Donne Dentro

 

I tempi eterni dei processi

Una vita “in sospeso”

La “libertà” provvisoria, sopraggiunta per scadenza dei termini della custodia

cautelare, dovuta alle lentezze della giustizia, è quasi peggio della galera

 

intervista a cura di Paola Marchetti

 

Cristina l’ho conosciuta in carcere alla Giudecca, ora io ho finito la pena e l’ho ritrovata fuori, ma la sua è una condizione diversa, una specie di “limbo” dovuto a una scarcerazione per scadenza termini. Ne ho palato con lei per capire quanto sia difficile sopravvivere nel nostro Paese tra le burocrazie, le lentezze, le incongruenze della giustizia.

 

Cominciamo dalla tua situazione giuridica.

Sono stata a lungo in custodia cautelare, ora sono in sospensione pena per scadenza termini. Mi aspetta il processo d’appello e, se viene confermata la condanna di primo grado, e non mi danno la misura alternativa, torno in carcere. Il processo d’appello riguarda un reato del 2005.

Dall’appello poi era andato in Cassazione, e poiché non avevo più alcuna notizia, ho scritto una lettera alla Corte di Cassazione, anche perché, non essendo “definitiva” fino alla sentenza in Cassazione, e quindi risultando ricorrente, non potevo usufruire delle misure alternative. In questa lettera chiedevo di poter muovere il mio procedimento proprio per i motivi che ho appena detto. Dopo un paio di mesi dalla mia lettera è stata fissata a marzo del 2008 l’udienza in Cassazione. Dalla Cassazione il procedimento è stato rimandato alla Corte d’Appello per come erano state condotte le indagini. L’udienza d’appello è stata spostate altre tre volte fino a che i termini della custodia cautelare sono scaduti. Dopo nove mesi è arrivata la sorpresa: scarcerata!

 

Come ci si sente in questa condizione di incertezza, puoi progettare qualcosa o ti senti in stand by con una “Spada di Damocle” sulla testa?

Avrei preferito scontare tutto. Almeno avrei finito la mia condanna sapendo di essere completamente libera. Invece questa è stata una brutta sorpresa. Prima di tutto devi subito mettere le mani avanti mantenendo il senso della realtà: non è detto che se anche io trovassi un domicilio e un lavoro, il tribunale mi faccia rimanere fuori con una misura alternativa. Non sta scritto da nessuna parte che il tribunale sia obbligato a concedertela, anzi! Quindi il lavoro che si deve fare è di crearsi del “terreno fertile” attorno, consapevoli però che tutto quello che si sta facendo potrebbe essere non solo inutile ma anche controproducente: qual è il datore di lavoro che è disposto a assumerti se tu ti presenti dicendo “Ho bisogno di un lavoro ma non so se potrò venire a svolgerlo e per quanto tempo”? Non posso assolutamente pensare di fare progetti non dico a lungo termine, ma neppure a medio termine.

Meno male che la cooperativa per cui ho lavorato dentro mi sta aiutando, altrimenti non avrei saputo dove sbattere la testa. Probabilmente mi sarei talmente abbattuta che... certo, anche mia madre poteva trovarmi lavoro con la cooperativa dove lavora lei a Trieste, ma non poteva certo dire loro in quale situazione ero!

 

So che sei andata a fare un colloquio in un posto dove sarebbero disposti ad assumerti a tempo indeterminato, un posto di lavoro serio, da un imprenditore privato a conoscenza dei tuoi trascorsi. Ma come fai a chiedere lavoro non sapendo se potrai andarci davvero, a lavorare?

Non è per niente facile. Infatti quando ho spiegato la mia situazione puoi immaginare cosa mi è stato risposto. È chiaro che non è possibile per un imprenditore assumermi sapendo che magari a febbraio o ad aprile da un giorno all’altro non mi presento più perché ho dovuto rientrare in carcere. L’unica fortuna è che questo imprenditore ha esperienza con questo tipo di problemi: ha una sensibilità sociale per cui ha impiegato più di una detenuta in misura alternativa, e quindi ho potuto essere molto chiara e onesta. Credo che in nessun altro posto potrei andare a chiedere lavoro dicendo che forse però non ci andrò proprio, a lavorare da loro!

 

Per assurdo, in una situazione del genere, un detenuto che volesse venir fuori da una situazione di illegalità è costretto invece a rimanerci dentro?

In un certo senso sì. Limitatamente. Da dicembre, mese in cui sono stata scarcerata, a marzo, mese in cui potrei rientrare in carcere – l’appello è il 16 febbraio – come dovrei sopravvivere? Naturalmente io sono stata tra i pochi fortunati che in carcere avevo un lavoro per cui qualche euro – pochi! – lo avevo da parte. Ma sono già finiti! In queste condizioni si finisce quasi sempre per trovare un lavoretto in nero che consenta di arrivare al processo e vedere che succede.

Il fatto è che una casa non la puoi avere – non hai soldi a sufficienza – e devi vivere della carità di qualche struttura religiosa, visto che comunque non si riesce a trovare aiuti dai servizi sociali.

 

Hai parlato di lavoro nero, che è ovviamente illegale. Mi pare di capire che le lentezze della giustizia rischiano di causare problemi di rispetto della legalità.

La giustizia così com’è non funziona, e a volte finisce per indurre a comportamenti illegali. Perché mi arrivassero le notifiche delle sentenze definitive ho dovuto scrivere decine di lettere e alla fine sono riusciti ugualmente a far scadere i termini della custodia cautelare, malgrado avessero già fissato la data del processo d’appello. Io avrei preferito continuare a scontare la mia pena, anche perché quando mi confermeranno in appello la condanna di primo grado dovrò rientrare in carcere. Questo perché ho la recidiva reiterata e non posso attendere a piede libero la Camera di Consiglio per ottenere l’affidamento, che richiederò appena la sentenza sarà definitiva. Questo uscire e rientrare, sapendo a priori di doverlo fare, mi consuma, e questi tre mesi in cui ho riassaporato la libertà mi renderanno la carcerazione ancora più dura. Lo strano è che già una volta mi era capitata una cosa simile, ma il Tribunale non si era accorto della recidiva e così avevo atteso la Camera di Consiglio per l’affidamento (mi mancavano 5 mesi al fine pena!) a piede libero. Certo che è triste che la legge abbia queste incertezze: uno non sa mai cosa si deve aspettare!

È brutto dire che avrei preferito stare in carcere. È chiaro che quando mi hanno scarcerato ne sono stata felice, ma è stato un momento. Poi ho riflettuto razionalmente sulla mia situazione e quello che mi aspettava, e tutta la felicità della scarcerazione si è dissolta. Se fossi stata dentro, questi tre mesi li avrei scontati e invece me li ritroverò dopo...

 

Come ci si sente da un punto di vista emotivo? Tu non sei né una persona libera né detenuta, questa “sospensione” riesci ad esprimerla?

Per me non è facile esprimere emozioni. Sicuramente provo una grande delusione, ma per fortuna non mi sento sola, non sono da sola quindi ho appoggio, solidarietà, qualcuno con cui sfogarmi. Ma se fossi in un’altra condizione – condizione in cui molti si trovano – di abbandono non so come avrei reagito. Meno male che un po’ di carattere mi è rimasto, anche se il tempo passa, io divento sempre più vecchia e quindi diventa sempre più difficile andare avanti.

 

Mi pare di capire che il fatto di aver costruito una “rete” di conoscenze attraverso il contatto, dentro in carcere, con il mondo esterno – volontari, cooperative, insegnanti – ti ha permesso di rimanere “in piedi”. Questo dimostra, credo, l’importanza di avere un carcere aperto alla società civile e non chiuso in se stesso.

Sono assolutamente convinta che il carcere debba essere “aperto”, anche per il fatto che non c’è qui da noi uno Stato che si prende carico davvero delle persone che escono dal carcere. 

Inoltre il carcere “aperto” ti permette di non perdere del tutto il senso della realtà attraverso il confronto con le persone che vengono dal “mondo esterno”.

 

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