Sprigionare gli affetti

 

Quel bimbo a colloquio che non vuole staccarsi dal padre

 

Questa immagine - un figlio che piange, tendendo la mano verso il genitore detenuto - ha fatto nascere l’idea del progetto “Padri dentro e figli fuori” nella Casa circondariale di Rimini. Incontri con psico-pedagogisti, cineforum sul tema dei rapporti familiari, momenti di festa perché i piccoli possano passare del tempo sereno con i padri dietro le sbarre. E, soprattutto, conferenze in città perché anche chi sta fuori conosca il dramma delle famiglie divise dal carcere

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Scandagliare in profondità, con l’aiuto di esperti in psico-pedagogia, il difficile rapporto che le persone detenute si trovano ad affrontare con i loro figli. Per vivere questa lontananza in maniera più consapevole e meno dolorosa. È lo scopo del progetto “Padri dentro e figli fuori”, promosso nella Casa circondariale di Rimini. Ce lo racconta Vincenzo Di Pardo, responsabile dell’area educativa del carcere.

 

“Padri dentro e figli fuori” è uno slogan forte, che colpisce: di che cosa si tratta?

È un progetto incentrato sul rapporto tra il genitore detenuto e il proprio figlio. Si tratta, secondo la mia opinione, di un aspetto molto importante della condizione detentiva e del percorso riabilitativo a cui, sino a oggi, non è stata dedicata l’attenzione dovuta. L’iniziativa ha lo scopo di esaminare, con l’aiuto di esperti, le problematiche relative ai vissuti di privazione imposti sia al padre che al figlio come conseguenza della carcerazione, e di promuovere azioni di sensibilizzazione e valorizzazione del ruolo genitoriale.

 

Come si traduce, nella pratica, questa attenzione al rapporto genitoriale segnato dal carcere?

Con la collaborazione della sezione provinciale riminese dell’Unicef sono già stati realizzati con i detenuti tre incontri di approfondimento sul tema dei diritti dei bambini e della loro violazione in contesti e Paesi diversi. È da poco terminata, inoltre, una rassegna video che i detenuti hanno intitolato “I Bambini e noi: otto film per riflettere”. C’è stata molta partecipazione al dibattito che è seguito alla proiezione delle pellicole (tra cui La vita è bella di Roberto Benigni e Ladri di biciclette di Vittorio De Sica ed altri). Abbiamo poi promosso tre incontri tra operatori penitenziari ed esperti di psico-pedagogia con i detenuti, sempre sul tema della separazione e dei legami affettivi tra genitori detenuti e figli. Gli insegnanti dei corsi scolastici carcerari si sono presi l’impegno di sviluppare, insieme agli allievi, ricerche e approfondimenti, e la redazione del giornale dei detenuti Noi ha dedicato al tema un numero speciale. Infine, presso una sala del Comune di Rimini, è stata inaugurata una mostra dal titolo Dal carcere alla città: sono state esposte e vendute le opere realizzate dai detenuti nei laboratori di ceramica, cartonaggio e disegno su vetro. Il ricavato delle vendite andrà ai progetti dell’Unicef e servirà per acquistare libri e giocattoli. Il progetto si è concluso con una giornata ricca di eventi: un momento di festa con i detenuti coinvolti nell’iniziativa e i loro familiari in una sala predisposta all’interno dell’istituto, con libri e giochi, acquistati con il ricavato delle vendite della mostra, regalati ai bimbi presenti. L’iniziativa è stata estesa anche ai figli di detenuti in permesso premio o in misura alternativa. Nel pomeriggio è stato infine presentato il Cd audio e il numero speciale del giornale Noi dedicati al progetto, per concludere con un momento di festa, con animazione e musica a cura di un gruppo di volontari.

 

Chi ha proposto l’iniziativa e quali motivi vi hanno spinto alla sua elaborazione?

L’idea di definire un progetto su una tematica, così importante ma così poco dibattuta anche tra i diretti interessati, era presente da tempo. La sottoscrizione di “un patto di solidarietà per aver cura di ogni bambino”, avvenuta nell’aprile del 2003 tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unicef Italia, e l’invito rivolto alle direzioni a organizzare attività per il recupero del rapporto con l’infanzia, hanno dato una spinta decisiva alla realizzazione dell’iniziativa. Personalmente conservo nella memoria un’immagine che ha lasciato in me una certa inquietudine e che mi ha spinto a interrogarmi e confrontarmi, sia dal punto di vista umano che professionale, su ciò che quell’immagine evoca nel cuore degli uomini. Chi abita il carcere, anche come operatore, non è abituato a sentire bambini all’interno di un istituto maschile e quando una mattina di colloqui mi capitò di sentire l’urlo e il pianto disperato di un bambino, allertai subito l’udito e indirizzai lo sguardo. Era il momento della conclusione dei colloqui e, in fondo al corridoio, vidi un bimbo con la mano protesa verso il papà nel tentativo di stringersi ancora a lui. Dall’altra parte l’uomo, impotente, pian piano si allontanava cercando di nascondere le lacrime e un senso di rabbia e di dolore.m In quella scena era racchiuso un dramma emotivo che dovrebbe colpire e interrogare chiunque. Rimasi quasi stordito, poi ricomposi i miei pensieri e man mano si rafforzò in me l’idea che quel momento, così drammatico e disperato, se pedagogicamente “accompagnato”, poteva sollecitare con forza la responsabilizzazione e la ricerca di un riscatto. La realizzazione del progetto “Padri dentro e figli fuori” è anche espressione di questo ricordo.

 

Generalmente come si svolgono i colloqui tra i padri detenuti e i loro figli nel carcere di Rimini?

Quando le condizioni meteorologiche lo permettono, si svolgono in un’area verde appositamente attrezzata: tre gazebo in legno con tavoli e sedie, oltre a scivoli e giochi per i bambini. Lo scorso anno sono stati realizzati, dagli stessi detenuti, dei murales sulle pareti che delimitano l’area. Sono state prodotte scene allegre di animazione infantile e disegni, dai colori vivaci, che riproducono l’immagine dei più noti personaggi dei cartoni animati. Nel complesso lo spazio, seppur non molto grande, si presenta abbastanza accogliente. La sala colloqui, invece, è arredata con tavoli e sedie, senza banconi divisori, ma c’è la possibilità di incontrare i bambini in salette attigue che garantiscono un clima di maggiore riservatezza.

 

Cosa prevedete di fare per sensibilizzare la società esterna a queste tematiche?

Al progetto collaborano alcuni volontari, enti e associazioni del territorio, che hanno raccolto l’invito mostrando interesse per le questioni sollevate dal progetto. A loro abbiamo chiesto, per quanto possibile, di pubblicizzare all’esterno i contenuti dell’iniziativa. Oltre alla mostra, abbiamo organizzato una tavola rotonda, in dicembre, presso la sala delle conferenze del Comune di Rimini. Il titolo era Dal carcere alla città: esperienze a confronto al termine del progetto padri dentro e figli fuori. Oltre agli operatori e ai funzionari dell’Amministrazione penitenziaria, vi hanno preso parte anche rappresentanti del volontariato e delle istituzioni locali.

 

Quali altre iniziative legate al reinserimento delle persone detenute si svolgono nella Casa circondariale di Rimini?

Nel nostro istituto sono presenti detenuti con condanne relativamente brevi, e c’è un alto turn-over. La media delle presenze di detenuti stranieri e di tossicodipendenti, inoltre, è molto al di sopra della media nazionale. Nonostante le difficoltà legate a tali condizioni, posso dire che l’attività trattamentale, rispetto alle risorse disponibili, è abbastanza articolata e ha permesso di dare risposte più mirate ai bisogni emergenti. C’è però ancora tanto da fare per migliorare, integrare e finalizzare meglio le azioni e i servizi. Per quanto concerne il reinserimento sociale, una particolare attenzione viene dedicata, per l’alto numero di presenze, ai detenuti che hanno problemi di tossicodipendenza. Per loro vengono previste diverse attività di sostegno e recupero, a partire dalla sezione a custodia attenuata “Andromeda” (ex Se.att.), attiva dal 1991. È un’esperienza aperta a quei detenuti tossicodipendenti o alcolisti che esprimono la volontà di seguire un percorso trattamentale volto a rafforzare le motivazioni al cambiamento, e a concordare un programma di recupero da portare a termine, ove possibile, in contesti riabilitativi esterni al carcere. La sezione, che può ospitare al massimo sedici detenuti, è collocata in un grazioso e accogliente fabbricato, nella parte esterna del muro di cinta del carcere. Lo scorso anno sono passati di qui cinquanta detenuti, dei quali trentuno sono usciti per svolgere un programma di recupero fuori dal carcere. Lo ritengo un risultato importante che dovrebbe incoraggiare l’estensione dell’esperienza delle custodie attenuate in maniera capillare sull’intero territorio nazionale.

 

 

Fuori ho lasciato tre figlie che sono additate

 come le “figlie del detenuto”

Ma qui a Padova a colloquio almeno posso abbracciarle, essere abbracciato, permetter loro di muoversi

 

di Gianfranco Gimona

 

I freddi dati statistici ci dicono che se non si riesce a ricomporre la frattura tra padri detenuti e figli, anche i figli sono destinati a vivere situazioni di disagio che possono diventare pericolose, se si tiene conto di quella “orribile” ricerca che dice che il 30 per cento dei figli di detenuti è destinato a sua volta a finire in carcere. Il rapporto tra genitori detenuti e figli è scandito da una serie di domande e di risposte che esprimono un disagio indefinibile, che inizia con il carcere e non si sa quando finirà. Il figlio chiede al padre: “Quando vieni a casa?”; il padre si fa assalire da mille dubbi: “Non credo di voler stare nuovamente lontano da mio figlio per tornare in carcere, una volta terminata quest’esperienza. Ma sarà bastata la pazienza di mio figlio?”; la moglie va a colloquio e racconta: “In paese non ci salutano più da quando stai dentro, i bambini a scuola evitano i nostri figli, la banca mi impone di rientrare con il fido, non mi rinnovano il contratto d’affitto di casa”. Chi non si riconosce in queste ansie, in queste emozioni? Uomini abituati a vedere i problemi, ad affrontarli e a risolverli in prima persona invece di scansarli, uomini sui quali la famiglia poteva contare sempre, si ritrovano a essere invece impotenti e a dipendere totalmente dagli altri. E io?  Ora anch’io sono qui, anch’io con questi problemi. Mi sono costituito dopo diversi anni di latitanza all’estero quasi sette mesi fa, sei anni devo scontare. Ora sono qui. Impotente. Non c’è avvocato, magistrato, amico che mi possa aiutare, né dare una mano a coloro che più amo a uscire da questa situazione. Non ho nemmeno qualcuno a cui confidare questa mia croce, non lo posso fare con le persone che mi vogliono bene, altrimenti, penso, darei loro ulteriori motivi di sofferenza. Non ho nessuno qui, nemmeno un prete con cui chiacchierare, mi verrebbe da dire ricordandomi di una vecchia canzone di Celentano: poveraccio anche lui, il cappellano, solo, con settecento detenuti con problemi anche più gravi dei miei. Sono un “turista”, come nel gergo carcerario si definisce il detenuto che non ha a che fare con il mondo della delinquenza, che in carcere c’è finito per la prima volta, un turista anche se di turistico il posto ha solo una cosa: che ti costringe a vivere in un ambiente nuovo e staccato da tutto e tutti. La distinzione però sta nel fatto che non sei tu a staccare dal mondo, bensì gli altri a staccare da te! Ora sono qui. Impotente. Vedo i problemi che fuori si moltiplicano, le sofferenze dei miei cari, di mia moglie, delle mie tre figlie in particolare… Ho lasciato un posto di lavoro in una piccola azienda che mi gratificava, un posto che ritroverò quando uscirò, così almeno mi ha detto il titolare, che però, nonostante le diverse lettere che gli ho spedito, non m’ha ancora risposto. E se tanto mi dà tanto… Ho lasciato i genitori, per i quali l’onestà è uno dei fondamenti della vita, mio padre in particolare che, sicuramente anche a causa di questo continuo stress, è stato vittima di tre attacchi d’ictus nell’ultimo anno. Ho lasciato una moglie, diversamente abile, che con il suo stipendio d’impiegata statale part-time deve mantenere, oltre a tre figlie con tutto quello che ciò significa, in fatto di spese, e soprattutto di responsabilità, adesso anche un marito. Una donna che per causa mia ora conosce la solitudine, l’emarginazione anche da parte di alcuni dei suoi cari. Ho lasciato tre figlie, che sono additate come le “figlie del detenuto” a scuola e all’asilo, e che inevitabilmente portano le conseguenze anche dello stravolgimento delle notizie fatto da tanta  stampa locale, al punto che una è in terapia presso uno psicologo. Come pensare di poter educare tre ragazzine che ti vedono solamente una volta al mese, che soffrono a causa del disagio che devono sopportare, che ti chiedono di aiutarle? Che rapporto intimo, profondo puoi avere con loro, se non possono confidare le loro speranze o il loro dolore a quella che dovrebbe essere una figura “onnipresente” nella loro vita, che invece a malapena conoscono, in particolar modo la più piccina?

 

Qui almeno sono “un po’ fortunato”

Nonostante lo sconforto che porto nel cuore, che qualche volta mi sembra che rasenti l’apatia, mi reputo però da un certo punto di vista fortunato, e questa convinzione mi risolleva. Certo, avrei potuto trascorrere il mio periodo di detenzione in un carcere nei pressi del mio comune di residenza, beneficiando (e facendo beneficiare i miei cari) di due colloqui settimanali invece di uno al mese, visto che ora disto quasi 400 chilometri da casa. In compenso a Padova gli incontri si svolgono in una sala appositamente preparata, dove posso abbracciare ed essere abbracciato dalle mie bambine, tenerle in braccio, permetter loro di muoversi; non come nel carcere vicino a casa mia (dove sono rimasto rinchiuso un breve periodo in attesa di essere trasferito qui), un budello di stanza, che fungeva da sala colloqui, sovraffollato, sporco, maleodorante, diviso da un bancone freddo che non ti permetteva nessun contatto fisico. Qui certo le celle sono sempre sotto chiave, a parte i momenti in cui si va all’aria o a una attività (dato che, purtroppo, o sei impiegato in una attività o vai all’aria, le due cose sono in alternativa), ci si sente veramente ristretti rispetto a quell’altro carcere dove le celle sono costantemente aperte, e quindi si può girare tutto il giorno da una cella all’altra fino a sera. In compenso però qui la cella è seminuova e la devo dividere solo con un altro compagno di sventura, non con altri 8/9 dove lo spazio previsto era originariamente per 4. Così le risse, gli atti di violenza, i conflitti sono decisamente rari. Sì, sono almeno un po’ fortunato. Quasi subito ho trovato un impiego come volontario, qui in redazione, con persone che coltivano interessi simili ai miei. Fortunato, dato che io ho uno scopo preciso, visto che devo curare le rubriche sugli affetti, che secondo me sono tra le più belle, umane, immediate. Quelle alle quali si rivolgono sia detenuti/e che gente da “fuori”, angoli nei quali la politica, l’appartenenza ad un ceto sociale non hanno rilevanza, spazi che mi permettono di mantenere vivi i contatti con le “due realtà” del dentro e del fuori, soprattutto con i sentimenti, col cuore delle persone. Un po’ fortunato perché quando torno in sezione, dove mi sono ambientato quasi subito, sono ben accetto. Mi viene facile mettere in comune le mie capacità nello scrivere/rispondere a magistrati, avvocati, associazioni per conto di quelli che non lo sanno fare perché sono stranieri, o perché hanno poca dimestichezza con la scrittura, o insegnare un po’ di aritmetica a chi non ha avuto le mie stesse possibilità. E poi so che la famiglia che tanto mi manca, fuori mi aspetta, ed è un privilegio di cui non tutti possono godere. E ancora, ho una pena relativamente breve, se paragonata a quelle di altri reclusi che sul loro certificato di detenzione alla voce fine pena trovano scritto MAI, o una data comunque lontanissima nel tempo. Ed è una piccola fortuna anche essere sano, fisicamente e psicologicamente, “compatibile” al regime carcerario, ammesso che si possa essere compatibili con la galera, ma tanti altri purtroppo patiscono anche questa pena, di non reggere, con il corpo e con la mente, la detenzione, e i numeri relativi ai suicidi in carcere parlano chiaro. Ma forse sono solo un inguaribile ottimista, e anche quando umanamente nulla mi fa vedere la positività di questa vita, quando mi viene meno tutto, una cosa almeno riesce a risollevarmi, la mia fede.

 

 

Precedente Home Su Successiva