Editoriale

 

Ha vinto ancora una volta l’abitudine

a sacrificare i diritti in nome dell’emergenza

 

È tradizione che in campagna elettorale la politica vada incontro alla gente, ma non è più la gente comune quella di cui si parla oggi, ora si chiamano elettori e nelle democrazie sono la chiave d’accesso al potere. Nelle carceri però il voto è spesso interdetto per motivi legali, nel senso che l’interdizione è prevista nella sentenza di condanna, oppure a causa dello status di migrante del detenuto. Ma spesso c’è anche, da parte dei detenuti che il diritto al voto potrebbero esercitarlo, una sorta di disinteresse a priori, ed è un indicatore questo di quale sia il rapporto tra istituzioni e detenuti, tra Stato e persone che in qualche modo dovrebbero rientrare nella società ad esercitare tanto i doveri quanto i diritti previsti dalla Costituzione.

Eppure la politica, a modo suo, si è molto occupata di questioni riguardanti la giustizia, la sicurezza ed anche il carcere. Se per molti infatti la proroga dello scioglimento delle Camere ha rappresentato solo un tentativo del premier Berlusconi di scorrazzare da un media all’altro, qualcuno si è ben accorto, invece, che dietro c’era il tentativo in extremis di far approvare tutta una serie di provvedimenti, che proprio con la giustizia, la sicurezza ed il carcere hanno a che fare.

Nel giro di poche settimane ci siamo trovati così con l’ex-Cirielli, fatta e subito corretta con un provvedimento all’interno delle disposizioni sulla sicurezza per le Olimpiadi invernali; il varo della legge, poi bloccata dal Presidente della Repubblica, sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado (sulla quale sarebbe meglio discutere un po’ più a fondo); e per finire un colpo di acceleratore allo “stralcio Giovanardi” che rende operativo il ddl Fini-Mantovano sulle droghe, nelle parti che suscitano maggior disappunto in quanto arriveranno a breve a colpire proprio i consumatori di stupefacenti di qualsiasi tipo (tranne quelli forniti dallo Stato come gli psicofarmaci e quelli ineliminabili per tradizione come l’alcol).

Non è mai capitato di vedere tanti provvedimenti fatti passare a colpi di fiducia e con una carenza di analisi e dibattito che fa spavento. Sono poi sei anni che si parla di un provvedimento di clemenza, se non per spirito di riconciliazione, per il semplice fatto che le carceri scoppiano di gente la cui pericolosità è quasi ridicola, e che è costretta a vivere in condizioni illegali e disumane. Eppure, nonostante appelli ed allarmi la ex-Cirielli è passata lo stesso, corretta su consiglio di Muccioli e di altre potenti comunità per evitare carenza di materia prima da trattare. E di clemenza niente, nonostante la certezza che queste leggi, oltre ad essere ingiuste, faranno esplodere letteralmente le carceri, e perfino il Ministro Castelli, pur essendo contrario a qualsiasi proposito umanitario, si è reso conto che il sistema non terrà. Ma perché si fanno queste leggi, che con tanto populismo a fini elettorali rendono ancora più disperato chi vive nell’emarginazione e spesso nella povertà?

Sembra sempre che il fuoco vada toccato con mano per capire che brucia. Così è successo al militante della Lega, che dopo aver ucciso un ragazzo che tentava di entrare in casa sua, adesso non dorme più la notte e vive male, e quando lo intervistano, lui, attivo nel partito che più ha sostenuto la nuova legge sulla legittima difesa, dice che ha cambiato idea, che sullo sparare a destra e sinistra non la pensa più come prima. Ma bisogna dire che per ragionare un po’ meno superficialmente su questa legge sarebbe stato sufficiente aver letto qualche testimonianza, di quelle che sulla nostra rivista è facile trovare, dove persone che siamo abituati a considerare l’identificazione del male proprio perché hanno ucciso, sono lì a ricordarci che togliere una vita, tranne quando non sia veramente in gioco la tua, e a volte neanche in quel caso, è un gesto che ti segna dentro e sul quale non c’è niente di più assurdo che farne argomento di comizi da piazza. Questa forse è la cosa che in questi anni ha tristemente segnato la politica: il giocare con i sentimenti più irrazionali della gente per farne consenso, ed andare avanti, sempre, senza riflettere, ripensare, fino al bordo del baratro o oltre.

Ma il rischio si fa ancora più grande quando, anche nell’opposizione, ci si lascia trascinare in campagne sulla sicurezza che poco si distinguono da quelle della destra. Molte sono ancora le paure ad affrontare il problema in modo differente, le proposte di riforma ci sono e sono serie, ma l’abitudine a sacrificare i diritti in nome dell’emergenza è ancora molto forte. Allora è difficile immaginare un’alternativa che avvii un processo di cambiamento culturale profondo, senza del quale nessuna vera riforma si può realizzare, partendo da un’informazione più seria e puntuale. Su questo i detenuti aspettano che ci siano prese di posizione più chiare. Non basta proporre l’abrogazione di leggi come la ex Cirielli, occorre che il lavoro, fatto comunque tra mille difficoltà da detenuti, volontariato ed associazioni, diventi il punto di riferimento per fare proposte chiare che si trasformino in concreti impegni elettorali. Per ora i segnali non sono in questa direzione, ed episodi come l’esito della marcia di Natale per l’amnistia destano solo preoccupazione. Il timore è che anche questa volta nella tutela degli ultimi, degli esclusi, che dovrebbe essere patrimonio storico della sinistra, non si includano i detenuti con i loro problemi, ma anche che l’informazione, che continua ad essere l’indispensabile chiave d’accesso a qualsiasi tentativo di cambiamento reale e condiviso, non si curi proprio di loro e che vinca il disinteresse generale.

 

 

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