Sos Immigrati

 

Percorsi di rientro nei paesi d’origine

Ri-prendere i contatti: dire, dare… partire

Dalla ricerca “Stranieri e droghe”, promossa dal Dipartimento

dell’Amministrazione Penitenziaria, è nata una proposta operativa

della Casa di reclusione e dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna

di Padova, rivolta ai detenuti stranieri anche con problemi di tossicodipendenza

 

di Lorena Orazi

responsabile dell’area pedagogica

della Casa di reclusione di Padova

 

Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha commissionato alla Facoltà di psicologia dell’Università di Padova una ricerca sul tema “stranieri e droghe” in carcere, ricerca che è stata condotta in tutti gli istituti penitenziari e attuali Uffici Esecuzione Penale Esterna italiani attraverso la somministrazione e successiva elaborazione di questionari rivolti alle persone detenute italiane e straniere e agli operatori, sia istituzionali sia a persone del volontariato che a vario titolo svolgono la propria attività in carcere.

Nel 2005 a Roma sono stati presentati i risultati della ricerca ed è stato realizzato un percorso di formazione rivolto a Direttori d’Istituto, responsabili area pedagogica e area sicurezza, nonché assistenti sociali e medici. Da questi incontri, orientati a “coltivare” una modalità di lavoro “per progetti” all’interno delle matrici organizzative istituzionali, è nato il progetto della Casa di reclusione e Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Padova, dal titolo: “Ri-prendere i contatti: dire, fare… partire”. L’idea progettuale si muove all’interno del repertorio “trattamento” e prova a individuare strategie finalizzate alla elaborazione di modelli operativi capaci di prendere in carico il detenuto straniero anche con problemi di tossicodipendenza e offrirgli opportunità di trattamento consapevolmente accettate e condivise, che tengano conto delle prospettive realisticamente perseguibili dalla persona, ivi compreso il rientro nel paese di origine con forme di accompagnamento assistito.

Il trend crescente di presenze di immigrati extracomunitari negli istituti penitenziari si accompagna all’osservazione di due condizioni sempre più diffuse: la clandestinità e la dipendenza da droghe e/o alcol. La maggior parte delle persone recluse è destinataria di espulsione (amministrativa o giudiziaria) ma il tema dell’espulsione è spesso “rimosso” sia dagli interessati sia dagli operatori in quanto evento difficilmente ponderabile e perlopiù non desiderabile da parte di coloro che ne sono destinatari. Gli operatori, dal canto loro, pur in pendenza di espulsione, non possono attuare trattamenti discriminatori in quanto le opportunità previste dall’Ordinamento Penitenziario (sia interne sia esterne) sono accessibili alla generalità dei detenuti.

L’idea ambiziosa del progetto è di trasformare l’espulsione da “minaccia” a “opportunità trattamentale” per le persone detenute straniere, che vogliano aderire a un percorso di rimpatrio assistito che nasce “qui e ora” e si proietta verso “lì e dopo “.

 

La realizzazione del progetto “Ri-prendere i contatti: dire, fare… partire”

Il progetto si è realizzato in due fasi: costruzione del modello operativo e applicazione del modello operativo.

Nella prima fase (costruzione modello operativo) sono stati costituiti due gruppi di lavoro misti (operatori e detenuti stranieri) che hanno avuto il compito di costruire/definire un modello operativo congruente con l’obiettivo del progetto “Ri-prendere i contatti: dire, fare… partire”, ossia“strutturare un modello operativo che crei i presupposti per progettare un rimpatrio assistito nei confronti della persona detenuta condannata e con espulsione a fine pena”.

Il lavoro si è svolto in due gruppi composti ciascuno da sei detenuti e tre operatori, di cui un educatore e due agenti di Polizia penitenziaria, e gestiti da due conduttori esterni. Il modello operativo, frutto della sintesi elaborata a cura del gruppo di progetto, aveva come obiettivo “sviluppare le competenze scolastiche/professionali e relazionali adeguate alle caratteristiche socio-culturali della persona detenuta, spendibili nel paese di provenienza in termini occupazionali e/o di inserimento socio/lavorativo”.

Nella seconda fase (applicazione del modello operativo) la difficoltà maggiore è stata quella connessa alla individuazione dei detenuti cui proporre la “sperimentazione” del modello operativo definito nella prima fase.

Infatti il provvedimento di indulto (legge n. 241/2006) dell’agosto 2006 ha influito in maniera determinante sulla possibilità di individuare detenuti stranieri che rispondessero contemporaneamente ai criteri definiti nel progetto (due anni di fine pena, espulsione prevista in sentenza o determinata con provvedimento del Magistrato di Sorveglianza, origine maghrebina e albanese). Nonostante questa difficoltà è stato individuato un gruppo di potenziali “destinatari” ai quali, a partire da marzo 2007, è stato presentato il progetto ed è stata chiesta l’adesione. A questi ultimi sono stati somministrati, a inizio e fine percorso, dei questionari sulle competenze lavorative e relazionali. Le risposte alle domande dei questionari compilati sia dai detenuti sia dagli operatori, sono state analizzate secondo il metodo M.A.D.I.T. (metodologia dell’analisi dei dati informatizzati testuali), “metodologia che consente, attraverso il criterio di aderenza al testo, di individuare i repertori discorsivi intesi come modalità finite di costruzione della realtà, linguisticamente intese con valenza pragmatica, che raggruppano anche più enunciati (denominati “arcipelaghi di significato”), articolate in frasi concatenate e diffuse con valenza di asserzione di verità, volta a generare (costruire)/mantenere una coerenza narrativa”.

Gli incontri con i detenuti gestiti insieme dagli operatori dell’area pedagogica e dell’area sicurezza hanno affrontato le competenze relazionali individuali con role play e simulazioni concordate con il coordinatore esterno (es. colloquio di lavoro, situazione critica, etc.).

 

Valutazione del progetto

Le aree oggetto di valutazione del progetto sono state:

la matrice istituzionale, ossia l’impatto del progetto sugli operatori;

le persone detenute.

 

Sul versante degli operatori, l’analisi dei questionari ha messo in evidenza che inizialmente ognuno di essi esprimeva, rispetto all’obiettivo del progetto, delle opinioni personali (argomentazioni fondate su teorie personali) mentre successivamente il gruppo di operatori ha dimostrato di essere sempre più preciso rispetto all’obiettivo. In che modo? Attraverso la condivisione delle singole azioni che venivano realizzate e una precisa assunzione di responsabilità e divisione dei compiti (chi fa cosa).

Rispetto alle persone detenute si evidenzia come al tempo T1, rispetto a un’iniziale descrizione della realtà che definiva la persona in termini giustificatori, siano emersi arcipelaghi di significato quali quello “dell’imparare”, “del cambiamento”, dell’”apprendimento”, del “portare a termine” che in qualche modo sembrano delineare una posizione della persona detenuta rispetto al percorso del rimpatrio assistito in termini di possibilità di cambiamento e di assunzione di un ruolo attivo che tenga conto delle proprie capacità.

 

In altri termini la sperimentazione condotta ha messo in evidenza la possibilità di prendere in carico la persona detenuta straniera con espulsione a fine pena con l’obiettivo di attivare con la persona stessa un percorso trattamentale che sviluppi sia competenze scolastiche e professionali sia competenze relazionali ritenute utili per un suo reinserimento anche nel Paese di origine. In questa direzione sembrano auspicabili corsi/percorsi di approfondimento e perfezionamento della lingua araba e la ricerca di collegamenti con realtà dei Paesi di origine cui le persone interessate possano rivolgersi per un orientamento lavorativo. Infatti le persone che hanno partecipato agli incontri della fase di sperimentazione tendono a considerare come “desiderabili” e “possibili” quelle opportunità che le pratiche rieducative attuate propongono alla generalità dei detenuti, opportunità tutte orientate a percorsi di reinserimento nel territorio italiano. Se, in aggiunta ai canali di reinserimento esistenti in Italia, fosse possibile affiancare proposte e opportunità di proseguire i percorsi avviati anche nei Paesi di origine, allora diventerebbe “desiderabile” e “possibile” intraprendere dei veri e propri percorsi di rimpatrio assistito.

Il progetto condotto nella Casa di reclusione di Padova non aveva come obiettivo e non ha convinto le persone a chiedere di tornare nel proprio Paese di origine, ma ha provato a verificare con un piccolo gruppo di detenuti stranieri con espulsione a fine pena, la possibilità di un percorso segnato dalla consapevolezza di sperimentare un cambiamento che parte da se stessi e che comporta, come già detto, un progressivo abbandono delle “giustificazioni” verso l’assunzione di un ruolo attivo che tiene conto delle proprie capacità.

Stranieri anche nel loro paese

Diritto al futuro

È un diritto strano, questo, che rivendichiamo per tanti detenuti stranieri:

perché davvero non hanno più una identità, non sono accettati

come italiani, ma a casa loro vivrebbero da estranei

 

Espulsione: ne parliamo con gran facilità, ci sembra giusto e logico cacciare gli stranieri che hanno commesso reati, ma forse bisognerebbe avere il coraggio di fermarsi un attimo a pensare a cosa significa davvero essere sbattuti fuori dal paese, in cui si è immigrati da tanto tempo, con la prospettiva di tornare in un luogo, che magari ci è diventato del tutto estraneo. La nostra Costituzione, quando dice che la pena “deve tendere alla rieducazione”, intende dare alle persone che hanno commesso un reato un’altra possibilità. Allora, qualche considerazione sul fatto che gli stranieri siano tagliati fuori da questa prospettiva forse andrebbe fatta: perché ci sono stranieri che vivevano da anni in Italia, inseriti perfettamente, quando sono finiti in carcere, ce ne sono altri che hanno figli che non conoscono neppure il Paese d’origine delle loro famiglie, e ancora, ce ne sono che in carcere hanno fatto un percorso davvero positivo, avrebbero un lavoro e dove vivere, e invece niente, la legge è pressoché inesorabile. Con gli altri però, molto meno con noi italiani.

Vorrei anch’io avere un futuro in questo paese

 

di Davor Kovac

 

Sono un cittadino croato, e ho avuto “la fortuna” di poter lasciare il mio paese proprio nel brutto periodo in cui quasi tutto andava male e la gente si preparava per qualcosa che io non potevo neanche immaginare. Infatti, dopo pochi giorni, è scoppiata la guerra. Quando sono arrivato in Italia, grazie a mia sorella, che si era stabilita qui qualche anno prima, ho trovato un impiego in un bellissimo paesino sotto le Dolomiti. Lavorando in un albergo, con tanti sacrifici e una vita tutta di lavoro, sono riuscito ad avere il permesso di soggiorno. Anche se sono passati tanti anni, mi ricordo come fosse ieri di quel periodo, della sensazione di avere raggiunto un grande traguardo perché era una cosa importantissima per il mio futuro e perché volevo essere come tutti gli altri.

Ho lavorato per dieci anni di fila in perfetta regola, ma adesso, dopo aver commesso un reato, grave certo, mi ritrovo in carcere a scontare una condanna “esemplare”, perdendo tante cose tra le quali anche quel pezzo di carta tanto desiderato. Praticamente, uno che finisce in carcere avendo il permesso di soggiorno regolare, dopo aver scontato la condanna non ha nessuna possibilità di rinnovare questo documento. Addirittura, nel mio caso specifico, mi trovo con scritto in sentenza “espulsione a fine pena” e con il permesso di soggiorno non valido, quindi un giorno, dopo essermi fatto tutta la carcerazione, avrò sicuramente grossi problemi se nel frattempo non cambierà qualcosa.

Scoprire in carcere che il permesso non conta più niente, e non avere la possibilità di fare nulla, non è assolutamente una bella cosa. Mi sento privato della possibilità di un futuro, e a me, che sono venuto in Italia proprio per averne uno migliore, sembra una beffa. Penso che non sia giusto che uno che per anni ha lavorato sodo all’estero, e in perfetta regola, se fa un errore, per quanto pesante, venga “scaricato” dalle istituzioni, e mi sembra ancora meno giusto visto che si parla tanto di reinserimento, e di dare alle persone una seconda opportunità. Ora vivo sperando che possa cambiare qualcosa, non mi rimane altro che aspettare e… sognare.

Ritorno… dove?

 

di Maher Gdoura

 

Agli italiani sembra semplice dire: “Hai commesso un reato, non basta che paghi con il carcere, devi tornartene al tuo paese”. Certo, in patria abbiamo le nostre famiglie, casa nostra, ma non è per niente facile la prospettiva di tornare lì. La parola “ritorno” ad un emigrato suscita molta ansia, a volte lo fa proprio spaventare, soprattutto quando ha trascorso gran parte della sua vita in un Paese che ora non lo accetta più. Mi ricordo del mio arrivo in una città europea nel 1991: ero in grande disagio e per capire le abitudini, la mentalità, il modo di vivere, il linguaggio, il ritmo di quella città sono trascorsi mesi e mesi. Ma quando sei ancora un ragazzo, gli anni passano senza che tu te ne accorga. Dopo nove anni però la nostalgia dei miei era diventata davvero troppo forte, allora sono tornato nella mia patria. Credevo che sarei stato bene, a mio agio, felice di rivedere le persone care, e invece ho trovato tutto cambiato… dovevo imparare ogni cosa daccapo!!!

Poi ho riflettuto un po’ e ho capito che ero io ad essere cambiato, la mia testa ora ragiona metà europeo e metà tunisino. Certo era una grande gioia per me abbracciare i miei e il mio fratellino, vedere il resto della mia famiglia, camminare sulla mia terra, sentire il profumo mediterraneo mischiato a quello del gelsomino, passeggiando sulla sabbia dorata in compagnia di una ragazza bella e dolce. Ma il mio cuore non si metteva in pace, mi sentivo un estraneo, dovevo tornare in Europa, era lì la mia vita, ormai sono abituato a vivere da migrante. E così, sono partito un’altra volta e al mio arrivo in Europa però ho provato la stessa sensazione: ti manca sempre qualcosa, non stai bene né di qua, né di là…

Adesso mi domando sempre se ci sarà un capolinea per me, se riuscirò a fermarmi da qualche parte e a sentirmi a casa, ma mi fa soffrire l’idea che siano gli altri a dirmi che qui non posso stare, che non è sufficiente che mi sia fatto anni di galera, devo anche andarmene, tornare in un luogo in cui mi sentirei ancora più estraneo e senza identità.

 

 

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