Mandateci le vostre domande, vi risponderanno i “Murati vivi”

 

All’interno del nostro sito abbiamo creato uno spazio intitolato “Murati vivi” dedicato agli ergastolani ostativi. Si tratta di persone condannate per reati commessi in ambito di criminalità organizzata, che ora si trovano detenuti e sotto vari regimi di alta sorveglianza, e pertanto esclusi dalle misure alternative. Nelle pagine di Ristretti abbiamo sempre dato spazio alle loro storie perché sono quelli considerati “non rieducabili”, e quindi persone da buttare via; e abbiamo dato spazio anche ai loro famigliari perché, avendo un loro caro “buttato via”, sono anch’essi vittime di una sofferenza ingiustificata. “Murati vivi” è uno spazio che serve anche per creare un canale di comunicazione tra i condannati a vita e la società. Da qui era nata l’idea di invitare la società civile a fare delle domande, e le prime domande sono arrivate. La prima a fare le domande è stata Suor Marta, dal Monastero di Clausura di Santa Chiara, Lagrimone. Un lungo elenco di domande piuttosto “severe” è giunta anche dalla redazione del “Messaggero di Sant’Antonio”. La cosa ha incuriosito poi alcuni studenti universitari che hanno iniziato a raccogliere domande tra i loro amici. Il suo contributo l’ha dato anche la psicologa del carcere di Padova, che ha inviato le sue domande. Di fronte ad un’occasione così ricca di stimoli, alcuni ergastolani ostativi hanno già risposto.

Abbiamo pensato quindi di dedicare a questa corrispondenza uno spazio del nostro sito intitolato “Gli uomini ombra rispondono”, e continueremo a mettere a disposizione dei nostri lettori tutte le domande che ci arriveranno, e tutte le risposte che raccoglieremo. Anche in questo caso, la nostra speranza è che si crei un tavolo di confronto utile a produrre informazione e conoscenza.

 

la Redazione

 

La pena dell’ergastolo ostativo, ovvero una morte al rallentatore

Servirebbe invece uno Stato che non distrugge, che non isola definitivamente il diverso, il colpevole, l’asociale, ma lo reintegra inserendolo recuperato nella società

 

a cura della Redazione

 

La redazione del “Messaggero di Sant’Antonio” ha inviato le sue domande agli ergastolani ostativi, domande severe, taglienti. In tanti hanno risposto, con uno sforzo di sincerità particolarmente significativo, proprio per l’asprezza delle domande. Noi abbiamo scelto di pubblicare le risposte di Giuseppe Minardi, detenuto a Sulmona, e Giovanni Prinari, detenuto a Carinola

 

Voi che non avete avuto misericordia ora chiedete misericordia, in nome di che cosa?

Giuseppe Minardi: È vero. Non ho avuto misericordia per le vittime dei miei crimini. Sono stato un ladro, un rapinatore e anche un assassino e, per tutto quello che ho commesso, mi sarei meritato una condanna a morte immediata tramite la sedia elettrica o una iniezione letale o impiccagione o, perché no, con un colpo di rivoltella alla nuca. Invece sono stato condannato alla pena dell’ergastolo ostativo, ovvero ad una morte al rallentatore, che per me è più brutale e ancor più ignobile. Oggi chiedo misericordia in nome di un cuore pentito.

Giovanni Prinari: Non credo che lottare per ripristinare un principio di civiltà giuridica sancito dall’attuale Art. 27 della nostra Costituzione e ribadito dai patti internazionali, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dai patti dei diritti universali, chiedendo l’abolizione dell’ergastolo in quanto pena inumana perché perpetua e, quindi, contraria a quel trattamento rieducativo di inclusione sociale, equivale a chiedere misericordia. Chiedere misericordia per le proprie colpe è un atto privato e intimo tra la propria coscienza e Dio, che mal si concilia con la giustizia terrena, perché la giustizia terrena deve essere severa nel punire ma umana nella sua punizione, affinché una persona possa avere una pena che abbia un inizio e una fine.

 

Per chi uccide un uomo, chi è l’uomo?

Giuseppe Minardi: Quando premevo il grilletto della pistola, quell’uomo davanti a me doveva morire. La sua morte era la mia salvezza perché in guerra tra clan rivali ognuno finisce sotto i colpi di un’arma da fuoco. Avevo 16 anni allorché, in pochi mesi, scampai a ben due agguati. Se potessi tornare indietro non rifarei ciò che ho fatto. Non perché ho già trascorso metà della mia esistenza dietro le sbarre. Non per questo. Bensì perché, ora, sono consapevole della gravità di quei crimini. Quando i miei cari vengono a trovarmi, quando con caloroso abbraccio mi stringono, quando nei loro occhi brilla la gioia di rivedermi, allora il mio pensiero va a quell’uomo a cui ho tolto il di- ritto di vivere la sua vita, la vita che Dio gli aveva dato. Penso anche alla sua famiglia che non può più provare la gioia che, invece, prova la mia. Allora mi afferra un indicibile senso di frustrazione e impotenza perché indietro non posso più tornare.

Giovanni Prinari: Per chi uccide un uomo, l’uomo è la vittima. Nel senso che una persona che si macchia di un reato simile, nel momento in cui lo fa, perde la definizione di persona assumendo quella di bestia, perché perde quel lume di ragione di cui è dotato l’essere umano rispetto alle bestie.

 

Nel sentimento comune chi si macchia di un grave delitto dovrebbe stare dentro a vita. Voi che siete dentro a vita che cosa pensate?

Giuseppe Minardi: Penso che dal punto di vista punitivo-vendicativo, è un sentimento legittimo. Tuttavia, voglio dire a tutti che occorre distinguere tra ciò che è stato compiuto, “il reato”, che è a mo’ di foto scattata e invariabile, e la persona che l’ha commesso, il condannato che, proprio perché persona, cambia. Così, come avviene in un film attraverso un percorso di consapevolezza. L’idea base dell’Ordinamento Penitenziario, originata dalla Carta Costituzionale, è che l’uomo possa e debba cambiare e che si evolva migliorato. Questo è il concetto che, se attuato, produce una civilizzazione degna di uno Stato moderno e non più barbaro. Uno Stato che non distrugge, che non isola definitivamente il diverso, il colpevole, l’asociale, ma lo reintegra inserendolo recuperato nella società.

Giovanni Prinari: Far stare dentro a vita qualcuno che si è macchiato di un grave delitto è il sentimento “legittimo” non solo di chi ha subito una perdita, ma anche di quanti pensano che a loro non accadrà mai di trovarsi in una situazione simile. Eppure si assiste ad una serie di omicidi che nulla hanno a che fare con la delinquenza, dal momento che vittime sono le donne e assassini i mariti, conviventi, ecc., quindi persone lontane da contesti criminali che, però, hanno perso quell’attimo di lucidità ritrovandosi da onesti cittadini ad assassini. Questa è una cosa che dovrebbe far riflettere tutti coloro che desiderano il carcere a vita come forma di vendetta giusta.

 

In ogni delitto c’è un prima e un dopo: chi eri prima e chi sei adesso?

Giuseppe Minardi: Sono cresciuto in un contesto familiare, sociale e culturale dove l’illegalità era pane quotidiano. Sebbene la mia famiglia abbia cercato di tutelarmi, purtroppo, trovandomi senza buoni esempi da prendere a modello, ho cominciato a trasgredire... Ero da arrestare, da recuperare, da rieducare. Oggi sono sterilizzato dai contagi che mi avevano infettato rendendomi ladro, rapinatore e assassino… Oggi non temo più le suggestioni altrui. Oggi sento di essere libero anche di rifiutare certe imposizioni di fare, di commettere ... Oggi sono me stesso: una persona rinata.

Giovanni Prinari: Sono in carcere da 20 anni e prima di questa detenzione ci ero stato altre volte per delle truffe ad istituti di credito. Nel mio passato, però, ci sono anche anni in cui ho lavorato. Mi sono trovato coinvolto nel delitto pur non essendo un criminale incallito, né facendo parte di alcuna associazione mafiosa, ma essendo un uomo che ad un certo punto ha comunque perso la strada maestra andando oltre i piccoli reati e superando quel punto di non ritorno. Questi anni di detenzione scontati giustamente mi hanno riportato sulla strada maestra, restituendomi quella ragione smarrita e facendomi apprezzare il senso della giustizia, il rispetto della legge e delle regole, l’onestà della quale non avevo memoria. Chi sono adesso? Sicuramente un cittadino che ha scelto di vivere onestamente e che cercherà di non violare più le regole, grazie anche agli studi in giurisprudenza intrapresi.

 

Una vita felice e ricca di soddisfazioni è possibile anche dietro le sbarre?

Giuseppe Minardi: Quando mio figlio mi scrive che ha preso un bel voto a scuola, io sono felice e in cuor mio gioisco. Quando la mia ex moglie mi scrive che col suo nuovo compagno, pur nella parsimoniosa economia, vive serenamente e sta bene, io sono felice per loro perché amare significa desiderare il bene dell’altro. Quando gli altri stanno bene anch’io sto bene. Anche dietro le sbarre, dunque, possiamo essere felici. Ufficialmente ho solo il diploma di terza media. Tuttavia, da autodidatta, studio un po’ di tutto ma ho, più di ogni altra cosa, approfondito l’Ordinamento Penitenziario che mi consente di formulare istanze di ogni genere. Ecco, quando faccio un’istanza a favore di un compagno che non ha soldi per pagare l’avvocato e che tale istanza viene accolta, io provo una grandissima soddisfazione. Ma posso ottenere compiacimento anche di altro genere: ad esempio quando riesco a non litigare con un compagno o con un agente  perché ho saputo frenare i miei impulsi contando, come si suol dire, fino a dieci. Sono contentezze incredibili per uno come me, che di rapporti disciplinari ne ha collezionati come un filatelico colleziona francobolli.

Giovanni Prinari: Non esiste una vita felice dietro le sbarre. Può esistere la soddisfazione, quella sì, ma solo quando si è raggiunta la consapevolezza che il crimine o il male non paga e si ha la forza di voltare pagina abbandonando il passato deviante per un futuro esente da reati.

 

Quanto conta la solidarietà tra ergastolani?

Giuseppe Minardi: “Di una cosa sono certo”, diceva il dottor Albert Schweitzer, “i soli tra voi che saranno veramente felici sono coloro che avranno cercato e trovato il modo di servire gli altri”.

Ecco. La solidarietà, in tal senso, è il modo più corretto per servire gli altri. In carcere non mancano affatto le occasioni per essere solidali, bisogna solo non essere invadenti. C’è chi soffre per la perdita di una persona cara. In questo caso, le parole pur non riuscendo a frenare le loro lacrime, certamente gliele renderanno meno amare. C’è chi non ha altra possibilità di mangiare se non quello che passa il carrello, spesso solo brodaglia, lasciandolo a digiuno. Offrirgli un piatto di pastasciutta al pomodoro è un gesto assai gradito. C’è chi, nel tempo dell’ora d’aria, vorrebbe correre per sgranchirsi e liberare la mente dai pensieri spesso funesti, e non può perché non ha le scarpe adatte. Offrire, con discrezione, le proprie dicendogli: “sai... a me stanno un po’ piccole mentre a te vanno bene, prendile, io ne ho un altro paio. Che ne dici di correre insieme?”. Potrei elencare tanti altri esempi. Ad ogni modo la solidarietà conta molto sia per chi la riceve come per chi la fa. Io non ho molto da dare materialmente. Dò volentieri il mio “orecchio”: li ascolto e sorrido loro.

Giovanni Prinari: La solidarietà tra ergastolani dovrebbe contare tanto se solo ci fosse realmente. Esiste in generale la solidarietà in questi luoghi, però non tutti sono disposti a mettersi in gioco e lottare per un obiettivo comune, la prova sta nel fatto che per l’abolizione dell’ergastolo a lottare siamo solo una parte.

 

È opinione diffusa che solo il reo pentito meriti di essere reintegrato nella società. Ma qualora manchino i segni del pentimento, è giusta la scarcerazione?

Giuseppe Minardi: Una risposta immediata direbbe: “Logicamente no!” Tuttavia, io sostengo che la speranza di tornare liberi è indispensabile per non trasformare la pena in morte psicologica e sociale e fare in modo che la detenzione possa essere una forma adeguata per recuperare il condannato. Certamente, un reo non pentito, una volta scarcerato, potrebbe ricadere nella recidività. Tuttavia una persona che ha scontato 15, 20, 30 anni di carcere, seppure non dichiaratamente pentito, sicuramente non è più la stessa persona di quando ha commesso gli errori. Per questo, a mio parere, la possibilità di tornare a fare parte del consorzio sociale gliela si deve dare. Sono certo che gioverà a lui e pure alla società.

Giovanni Prinari: Riguardo al merito di essere reintegrato nella società, ritengo che questo esuli dal fatto se uno si sia pentito o meno. Il termine “pentito” è un termine ambiguo, ambivalente, equivoco, perché nulla ha a che fare con un percorso carcerario fatto di lunghi anni di detenzione che portano il reo ad una ponderata riflessione sulle proprie condotte antigiuridiche poste in essere, nonché sul male che realmente ha fatto ai singoli e alla collettività. Spesso chi si pente lo fa per utilitarismo, perché la legge permette di essere scarcerati senza pagare per le proprie colpe e facendole, magari, pagare ad altri anche ingiustamente (le cronache ne hanno dato ampia prova). Quindi, una persona merita di essere reinserita nella società solo a seguito di un percorso che induca gli operatori dell’area trattamentale (educatori, psicologi, assistenti sociali) a ritenere il reo idoneo.

 

Che cos’è il pentimento?

Giuseppe Minardi: Il pentimento, per me, ha inizio con il senso di colpa, cioè quella specie di malessere che avverto allorché mi sono comportato in modo differente da come avrei dovuto e potuto. Quindi sto male. Mi pento di quanto ho fatto ma soprattutto mi propongo di non ricaderci.

Giovanni Prinari: Per me il pentimento è un atto intimo tra la propria coscienza e Dio

 

Brucia più il delitto o la reclusione?

Giuseppe Minardi: Bruciano ambedue ma... Mi spiego: quando Dio chiamò Caino e gli chiese di suo fratello Abele, lui ammise d’averlo ucciso. Ma, allorché Dio gli inflisse la condanna dell’esilio, gli rispose che la punizione impostagli sovrastava la sua sopportazione. Caino aveva evidenziato la punizione e non il crimine. La sentenza divina lo preoccupava più del peccato mortale che aveva commesso. lo, e come me tanti altri, inizialmente pensavamo di più alla privazione della libertà, alle restrizioni del carcere, ma poi anche al crimine commesso e, quindi, sia al delitto che alla reclusione. Per quanto concerne la detenzione col passare del tempo ci si adatta. Per il delitto commesso, invece, occorre compiere un percorso critico attraverso un’analisi retrospettiva fino a raggiungere la consapevolezza della gravità di quanto compiuto e pervenire al pentimento. Allora si comincia ad avanzare verso il superamento e a non stare più male né per la reclusione né per il delitto, e vivere la condizione presente avendo chiara consapevolezza che il delitto è, in ogni sua forma, qualcosa di atroce ma che la grazia di Dio lo sorpassa. Si può giungere a questo stadio soltanto dopo avere seriamente e profondamente compreso la parabola del «figliol prodigo”: un padre che ama e attende ogni giorno che il figlio torni pentito per essere nuovamente accolto in famiglia e perdonato.

Giovanni Prinari: Indubbiamente brucia più il delitto della reclusione, perché per quanti anni si possano scontare per ciò che si è commesso, non ci sarà mai un sollievo della propria coscienza. Diceva Seneca: “Il delinquente ha spesso un altro tribunale che non fa mai grazia: la propria coscienza”.

 

Come si viene a patti con il rimorso?

Giuseppe Minardi: lo non ero mai sceso a patti con il rimorso. Convivevo con l’immenso dolore che si prova per il male commesso soffrendo moltissimo. Oggi, grazie alle lunghe ore di colloquio con la psicologa Antonucci e con il cappellano Padre Sante Inselvini, entrambi operatori al carcere di Sulmona, ho superato quel tipo di sofferenza dando spazio ad una nuova e più matura consapevolezza che mi permette di rivolgere lo sguardo al futuro con più ottimismo.

Giovanni Prinari: Non esiste un patto con il rimorso, ma solo una convivenza obbligata che ti pressa l’animo e il più delle volte ti soffoca.

 

Cosa significa per voi la parola “rassegnazione”?

Giuseppe Minardi: Rassegnazione, per me, significa adeguarsi alle situazioni anche dolorose.

Giovanni Prinari: Io non ho mai accettato il termine “rassegnazione”, probabilmente perché sono battagliero per natura e preferisco parlare di adattamento ad una situazione piuttosto che di rassegnazione. In fondo tutto il mondo è in continua trasformazione attraverso la mutazione delle cose e della storia. Quindi, anche questa situazione può essere temporanea e non definitiva e con il tempo trasformarsi.

 

Come pensate di poter emendare il male inflitto?

Giuseppe Minardi: Quando si prende coscienza delle proprie azioni negative, quando soprattutto ci si pente d’averle commesse, bisogna proporsi di non commetterle più. lo non posso ridare la vita a chi l’ho tolta, ma so che non la toglierò più a nessuno.

Giovanni Prinari: Non ritengo possa esistere un quantum di pena giusta per emendare il male fatto. Credo invece che esistano dei periodi nella vita di ogni persona durante i quali ci si può smarrire, l’importante è ritrovare la via giusta e con il tempo e la consapevolezza, non errare più un giorno rientrato nella società.

 

Quali sono le cose che vi mancano di più della vostra vita prima della prigione?

Giuseppe Minardi: Sinceramente non so cosa mi manca di quando ero libero. So, con sicurezza, che non mi manca nulla della vita che conducevo. Ciò che realmente mi manca ora e che desidero fortemente è: una vita onesta, una quotidianità semplice, una famiglia normale, fare il genitore, essere un buon padre e una brava persona.

Giovanni Prinari: Naturalmente quello che più mi manca della vita prima del carcere sono le persone che amo. Avevo una moglie che non ho più. Ho due figli che vedo appena una volta all’anno per via della lontananza. Ho due nipotini che vorrei poter vedere crescere, ed ho mia madre che ha un’età e che spero possa riuscire a vedermi a casa prima che il Signore la chiami a se.

 

È importante mantenere un collegamento con il mondo esterno?

Giuseppe Minardi: Fra noi detenuti difficilmente si parla dei crimini commessi. Ci si dilunga piuttosto su richieste pratiche da inviare alla Direzione del carcere, oppure si discute dei processi o di quanto è stato incompetente il proprio avvocato. Quindi lamentele e piccole rivendicazioni, seppure spesso legittime. Avere un contatto con il mondo esterno è, pertanto, molto importante perché ci permette di andare oltre le abituali argomentazioni. Per quanto mi riguarda, rispondere a queste domande mi solleva interiormente dando vita ai sentimenti e alle sensazioni che da molto tempo soffocavo dentro di me.

Manifestare apertamente il mio pentimento mi stimola ad essere ancor più guardingo per non sbagliare più. Inoltre, parlando a cuore aperto, spero anche di far riflettere che pure quelli che si sono macchiati di gravi reati sono esseri umani, sono anch’essi figli di Dio come tutti e non bisogna abbandonarli a morire in carcere.

Giovanni Prinari: È importantissimo mantenere le relazioni con il mondo esterno e soprattutto con la famiglia. Il carcere, purtroppo, da questo punto di vista ti isola inaridendoti l’anima e sgretolando le relazioni affettive, perché ti taglia fuori dalla vita di chi è libero.

 

Cosa può fare chi vive fuori dal carcere per creare un contatto con voi?

Giuseppe Minardi: L’articolo 17 dell’Ordinamento penitenziario prevede la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa: “Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.

Giovanni Prinari: Chi vive fuori dal carcere, per creare un contatto con noi, può farlo scrivendo personalmente alla persona detenuta, oppure se proprio ci tiene a conoscerla di persona, può fargli avere le generalità affinché possa chiedere un colloquio con terza persona.

 

 

Io non mi arrenderò nemmeno dopo morto

Nella situazione di oggi il mio cuore non può più rigenerarsi e nemmeno può continuare a consumarsi, l’hanno privato dell’alimento fondamentale, che era la speranza

 

di Mario Trudu, dal carcere di Spoleto

 

Mario Trudu è un pastore sardo condannato all’ergastolo e, esclusi i dieci mesi di latitanza tra ’86 e l’87, vive in carcere da 33 anni.

 

Risposte alle domande di Edoardo Lupi, 24 anni, laureato in Lettere classiche e storia antica

 

Sareste a favore della pena di morte?

Potrei chiedermi, oppure urlare: come può, un essere umano, essere collocato fra quelli intelligenti e ragionevoli, se è a favore della pena di morte? (cosi facendo si collocherebbe al pari di chi per un motivo o per un altro commette gravi reati) Sicuramente dentro quella persona sono morti tutti quei sentimenti, quelle emozioni che rendono l’essere umano amabile e rispettato (sono come dei barattoli di vetro vuoti, lisci e fragili), potrei pensare che nella vita l’unica loro soddisfazione sarebbe fare il boia, in riunioni fra amici e parenti potranno anche affermare che loro amano il mondo, la famiglia, i figli gli amici, non credeteci, non potrà mai essere, dentro il loro cuore l’amore vero non esiste è morto, ecco, io potrei dire questo, forse sbagliando tutto, come posso io dare questi giudizi su altre persone? Non riescono a dare una risposta vera coloro che sono degli studiosi in questo campo, figuriamoci io, non sono tanto ingenuo da credere di avere la risposta giusta su certi fenomeni che investono molti popoli.

Voi direte: ma ci sono popoli interi a favore della pena di morte, possono mai essere tutti in errore? E questo è ciò che mi spaventa di più, ma questo non vuol dire che siano nel giusto, io penso che alcuni di loro sono dei popoli senza una cultura vera, non sono ancora riusciti a crearsene una tutta loro, vivono di scampoli di culture di altri popoli, magari sono stati dominati per tanto tempo da popoli rozzi, prepotenti, ignoranti e sanguinari, questo è qualcosa di spaventoso, di orribile. Pensiamo all’America, ai popoli che l’hanno conquistata, distruggendo la civiltà esistente in quell’immenso continente (…) Questi popoli “conquistatori” nella loro patria sono riusciti a togliersi di dosso l’odore del patibolo, ma per i loro discendenti rimasti in America chissà quanto ci vorrà ancora per liberarsi del tutto la coscienza, e speriamo che abbiano una coscienza, o rimarranno per sempre quello che sono, un popolo che sul patibolo decide, che esegue, la morte dei propri figli. Anche se ci vorrà un po’ di tempo, io credo e mi auguro che l’America riesca a rafforzare la sua civiltà, ripudiando la pena di morte (…)

Poi ci sono tanti altri paesi in cui esiste la pena di morte, ma sono quasi tutti dominati da buie dittature, non è il volere di quei popoli a tenere in piedi il patibolo, ma la paura del tiranno. lo anche se povero e ignorante sono lontano moltissimi secoli dal giustificare la pena di morte. Chiedo scusa al lettore se nel rispondere alla domanda sono uscito un po’ fuori strada, ma il mio modesto modo di vedere le cose trova negli argomenti trattati molti punti di congiunzione fra di loro, se qualcuno vuole contestare quanto detto anche in modo brusco può farlo, non sono uno che si offende, magari dopo aver letto le vostre risposte potrei accorgermi di essere su una strada completamente sbagliata.

E dire che l’essere umano è nato sotto il segno della pace e della libertà (siamo nati tutti senza nessuna proprietà senza odio, tutte sporche invenzioni dell’uomo), ma noi uomini per il nostro tornaconto creiamo ad arte enormi confusioni per poi trasformarle in sanguinose guerre, e ancora, ci sono quelli che imprigionano privandoli della libertà altri uomini, magari per scopi poco nobili.

(riguardo alle confusioni e guerre ricordiamoci dell’esserino piccolo - piccolo di Giorge Bush, ma forse è meglio dimenticarlo, W Obama l’unico vero americano che cerca di spingere il paese nella giusta direzione, uno che non vede più la guerra come risoluzione di tutti i mali).

 

Credete nell’amore?

Al pari di quanto tengo alla vita credo nell’amore, se credessi solo nella vita senza credere nell’amore sarei un uomo a metà, anche se forse in questo tipo di società conto meno della metà, conto zero, ma nessuno mai come si è impossessato della mia libertà potrà usurpare, stravolgere i miei pensieri.

 

Perché siete andati contro la legge?

Risponderò a ciò che mi viene chiesto, perché nessuna domanda può spaventare la verità, anche se avrei preferito rispondere alla domanda “chi vi ha spinto ad agire fuori dalla legge?” lo sono consapevole e me ne duole di aver commesso un terribile reato, ho preso quella decisione tormentato dall’odio e dalla vendetta, certo questo non giustifica la mia reazione e le sue terribili conseguenze.

 

Secondo voi è utile come pena deterrente l’ergastolo ostativo?

In nessun paese al mondo si sono visti a ribasso il numero degli omicidi con la pena di morte, e l’ostatività va anche oltre il peggio del peggio, è oltre la stessa morte, e vi dico perché. Altre volte ho scritto che la pena di morte ha bisogno di un attimo di coraggio, l’attimo di intravedere il proprio carnefice pagato dallo stato, e poi più nulla, è tutto finito, mentre la pena dell’ergastolo ostativo ha bisogno di coraggio quanto dura l’esistenza del condannato. L’avere tolto la speranza per sempre a un uomo non potrà mai servire da deterrente, ma sarà sempre e solo una vergognosa rivalsa dello “stato” agli occhi degli altri popoli.

 

Risposte alle domande di Serena, 24 anni, studentessa dell’Università di Padova

 

Come pensate alle vostre vittime?

Proverò a spiegare il motivo che mi ha spinto a non cercare mai un contatto con le persone da me gravemente offese; essendo consapevole del danno che ho arrecato loro, non me la sono sentita di rinnovare l’immenso dolore nel sentire nuovamente pronunciare il mio nome, sarei stato troppo crudele.

Io credo di essere stato sempre una persona coraggiosa, ma non credo di avere tanto coraggio da avere la faccia tosta di presentarmi a loro chiedendo o offrendo qualcosa, io a loro non posso chiedere niente, basta il sacrificio enorme che ho imposto loro, non posso dimenticarli. Ma loro, anche se so che è impossibile, è meglio se quest’uomo lo dimenticano. Io sono la causa che ha distrutto la loro vita, ma il loro comportamento tenuto a processo, che è stato sempre composto e dignitoso, e su giornali e televisioni, dove non hanno sfogato il loro dolore sulla mia persona, questo fa di loro persone di grande umanità, un’umanità usata nei miei confronti che non credo di meritare, quindi il rispetto mio nei loro confronti non mancherà mai. Questo mi spinge a non avvicinarmi a loro. Nell’ultimo lustro e più, mi è stata tolta anche quel poco di speranza che mi era rimasta, pensavo che un giorno, non saprei quando, anch’io sarei tornato in libertà, facevo affidamento su quella speranza, il cuore si consumava col passare degli anni, ma si consumava con serenità. Nella situazione di oggi il mio cuore non può più rigenerarsi e nemmeno può continuare a consumarsi, l’hanno privato dell’alimento fondamentale, che era la speranza, hanno spento l’ultimo lumicino e sarà cosi per l’eternità, un’eternità disumana e crudele, ma questo non vuol dire che mi arrenderò, continuerò a torturare coloro che mi hanno rovinato, scrivendo la verità, solo in un tempo molto lontano permetterò a me stesso di crepare in pace.

 

Perché lo stato dovrebbe tirarvi fuori?

Affinché gli altri stati possano vedere l’Italia come un paese normale, civile, che fa rispettare le leggi nazionali e internazionali, sia in fase di giudizio, ma anche nella fase di espiazione pena, solo cosi potrà chiamarsi democratico, mentre oggi questo stato presieduto da un parlamento con al suo interno molti ladri pratica la vendetta, e per questo in carcere ci sono anche quelli come noi che entrano, ma potranno uscire solo da morti.

 

Che pena alternativa proponete?

Non propongo niente, tutto ciò che potrei proporre per me, è tutto quanto scaduto, è oltrepassato da vari lustri, trovandomi in carcere praticamente quasi ininterrottamente dal maggio 1979, non credo di essere più in debito con nessuno che ancora ostinatamente mi tiene dentro, le uniche persone con cui sono in debito sono la famiglia dell’uomo che sequestrai, ma è un debito che non possono farmi pagare allungandomi la galera a dismisura, è un debito fra me e le mie riflessioni.

 

Come considerate il vostro reato a distanza di anni?

È una pagina triste della mia vita e di altre famiglie che l’hanno subita senza colpe, potrei dire da dimenticare, ma so anche che è impossibile riuscirci sia per me e ancora di più per la parte lesa o per i miei familiari. Sono quelle cose che uno si porterà sempre appresso, è come una protuberanza, un arto che non si può staccare a piacimento e buttarlo via, fa parte di me, ma credo che sia anche un bene sentirselo addosso per non dimenticare, cosi uno riflette sugli errori commessi.

 

Risposte alle domande di Emanuela, 56 anni casalinga di Padova

 

Cosa vi spinge a vivere?

Credo che non esista essere umano che non ama la vita, anche gli sfortunati che se la tolgono, forse la amano quanto gli altri, o più degli altri, ma in quel momento ciò che produce la loro mente è talmente ingarbugliato che non riescono a districarlo, e li spinge in un vicolo cieco da non vedere via d’uscita, portandoli ad avere davanti ai loro occhi solo la morte. Io non mi arrenderò nemmeno dopo morto, stimo troppo la vita e la morte dovrà faticare parecchio per riuscire a tenermi con sé, si è dovuta arrendere già una volta con me, sono già sceso all’inferno, e sono tornato su, più vispo di prima.

 

Come trascorrete le vostre giornate?

Io ho sempre approfittato di ogni occasione che mi è stata offerta, ho frequentato le scuole superiori, qualsiasi tipo di corsi professionali che sono stati proposti, quando mi è stato offerto ho sempre accettato il lavoro, e ogni impegno da me preso è stato sempre portato a termine, non ho mai lasciato un lavoro a metà. Ho scritto la mia autobiografia “Decenni nel buco del Diavolo” 300 pagine in italiano e non essendo la mia lingua, l’ho voluto tradurre anche in lingua sarda, scrivo qualche poesia nella mia lingua madre, parecchie di queste sono state inserite alla fine dell’autobiografia in versione sarda, il sapere di appartenere al nobile e fiero popolo sardo mi rende ancora più forte e coraggioso. Avendo il computer in cella mi è data la possibilità di passare il mio tempo facendo lavori diversi, l’unica cosa che mi fa odiare un po’ il computer è il fatto che da quando sono entrato in suo possesso non mi ha dato più il tempo di leggere un libro, una cosa che mi piaceva tantissimo prima che possedessi questo aggeggio infernale, ma non posso farne a meno, è troppo utile e necessario. Poi ci sono le altre cose che comporta il carcere durante la giornata, sempre condizionate da chi lo gestisce, ma non ve le racconto perché potrebbero leggerle delle persone sensibili e correrebbero il rischio di diventare viola in un attimo, accontentatevi delle cose belle che vi ho detto, non pensate ad altro.

 

Pensate mai alla morte?

La penso sempre, ma sempre per contrastarla, nella mia vita non ricordo una sola volta di aver pensato alla morte in negativo, tranne quando (fingendo) ho chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Perugia che il mio ergastolo venisse tramutato in pena di morte (sapevo già che la legge non lo permetteva), era solo una provocazione. Vale la stessa cosa per quando ho chiesto l’Eutanasia Assistita alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Se un giorno, facendo tutti gli scongiuri possibili, sentirete o leggerete che è morto Mario Trudu dentro una cella non credeteci, Mario Trudu in quel caso è stato assassinato, forse detto cosi è tropo brutale diciamo che è stato aiutato a morire.

 

Come vi confrontate con le persone che vi vengono a trovare in carcere?

lo ho fatto colloquio sempre o almeno fino al 2011 soltanto con i miei familiari (tranne una volta negli anni 90 è venuto a trovarmi un mio caro amico e paesano Vincenzo, che ora non c’è più e questo mi addolora tantissimo), ed è stato sempre con il massimo dell’armonia, mai che ci sia stata qualche discussione, un qualcosa da alterare il nostro ottimo rapporto. Da Natale del 2011 ho detto ai miei che non venissero più a trovarmi, ho imposto loro questa cosa terribile e difficile da sopportare, dopo che li ho fatti girare per

33 anni e per sedici carceri diversi sparsi in tutta la penisola per venire a trovarmi, ora rifiuto le loro visite, detto cosi uno potrebbe pensare che tra me e la famiglia c’è qualche malinteso, che non andiamo più d’accordo, nessuno mai pensi questo, con i miei familiari abbiamo un rapporto bellissimo, ci vogliamo troppo bene per una cosa del genere, e so quanto soffrono per questo, ma sono deciso a non farli venire più almeno finché quei “signori” del ministero non si decideranno a trasferirmi in un carcere sardo, cosa che chiedo da otto anni e che rifiutano di concedermi. Negli ultimi mesi del 2012 ho fatto colloquio due volte con un carissimo amico Gabriele, ho conosciuto questa stupenda persona tramite corrispondenza, dopo un po’ di tempo mi chiese se poteva venire a trovarmi e come avrebbe potuto fare, cosi presentai alla Direzione del carcere richiesta per il suo ingresso in carcere come terza persona, perché anche a me sarebbe piaciuto conoscerlo, e ci fu accordato. In 33 anni di carcere ho incontrato tramite colloquio due carissime persone che non facevano parte del mio nucleo familiare, il resto è solo carcere e famiglia, questo nell’ambito dei colloqui, ma ho avuto la fortuna di incontrare tantissime altre persone straordinarie e generose che mi hanno sempre incoraggiato a essere forte, anche nei momenti più terribili, e sono i gruppi di persone che gestiscono i vari siti internet dove pubblico qualche mio scritto, sarò sempre grato verso queste persone e spero che mi perdonino se ogni tanto non mi faccio sentire anche per dire loro solo grazie, negli anni che ho frequentato l’Istituto d’Arte altra grande fortuna per me, ho conosciuto Professoresse e Professori persone meravigliose, che non potrò dimenticare mai, ecco questi sono gli unici tesori che posseggo un grande grazie a tutti loro.

 

Risposte alle domande di Marco, 24 anni, studente universitario di filologia

 

Per voi l’ergastolo ostativo è sbagliato per qualunque tipo di reato?

È mostruoso solo pensare che possano esistere tipi di reato per il quale può essere prevista la pena dell’ergastolo ostativo, dico questo perché l’ergastolo ostativo non è una pena che uno possa espiare, ogni pena da scontare ha un inizio e una fine, e fra queste c’è anche la pena di morte, arriva sempre il giorno dell’esecuzione, e si giunge cosi alla fine della pena da espiare, mentre per l’ergastolo ostativo non ci sarà mai un fine pena, è qualcosa di eterno, quindi è sbagliato dire che uno è condannato a scontare la pena dell’ergastolo ostativo, non potrà scontarla mai, il suo “fine pena mai” è cosa certa.

 

Pensate mai ad evadere?

I primi 15 anni di detenzione non ho fatto altro che pensare ad evadere, e ci sono stati tanti tentativi, nell’ultimo capitolo della mia autobiografia descrivo tutti i tentativi messi in atto. Dopo lunghi anni con quel chiodo fisso in testa, ho abbandonato l’impresa, non penso più a questa cosa già da molti anni, e oggi devo dire addio per sempre a quelle illusioni che nutrivo quando avevo parecchi anni di meno, ora l’unica strada che mi rimane aperta è riuscire a vivere sereno come un qualunque vecchio.

 

Cosa pensate dei parenti delle vittime?

Come ho già scritto rispondendo a una domanda precedente, io ammiro quelle persone che nonostante il dolore che ho arrecato loro sono state correttissime, anche il loro comportamento tenuto a processo è stato sempre composto e dignitoso, non ci sono stati mai articoli di giornali dove hanno sfogato il loro dolore sulla mia persona, questo fa di loro persone di grande umanità, che hanno usato anche nei miei confronti, e non credo di meritarla, quindi il rispetto mio nei loro confronti non mancherà mai.

 

Perché avete ucciso?

Dissi già che l’uomo può uccidere per una infinità di motivi, ma qualsiasi motivo l’abbia spinto a farlo non sarà mai giusto, uno può tentare di giustificare il male fatto in mille modi, ma non potrà mai reggere il peso di un’azione cosi dolorosamente triste. lo in un momento di rabbia e di tremendo odio (troppo lungo da spiegare e rimando come sempre alla mia autobiografia) con altri complici abbiamo messo in atto un sequestro di persona a scopo di estorsione, durante la gestione di questa maledetta impresa successe un conflitto a fuoco, il sequestrato ferito, dopo 11 giorni morirà in ospedale, io fui ricoverato insieme a lui ferito da 7 proiettili, e ancora oggi sconto l’azione scaturita da quella tremenda rabbia, comunque è stata una terribile disgrazia, non per giustificarmi, non ci può essere giustificazione a questo, ma la sua morte è stato un incidente, certo questo non diminuisce il dolore della famiglia del sequestrato.