Editoriale

 

Come siamo cauti e timorosi quando parliamo di diritti dei detenuti!

 

Colpisce sempre, durante gli incontri che organizziamo con le scuole in carcere, l’accusa di vittimismo che arriva puntualmente da  qualche studente, se appena un detenuto accenna al fatto che diritti come quello alla salute non sono tutelati al meglio in carcere. L’equazione è semplice: hai sbagliato, adesso non puoi pretendere di essere curato come me, che non ho mai commesso reati. E tanto più questo discorso si conferma, se si affronta un tema ancora più tabù come il diritto a una vita affettiva, e anche sessuale, dignitosa. Noi stessi ci accorgiamo di essere cauti e timorosi quando parliamo di diritti, e per esempio, se affrontiamo il tema degli affetti, preferiamo sempre riferirci al diritto dei famigliari dei detenuti di avere qualche momento di intimità con i loro cari, come se rivendicare questo stesso diritto per chi sta in carcere fosse troppo azzardato.

Ma proprio per questa difficoltà a riconoscere, e a far riconoscere alla società che la pena detentiva equivale alla perdita della libertà, e basta, sta diventando di giorno in giorno più importante parlare di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, e allargare sempre di più l’esperienza dei Garanti, che operano proprio in difesa di questi diritti così poco riconosciuti. Questo numero del nostro giornale è dedicato dunque ai diritti, e al fatto che dobbiamo avere più coraggio nel chiederne la tutela e il rispetto. Ma se avere più coraggio è difficile per le persone detenute, che oltretutto, se pensano di poter rivendicare i propri diritti, hanno comunque sempre davanti la paura di un possibile trasferimento, non lo dovrebbe essere per operatori e volontari.

Il volontariato troppo spesso si muove come se certe possibilità, certi “varchi”, certe aperture nella vita carceraria fossero “un regalo” di direttori illuminati; ma chiedere l’umanizzazione della pena non significa chiedere “un regalo”, quanto piuttosto pretendere il rispetto di un diritto, riconosciuto dalla nostra Costituzione. Semmai è il contrario, semmai non rispettano la legalità quelle carceri dove la pena viene scontata nell’inattività, nella noia, nella mancanza di qualsiasi contatto con il mondo esterno. Ma anche quelle carceri nelle quali non sono state messe a norma, come previsto dal Nuovo Regolamento del 2000, neppure le sale colloqui, dove dovevano essere eliminati i vetri divisori e gli orrendi banconi da macellai, intorno ai quali si accalcavano le famiglie dei detenuti. E invece, una recente relazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dice che a tutt’oggi, delle 530 sale colloqui, solo 272 non hanno più banconi e vetri, ma quei tavolini che danno “un tocco di umanità” a luoghi così tristi come queste stanze, dove si riuniscono ogni settimana le famiglie dei detenuti, tra confusione, disagio, pianti di bambini, tanta sofferenza e poca gioia. Qualcuno allora è in grado di spiegare perché in tutti questi anni non si è riusciti a smantellare tutti i divisori e a garantire a tutte le famiglie un luogo di incontro un po’ più accogliente?

Ecco, i Garanti dovrebbero “mettere il naso” in un sistema, bloccato in molte parti dall’inerzia, dalla lentezza burocratica, dalla paura di aprire dei luoghi, considerati per definizione chiusi e nascosti, come le galere. E la società ha l’occasione, proprio attraverso queste figure, di entrare con più forza nelle carceri, e di pretendere il rispetto della legalità e della trasparenza. Perché solo un carcere aperto e rispettoso della legalità può restituire alla società dei cittadini migliori, o almeno più consapevoli delle loro responsabilità, dei loro diritti e dei loro doveri.

 

 

Home Su Successiva