sono tante persone che si trovano in difficoltà, e che dobbiamo tutti imparare a chiedere aiuto, invece che nasconderci quando stiamo male.

 

 

 

 

 

Il tragico gesto di una madre

 

di Ulderico Galassini

 

È davvero difficile provare a ripercorrere questo estremo caso di triplice omicidio, un atto compiuto da una madre nei confronti delle sue figlie, che sicuramente erano ciò che di più caro poteva avere. Io spero che questo gesto porti la società a riflettere, a ricercare motivazioni che non sono di certo quelle della premeditazione, e a non pensare che per un reato simile serva una condanna a vita. Ma se non c’è premeditazione, dove possiamo ricercare le cause che portano poi a queste tristi realtà? Forse siamo troppo soli con i nostri problemi, non sappiamo ammettere di aver bisogno di aiuto, a volte non abbiamo nessuno vicino che possa capire ed aiutarci a reggere certe situazioni difficili. Solo in pochi parlano di creare dei Centri di ascolto dove possa rivolgersi chi non ha una persona alla quale aggrapparsi nei momenti difficili, e possa trovare qualcuno che sappia ascoltare con attenzione. Al contrario, molti chiedono vendetta, e pensano che per fermare questi reati bisogna fare leggi più dure: “lasciateli marcire in galera”, “le pene sono troppo brevi”, “escono subito, dopo poco tempo sono già fuori”. Forse non c’è la volontà di affrontare questi temi difficili e di fare una vera prevenzione, anche analizzando con serietà i casi già accaduti. Ma il fatto è che ad interessarsi a queste vicende è solo una grande parte dell’informazione, con però lo scopo di raccontare morbosamente queste storie, mentre la politica è più impegnata a parlare di “sicurezza” e a pensare di affrontare questi reati solo aumentando le pene. Nei giorni scorsi ho letto quello che scrive uno psichiatra, Vittorino Andreoli, che mi sembra abbia una grande conoscenza di reati come quello commesso dalla madre albanese o altri casi simili commessi da padri: “L’ossessione della morte, che s’insinua nella mente e la domina, non riguarda

solo se stessi, ma anche le persone care, che agli occhi del depresso inevitabilmente soffrono per colpa sua, visto che si ritiene un peso per gli altri. Questi vissuti sono all’origine di molte storie che si fanno cronaca. Sovente, infatti, il depresso uccide le persone care: in modo particolare i figli, se si tratta di una depressione femminile; oppure la moglie e i figli, se si tratta di una depressione maschile. E alla fine si suicida. Questi gesti estremi nascono da una percezione profondamente negativa - distruttiva – dell’esistenza, al punto che devono essere letti come omicidi d’amore, a cui segue un suicidio disperato. D’amore, poiché l’intenzione è rimuovere la condizione di dolore che il depresso ritiene vissuta dai propri cari”. Certo questo non può giustificare o portare ad accettare passivamente il fatto che un uomo o una donna possano trovarsi a causare la morte prematura di un proprio caro. Ma non possiamo pensare che serva chiedere vendetta, c’è una giustizia che già punisce chi ha compiuto un reato con una pena ben determinata, valutando i singoli casi, e però bisogna anche far capire al reo perché è arrivato a commettere un gesto così violento, a volte senza nessuna premeditazione, agendo come una macchina che si muove e non sa perché o chi ha spinto il bottone.

Non esistono i mostri, ma persone che possono compiere azioni mostruose, a volte spinte da paure che si innescano in loro e sono tali da spingere a distruggere ciò che si ha di più caro, distruggere una famiglia.

Cosa possiamo fare assieme? Confrontarci, parlare, riflettere, cercare di vivere in una società più aperta, meno stressata, non abbandonare le persone a se stesse, avere più attenzione al famigliare, all’amico, al vicino che sta male, non aver paura di chiedere aiuto.

Noi della redazione stiamo cercando di fare in qualche modo prevenzione con tantissimi studenti, c’è con loro un dialogo, che nasce dal fatto che noi raccontiamo le nostre storie, la parte peggiore della nostra vita, per far capire e percepire quei limiti che abbiamo superato trovandoci a commettere reati. Siamo così anche costretti a riflettere sul nostro reato, quasi come una autoanalisi che ci fa bene, con la speranza che qualcosa cambi per noi e per la società di oggi e del futuro. Anche noi vogliamo fermare la negatività, ma finché non c’è una giusta attenzione da parte del mondo “fuori” diventa difficile avere dei risultati positivi.

C’è bisogno di più volontariato, l’amministrazione penitenziaria da sola non ce la può fare, non ha gli strumenti perché le persone che devono occuparsi della nostra risocializzazione sono poche, e tutto è peggiorato dal sovraffollamento, che crea un forte disagio sia per chi uscirà dal carcere senza alcun percorso, che per la società che vedrà dei disadattati che a fine pena vengono messi in strada, spesso senza neppure una famiglia che li può accogliere.

Non dobbiamo dimenticare che tutti possiamo stare dalla parte di quelli definiti “i buoni”, come lo sono stato io per tantissimi anni prima di finire in carcere, ma ci può succedere improvvisamente di ritrovarci tra “i cattivi”. Certo ci sono persone che hanno scelto un certo stile di vita illegale e quindi mettono anche in conto il rischio carcere, ma oggi sempre di più vediamo persone rinchiuse qui dentro per reati che mai avrebbero pensato di commettere. Quello che riteniamo importante è che ci sia continuamente un confronto anche con quella parte della società che può fare paura, verso la quale si hanno molti pregiudizi, e che cadano le barriere tra chi è dentro e chi sta fuori.

 

 

 

 

Ero pieno di pregiudizi per chi commette un reato in famiglia

 

di Lorenzo Sciacca

 

Quando è successo che una madre ha ucciso le sue tre figlie, ancora prima che venisse scoperto chi era stato a commettere questo gesto, ho sentito politici invocare l’ergastolo e la pena di morte per chi tocca i bambini, poi si è capito che a farlo era stata proprio la madre, e si è capito anche quanto è assurdo ridurre tutto alla “quantità” di pena da infliggere. Come spesso accade di fronte ad alcuni reati che creano “allarme sociale”, l’unica cosa che sa fare la politica come forma di prevenzione è aggravare le condanne o inventarsi nuovi reati come il “femminicidio”. Mettiamo caso che veramente avessero introdotto la pena di morte per reati contro i bambini, una volta scoperto che era stata la madre a uccidere le figlie avrebbero avuto il coraggio di applicarla?

Se una madre è arrivata al punto di commettere un gesto così crudele, credo che questa donna si portasse dietro delle sofferenze, dei disagi insopportabili e nessuno si è accorto di quello che stava passando.

Faccio parte della Redazione di Ristretti Orizzonti e uno dei nostri progetti più importanti è quello che vede entrare migliaia di studenti ogni anno per conoscere il carcere. In questi incontri vengono portate alcune testimonianze di come si arriva a commettere un reato.

Prima di far parte della redazione ero pieno di pregiudizi per chi commette un reato in famiglia, poi sentendo le storie in tutta la loro complessità tutte quelle certezze che avevo sono crollate. Inizio a comprendere le difficoltà che ci sono, i problemi che si protraggono per anni e l’incapacità di ammettere di non farcela da soli. Sono storie complicate che non possono essere limitate a un confronto solo giudiziario, ci vuole anche un confronto che possa permettere di comprendere che cosa ha portato a fare un simile gesto.

A volte non ci accorgiamo che chi ci sta vicino ha bisogno di aiuto e che solo per una questione di orgoglio non lo chiede. Ci sono tante storie di sofferenza, di solitudine e anche storie che riguardano questo brutto periodo di crisi che il nostro Paese sta passando. Accendo il telegiornale e sento di padri di famiglia che si danno fuoco in piazza per disperazione, uomini che non riescono più ad affrontare le difficoltà quotidiane, donne anziane che si improvvisano ladre per pagarsi i medicinali, è sconcertante tutto questo.

Io sono un detenuto, ho fatto delle scelte di vita che oggi metto in discussione per provare a recuperare qualcosa, ma dietro a questi reati, sicuramente efferati e crudeli, ma causati da disagi e sofferenze reali, cosa fa la società? Cosa fa la politica per prevenirli? La prevenzione non si fa pensando alla pena di morte o aumentando le pene, la prevenzione si fa cercando di capire le motivazioni che hanno spinto a commettere un gesto così.