Sani dentro

 

Diritto alla salute, diritto a un trattamento umano

Solo con la paura della malattia

In definitiva, quello che rivendico è il diritto ad essere trattato umanamente,

ad essere informato se sto male, ad avere una attenzione vera

da parte di chi dovrebbe occuparsi della mia salute

 

di Prince Maxwho Obayangbon

 

Recentemente, ho vissuto un’esperienza che voglio raccontare, perché credo che sia emblematica per capire cosa significa ammalarsi in carcere. Non voglio fare accuse gratuite, ma ho subito un trattamento ingiusto, e credo che ci sia stata davvero disattenzione nei miei confronti da parte del personale sanitario.

I detenuti devono sempre subire e tacere, specialmente quelli di colore relegati spesso all’ultimo posto della graduatoria delle persone che contano: e non credo di fare del vittimismo, ma lascio giudicare a chi leggerà questa storia. Perché io credo che tacere non sia giusto.

Così si è svolta la mia odissea: il compagno di cella che avevo avuto per più di un mese era gravemente ammalato già prima che arrivasse in questo istituto. A forza di lamentarsi, è riuscito ad andare dal dottore per farsi visitare. Per via della mia fiducia nei medici non immaginavo che non gli avrebbero diagnosticato subito una malattia che avrebbe potuto essere contagiosa. Assistevo quel ragazzo e lo aiutavo in tutte le maniere che potevo, devo dire forse ingenuamente dal momento che era anche un tossicodipendente dichiarato, e non sapevo nulla del suo reale stato di salute.

I sanitari lo riempivano tre volte al giorno con diversi farmaci per gestire la sua patologia, e tutto questo mi faceva perseverare nella mia fiducia di non correre nessun rischio.

Lui era debole, magrissimo, e per un esperto quelli avrebbero dovuto essere segnali molto allarmanti. Un giorno lo vidi vomitare sangue, così chiamai l’agente in servi­zio, che a sua volta chiamò l’infermeria. Seguì la visita medica e il ricovero in ospedale.

Dopo circa una settimana, provai ad informarmi sulla situazione del ragazzo, ma con esito negativo.

Chiesi di essere visitato dal dottore perché, sebbene non ci fosse alcuna fonte sicura, giravano voci di corridoio sulla gravità della sua patologia, cosa che faceva aumentare vertiginosamente la mia preoccupazione.

Il 26 novembre finalmente venni convocato dal dottore.

Giunto in infermeria chiesi notizie del mio compagno di cella. Mi venne consigliato di fare la domanda per parlare con il dirigente sanitario, l’unico in grado di darmi una risposta concreta. Questo soprattutto per una questione di privacy.

Mentre stavo uscendo dall’ufficio, mi chiamò l’agente, dicendomi di preparare le mie cose perché stavo per essere trasferito in un’altra sezione. Ho subito chiesto dove mi avrebbero mandato e il perché di questo trasloco. Mi rispose di non sapere niente.

Così sono cominciati quindici giorni da incubo. Solo per farmi giungere alla sezione dell’infermeria c’era, intorno a me, uno stato da top secret. Sentivo gli agenti parlare bisbigliando da un cancello all’altro, finché finalmente arrivai in quel reparto. Vi sono stato segregato senza sapere il perché, e a quel punto ho capito che ero in un bel guaio.

Tutto era inspiegabile, e io ero invaso da mille pensieri. In primo luogo avevo capito che si trattava sicuramente di una malattia infettiva. Anche se mi sembrava già troppo tardi, ho cominciato a pregare. Il pensiero andava soprattutto alla mia famiglia già sofferente. Essere contagiato da una malattia grave malgrado tutte le mie precauzioni sarebbe stato rovinoso anche per la mia famiglia e per tutta la mia situazione.

Era ovvio che mi preoccupassi tanto: nel colloquio settimanale i miei cari mi abbracciano e mi baciano, i bambini mi saltano addosso amorevolmente, non parliamo di mia moglie, che rappresenta tutto per la mia famiglia, soprattutto in una condizione così delicata. Mi chiedevo che notizia sarebbe stata per lei apprendere che avrei potuto averli contagiati benché non ne avessi colpa.

 

La mancanza di informazioni ti uccide più della malattia

 

Da quel giorno tutti si sono tenuti alla larga da me, anche gli agenti che erano le prime figure responsabili per ogni mia necessità quotidiana. Nessuno dell’area sanitaria veniva a spiegarmi alcunché. Il giorno successivo, dopo vari tentativi di chiedere agli agenti di farmi parlare con i medici, ho fatto domanda scritta per parlare con il dirigente sanitario, che il pomeriggio seguente è venuto a spiegarmi il motivo per il quale ero stato confinato lì. Si trattava di una misura preventiva perché al ragazzo che era stato in cella con me era stata riscontrata la tubercolosi.

È stato anche tirato in ballo, con poca conoscenza di come erano andate davvero le cose, il fatto che ,quando ero a Treviso, ero stato sottoposto a degli esami perché non stavo bene. A Treviso sono stato ricoverato in ospedale perché in un primo tempo si sospettava di un caso di tubercolosi, ma alla fine gli esiti furono tutti negativi. NESSUN VIRUS DI TUBERCOLOSI. Poi ho lavorato in cucina, con mansioni da cuoco fino al giorno in cui sono stato trasferito qui.

Ho chiesto quanto i miei fossero esposti ad un ipotetico rischio di contagio. Era l’informazione più importante per me in quella situazione. Il dirigente sanitario mi ha risposto di avere pazienza, assicurandomi che mi avrebbe fatto sapere “al più presto”.

Ho chiesto anche perché non ci fosse un controllo preventivo all’entrata dei detenuti in istituto, poiché davo per scontato che ciò avvenisse, ma dalla sua risposta ho avuto la sensazione che non si tratta di una pratica obbligatoria.

Siccome dovevo anche telefonare a casa, mi servivano informazioni sul quadro generale della mia situazione. Volevo, dovevo sapere come comportarmi in generale, e soprattutto con la mia famiglia. Allora ho cominciato a insistere con gli agenti perché mi facessero parlare con i medici che dovevano darmi le importanti informazioni che mi aveva promesso il dirigente sanitario. Il giorno successivo è arrivata una dottoressa, ma questa volta non mi hanno lasciato nemmeno uscire dalla cella. Lei se ne stava a due metri di distanza dalle sbarre, rispondendomi in modo sbrigativo solo con dei superficiali: “Sì, sì, sì,… ti farò sapere…”. Aveva fretta di andarsene.

Le mie domande non avevano avuto risposta alcuna. Ho tentato ancora ripetutamente e ostinatamente di parlare con i medici. È tornata la stessa dottoressa, ma la comunicazione è stata peggiore della prima volta. A questo punto non sapevo più cosa fare! Cercavo di ottenere qualche informazione e qualche consiglio professionale dagli infermieri, ma mi rispondevano tutti di non essere abbastanza competenti per aiutarmi, eccetto un’infermiera che vidi solo un paio di volte e mi diede più che altro un po’ di sostegno morale.

In quindici giorni sono andato ai passeggi solo per due ore e mezza. Alcuni agenti non mi aprivano nemmeno per farmi andare in doccia. Durante questo periodo ho dovuto gestire i rapporti con la mia famiglia affidandomi solamente al mio buon senso per non peggiorare ulteriormente la situazione.

Alla fine ho fatto domanda di parlare con uno psicologo: ero molto stressato ed esaurito mentalmente per tutto ciò che era accaduto e che ancora non vedeva il traguardo di una soluzione. A tutt’oggi sto aspettando.

In realtà, quel “al più presto” del dirigente sanitario ha significato avere una risposta dopo 15 giorni, il 10 dicembre 2007, quando è terminato il mio isolamento e mi sono stati comunicati gli esiti degli esami cui ero stato sottoposto, nonché la terapia di profilassi.

A proposito della cura non ho la competenza per dire se c’è stata qualche negligenza o qualche errore. Quello che mi sembra assurdo è che ci possa essere un rapporto più umano tra agenti (preparati all’uso della forza) e detenuti, che non tra personale sanitario (che dovrebbe avere una formazione umanitaria, sociale, di attenzione vera alla persona che sta male) e detenuti.

In definitiva, quello che rivendico è il diritto ad essere trattato umanamente, ad essere informato se sto male, ad avere una attenzione vera da parte di chi dovrebbe occuparsi della mia salute.

Una riforma che ancora non c’è

La salute in carcere : un diritto che aspetta di essere tutelato

Dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale: nella speranza che,

dopo dieci anni di attesa, questo significativo “cambio di gestione” della

medicina penitenziaria avvenga davvero, cominciamo a raccogliere piccole

testimonianze di un grande disagio, quello che vivono

i detenuti con la loro salute “in ostaggio” della galera

 

In questi ultimi mesi sembra stia per essere completata (usiamo una formula molto cauta, ancora non ci crediamo del tutto) una riforma, iniziata quasi dieci anni fa, che prevede il passaggio della gestione della sanità in carcere dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. Sperare nel completamento di questa riforma significa sperare che la salute delle persone detenute sia un diritto pienamente riconosciuto e tutelato. Eppure, le “piccole” testimonianze che riportiamo spiegano invece che il carcere è ancora un luogo in cui si sconta la pena con una serie infinita di pene aggiuntive: dalla difficoltà a curarsi un dente, al disagio di diventare “fumatori per forza”, allo stato di abbandono psicologico che porta le persone in galera a suicidarsi con percentuali molto più alte che nel mondo “libero”.

Ma questa riforma promuoverà finalmente un maggior coinvolgimento delle persone detenute, darà loro modo di riprendersi in mano la loro salute, riconoscerà loro il diritto a non perdere, insieme alla libertà, anche il diritto a non ammalarsi di carcere?

In carcere le persone sono più fragili,

serve più attenzione a chi sta male

 

di Maurizio Bertani

 

Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto cosi estremo. Nel “mondo libero” però ci sono più opportunità di recupero del proprio raziocinio, per il semplice fatto che qualunque sia la disgrazia che capita, le persone hanno almeno un forte ambiente sociale e famigliare che fa da scudo e protegge.

Io in carcere ci sto vivendo e anche se “a spezzoni” vi ho trascorso gli ultimi trent’anni, cosi ho avuto modo di vedere molte vite spegnersi dietro quel gesto irrazionale del suicidio. Ho visto ragazzi, ma anche adulti stremati nel fisico e nella mente per la gravità del reato commesso, ho visto gente prendere elevatissime condanne, e vivere in quel limbo di mancanza di raziocinio che spinge a gesti estremi, ho vissuto sulla mia pelle la realtà della morte di una persona cara e il fatto di non voler accettare che un padre sopravviva al proprio figlio. Più di una persona non è riuscita a “rientrare” da quella perdita totale di equilibrio e razionalità, qualcuna per fortuna ha poi ritrovato un minimo di desiderio di vivere.

Ma raramente ho visto le istituzioni delle carceri dove sono stato attivarsi per prendere in carico davvero le persone, attraverso psicologi e personale competente, e dare loro assistenza e sostegno, eppure non mi possono dire che non si sono accorti del loro star male. Perfino a me, semianalfabeta in materia di psicologia, spesso queste situazioni si sono presentate chiarissime. Io sono consapevole che in carcere le persone sono più fragili perché non hanno neppure la protezione della famiglia e degli amici, ma allo stesso tempo sono convinto che chi deve sorvegliare ha le sue responsabilità: la sorveglianza di persone private della libertà dovrebbe infatti prevedere un costante lavoro di recupero sociale e di salvaguardia della vita umana. Certo ci sono episodi che nessuno può realmente prevenire, ma ce ne sono altri, forse troppi, che si potevano evitare, e non credo che sia impossibile immaginare un’attenzione diversa per le persone detenute che manifestano un disagio particolare.

Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’ONU la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari.

Quando mi sono tolto un dente da solo

 

di Dritan Iberisha

 

Sono in carcere da anni e ho visto quasi ovunque, in giro per le galere, che il problema delle cure dentistiche è drammatico, e anche qui non mi ci è voluto molto per capire quanto lunghi sono i tempi d’attesa. Circa quattro mesi fa, al mio compagno di cella ha cominciato a far male un dente. Come da regolamento, si è prenotato per la visita medica dal dentista, ed è stato inserito in una lunga lista d’attesa: è così che funziona in carcere perché, nonostante siamo più di cinquecento detenuti, certo le ore di lavoro dei dentisti qui dentro non bastano.

Sono passati mesi e il mio compagno di cella ancora nessuno lo aveva chiamato per visitarlo, e il dente gli faceva sempre più male. Prendeva medicine ogni giorno per il dolore. Per me invece il problema è iniziato una settimana fa, all’improvviso ha cominciato anche a me a far male un dente. Non sapevo cosa fare, il dolore non mi dava tregua e soluzioni non ne vedevo. Il dente si muoveva un po’, e allora ho deciso di risolvere il problema da solo, ho preso un filo, l’ho legato bene al dente e poi ho cominciato a tirarlo giù. Il dolore era insopportabile. All’inizio ho pensato di rinunciare, e nel frattempo il mio compagno di cella mi ha detto di lasciar stare quella pazzia perché prima o poi mi avrebbero chiamato per una visita. Prima o poi? Questa cosa mi ha spaventato, ho immaginato mesi e mesi di attesa. Allora ho chiuso gli occhi, ho preso coraggio e ho tirato con tutta la forza che avevo senza pensare più al dolore. Il dente è venuto via senza problemi, senza nessuna emorragia.

Adesso il mio compagno di cella, dopo tante sofferenze, finalmente è stato chiamato dal dentista, che gli ha già devitalizzato il dente e a giorni glielo otturerà. Lui ha avuto più pazienza di me, nonostante i quattro mesi di attesa, di dolore, di notti insonni in cui piangeva tenendomi sveglio, ha resistito senza fare pazzie. Mentre io ho scoperto di non avere tutta quella capacità di resistere al dolore fisico e di fronte alla mia impotenza, con la consapevolezza che dalla mia cella non avrei potuto fare nulla per interrompere tutta quella sofferenza, me lo sono tolto da solo, e adesso dovrei pagare centinaia di euro, che non ho, per mettermi un dente nuovo.

Detenuto non fumatore: specie in via di estinzione

 

di Daniele Barosco

 

Sono un detenuto non fumatore, non ho mai fumato, nella mia famiglia non fuma nessuno. Ora sto espiando la mia pena, dove non era incluso il danno di essere soggetto al fumo passivo tutti i giorni, e a tutte le ore del giorno e della notte. La legge tutela i non fumatori, da quando in tanti si sono resi conto che i fumatori se ne fregavano di tutto e di tutti. Una corretta educazione ci dovrebbe ricordare che gli altri ed anche noi stessi esistiamo prima di tutto come persone da rispettare, ma se questo rispetto c’è poco fuori, in carcere c’è ancora meno. Purtroppo in galera io ho perso tutte le mie battaglie per vedere tutelata la mia salute: non esistono infatti spazi realmente liberi dal fumo, fumano tutti. Le giustificazioni secondo me non reggono, anche se è vero che la detenzione comporta un continuo stato di stress, e spesso di ansia forte che ti prende quando a casa hai qualcuno che sta male e non puoi fare niente.

Problemi di ogni tipo ne abbiamo tutti in gran quantità, ma dovremmo almeno cercare di conviverci e non imporre a nessuno le conseguenze delle nostre scelte. Invece nessuno si interessa dei non fumatori, e pure l’istituzione fa ben poco per tutelare i diritti di chi non vuole aggiungere, alla sua condizione di disagio, anche i rischi del fumo passivo. Questo rappresenta un esempio di discriminazione avallata da tutti nel silenzio generale.

L’egoismo, l’arroganza, il menefreghismo trionfano, in una situazione di convivenza poco civile. Di civile infatti non c’è nulla nel lasciare sparse ovunque migliaia di cicche spente, filtri maleodoranti, cenere in ogni angolo. Questa è la realtà quotidiana, e chi non fuma subisce, e se qualche volta uno cerca di far capire che la situazione è pesante, viene preso per pazzo.

Non la pensa così il mio compagno di cella, Marco, che ha smesso di fumare per paura di morire. Era in cella in un altro carcere, gli è mancato improvvisamente il respiro, gli girava la testa. Subito non ha capito molto, ma quando era intubato in ospedale tutto gli è apparso chiarissimo, ha pensato ai quattro figli piccoli, alla moglie, al fatto che non valeva la pena morire a meno di quarant’anni. Ora ha uno stent coronarico, si cura, cerca di riprendersi la sua vita senza fumo, alle volte dopo due anni pensa ancora alla sigaretta, ne fumava due-tre pacchetti al giorno, e in più come me respirava tutto il fumo di centinaia di persone che vivono in spazi ristretti e malsani come le galere. Spiegare che migliaia di persone muoiono ogni anno in Italia per il fumo pare forse inutile in un luogo, dove la salute è tutt’altro che rispettata, ma anche se sembra una battaglia persa, io continuo a farla e a sperare che questi anni di carcerazione non mi rovinino del tutto la salute.

Un suicidio annunciato

Il coraggio della pietà

Non bisogna dimenticarsi mai che le persone restano persone

sempre, anche se con addosso il peso di un reato feroce

 

Si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Padova Artur Lleshi, l’albanese accusato della rapina e del duplice omicidio di Gorgo al Monticano. Parlarne è particolarmente difficile: perché è il suicidio di una persona etichettata come “mostro”, e perché qualcuno pensa che la sua sia stata una specie di “fuga” per sottrarsi al peso della pena. Eppure, forse bisogna avere il coraggio della pietà, e non dimenticarsi mai che le persone restano persone sempre, anche se con addosso il peso di un reato feroce. Di questo abbiamo provato a discutere in carcere, perché l’esperienza di chi ha conosciuto da vicino la violenza possa aiutare a uscire da una logica di odio che genera altro odio.

Ci si può suicidare perché spaventati dalla propria coscienza

 

di Marino Occhipinti

 

Dopo il suicidio del ragazzo albanese non mi meraviglia tanto la reazione del figlio delle vittime che accusa quella persona di essere “sfuggita” alla pena suicidandosi, perché io credo che le vittime di reati così gravi abbiano il diritto di dire qualsiasi cosa, non mi sorprende la reazione dell’opinione pubblica oppure i tanti commenti sentiti per i telegiornali. Quello che davvero mi sorprende è la reazione di alcuni detenuti, che alla notizia del suicidio dicevano: “Ma sì, era ora! anzi lo doveva fare prima …”. Riesco a capire commenti simili provenire da persone libere, ma quelle di quei detenuti mi sembrano affermazioni pesanti, soprattutto perché siamo noi i primi ad aver sbagliato e quindi dovremmo essere gli ultimi a giudicare, ma soprattutto a giudicare una persona che è appena morta.

Io qui dentro mi guardo intorno e vedo persone condannate come me per reati gravissimi, ma non riesco a giudicarle, non riesco a dire di nessuno di loro “Quello è un mostro”, forse perché conosco le persone, forse perché ci si frequenta, forse là fuori le persone sono autorizzate a giudicare, ma qui dentro credo che sia una cosa sbagliata. Le persone fuori ascoltano i telegiornali, si fanno una loro opinione attraverso i media, e quindi danno un giudizio a senso unico, mentre noi dentro in carcere ci conosciamo e vediamo le nostre storie, quanto siano particolari e difficili, e forse dobbiamo essere più consapevoli che la vita è complessa e che non si può giudicare da una unica azione.

Se poi si vuole discutere dei motivi che questa persona poteva avere per suicidarsi, io credo che la cosa sia troppo soggettiva, nel senso che ognuno di noi vede il proprio reato in modo diverso. C’è chi lo giustifica e trova delle scusanti, magari ritenendo di aver ucciso per vendicarsi di un torto grave subito. Poi c’è chi non riesce neppure a comprendere la propria azione, non sa spiegarsi come ha fatto ad arrivare a un gesto così violento, e c’è chi trova difficile confrontarsi con quello che ha fatto, e io credo che sia questo il caso della persona suicidata. Allora io credo che lui abbia deciso di morire per sparire, per sfuggire, ma non per sfuggire alla pena, bensì per sfuggire alla difficoltà di comprendere il proprio gesto. La mia impressione è che questa persona che si è uccisa non perché spaventata dal carcere, ma perché spaventata dalla propria coscienza. Perché sono convinto che il peso più grave non è quello del carcere, ma quello dei rimorsi, del convivere con le proprie responsabilità.

Credo che ogni vita umana meriti rispetto

 

di Dritan Iberisha

 

Io sono un detenuto albanese condannato per omicidio. Quando sento parlare di omicidi più o meno feroci, penso che non ci possano essere motivazioni per giustificare un assassinio. Io mi sono convinto che tutti gli omicidi sono uguali, anche se cambiano le modalità, e ci sono omicidi che sembrano forse meno orribili. Ne abbiamo parlato anche in sezione tra noi detenuti, quando è avvenuto quel crimine vicino a Treviso, e tutti lo hanno criticato subito dicendo che era un atto che non aveva alcun tipo di giustificazione. Ma adesso, che abbiamo sentito che si è suicidato il colpevole, ne abbiamo parlato ancora e ci siamo ugualmente dispiaciuti. Anche se si tratta di un omicida spietato siamo rimasti male nel sapere che si è tolto la vita perché abbiamo comunque pensato che si trattava di un ragazzo giovane che poteva pentirsi di quello che ha fatto e cercare di costruire una vita migliore, invece adesso devono portare il lutto non solo i figli delle sue vittime ma anche sua madre. È evidente che questa persona non ha avuto il coraggio di affrontare una condanna, la galera e l’opinione pubblica e di reggere il peso della propria coscienza, e quindi ha deciso di togliersi la vita, facendola finita una volta per tutte. E questo è triste.

Devo comunque esprimere anche il mio disappunto per le parole del figlio delle vittime. Forse in quelle condizioni ogni reazione è giustificata, però mi sarebbe piaciuto che quella persona desse prova di voler bene ai propri genitori in modo diverso, dimostrando meno odio. Noi siamo detenuti, non conoscevamo i suoi genitori, siamo dei cattivi eppure abbiamo provato compassione nei confronti di due sconosciuti perché erano due vite umane stroncate barbaramente. Ma in qualche modo proviamo pietà anche per questo altro ragazzo che si è suicidato. Io credo che ogni vita umana meriti rispetto, e anche la morte deve essere rispettata, non cambia che a morire sia una vittima innocente o il carnefice, abbiamo comunque a che fare con una vita umana persa per sempre.

Non la pensavo così fino a poco tempo fa, ho sempre visto la vita e la morte con menefreghismo, con una specie di distanza, sono in carcere per un duplice omicidio e devo dire che per molti anni non ho mai riflettuto veramente su quello che ho fatto, sulla mia vita e sulla vita delle persone che ho ucciso, ma da quando mi sono trovato qui in questa redazione costretto a discutere, a confrontarmi con altre persone, ho cominciato a ragionarci su e sono arrivato a capire che la violenza è sempre orribile, perché fa danni irreparabili.

 

 

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