Donne Dentro

 

Quello che le donne non dicono o hanno paura di dire

 

Quando la violenza si nasconde in famiglia

 

La cosa è cominciata così: nel gruppo di donne della redazione si parlava degli argomenti, che ancora non abbiamo affrontato sul giornale, e Christine ci ha proposto un tema in qualche modo inquietante: "Quello che le donne non dicono". Sono venute fuori due storie faticose, dure, piene di angoscia, eccole.

 

Il racconto di Christine

 

Tante cose agli psicologi non le racconto perché sono troppo personali, non le racconto perché cerco di proteggere la mia famiglia, e soprattutto mia madre, che è morta, per cui è bene farla riposare in pace.

Questa mia esperienza però ho deciso di raccontarla, perché qui in carcere ho saputo parecchie storie di ragazze che hanno subito violenze, ma ho visto anche che non riuscirei mai a convincere le persone a parlarne in pubblico, e allora ho deciso di cominciare a farlo io.

Io vengo da un’esperienza di tossicodipendenza e quando ti va tutto a pezzi e poi cerchi di rimettere assieme il "puzzle", ti accorgi che non puoi cominciare a ricostruirti, se non tiri fuori anche quelle cose che hai tentato a lungo di rimuovere perché ti fanno star male. E alla fine riconosci che devi affrontarle. Così in questa carcerazione ho trovato la forza di raccontarmi, in parte anche con gli psicologi, nonostante il rischio che la mia storia finisca nella relazione.

Avevo 11 anni, eravamo in Germania. Io ho una famiglia numerosa con quattro sorelle e due fratelli. Una mattina che mia madre era uscita per fare la spesa sono scesa dalla camera da letto, ancora in camicia da notte, e mio fratello più grande, che aveva 17 anni, mi ha presa e trascinata per terra in cucina mentre io piangevo dicendogli di lasciarmi stare, senza capire cosa stava facendo. Ed è successo tutto lì, dopo lui se ne è andato. Quando è tornata a casa mia madre io ero in un angolo che piangevo disperatamente e lei mi ha chiesto cos’era successo, le ho raccontato il fatto e lei mi ha risposto di stare zitta e di non raccontarlo a nessuno, di andare a lavarmi e vestirmi. Sono passati cinque o sei mesi, abbiamo cambiato casa, dal paese siamo andati ad abitare in città, e non si è più affrontato questo discorso.

Con mio fratello non ci parlavo più e non ci parlo neanche oggi. Una domenica eravamo tutti quanti a tavola, io ho avuto un diverbio con mia madre, c’era anche mio padre, e lei davanti a tutti ha sostenuto che io avevo detto di essere stata violentata da mio fratello e che invece di sicuro ero stata io ad andare a cercarmela. Lì per lì ci sono rimasta da cani, avevo 11 anni e mezzo e dopo quel giorno mia madre non mi ha più vista piangere, ma questa cosa non gliel’ho mai perdonata. È un crollo psicologico totale, quando vieni violentata.

È strano, perché lui era un bel ragazzo e aveva tutte le ragazze che gli correvano dietro, non ho mai capito perché fosse andato a cercare proprio sua sorella.

Qui di storie così ce n’è tante. E sempre in famiglia, dal padre, dallo zio, dagli amici del fratello.

Prima non ne parlavo mai, ma avevo capito che, finché non riesci ad affrontare questo argomento, vuol dire che ti rimane dentro e non lo superi, e così ho cominciato a parlarne facendomi coraggio anche dopo aver sentito dalle compagne altre storie simili. Il fatto è che fuori non avevo tante possibilità di dialogare, mentre in carcere, senza il problema della droga, continuo a parlare e, quando intuisco che altre donne stanno vivendo lo stesso problema, allora mi butto, racconto io la mia storia e poi anche loro mi dicono di aver subito violenze.

A 17 anni poi ho avuto il mio primo rapporto sessuale vero e ho avuto diversi problemi, inizialmente non volevo neanche farmi toccare, col tempo poi è passato. Con i miei compagni in seguito ho sempre avuto rapporti sessuali "sani", anche se prima di intraprendere una relazione sono diffidente, non sopporto l’idea di venire usata. Ma non credo che questo mio timore abbai a che vedere con la violenza subita da mio fratello. Vedo però nelle altre donne con una storia simile alla mia che tutte hanno un pessimo rapporto con gli uomini, e una pessima opinione di loro. E c’è chi forse è diventata omosessuale per questo motivo. Mentre per me credo che anche da lì siano nati i miei problemi con la tossicodipendenza.

Dopo Christine, anche Sara ha deciso di parlare. Sara è un nome di fantasia, la chiamiamo così perché è meglio non attirarle addosso troppa curiosità, ma lei è una donna coraggiosa, una Rom niente affatto conformista con la quale si può parlare davvero di tutto con franchezza.

 

Il racconto di Sara

 

Sono cose di cui una persona non riesce proprio a parlare, c’è quasi sempre qualcosa che la frena…

Perché anch’io ho avuto una storia del genere… Io stavo poco al campo nomadi, ero sempre in giro per le strade, in città. Quando, alle notte, la metropolitana chiudeva, noi ragazzi ci nascondevamo all’interno. Se c’era freddo o avevamo paura, andavamo davanti al commissariato, facevamo un furto davanti alla polizia, loro ci prendevano e ci portavano in una specie di collegio, dormivamo e la mattina scappavamo. Ho cominciato a scappare da casa, e da qualsiasi altro luogo dove mi rinchiudevano, a otto anni e l’ho fatto fino ai 12, perché con i miei non stavo bene. Poi mia madre se ne è andata via, e l’ho rivista solo dopo 20 anni, quando mio padre stava male, stava morendo e le ha lasciato l’eredità, così è arrivata dov’eravamo noi.

L’incontro con mia madre è stato "acido". E anche se in questo periodo lei mi sta aiutando molto, venendomi sempre a trovare in carcere, pagandomi l’avvocato, io non sono serena con lei. La cosa che più odio è quando mi porta qui in carcere cose da mangiare, non perché le cucina lei, ma solo perché penso al passato e allora le dico: "Adesso mi porti da mangiare e non quand’ero piccola? Qui ho da dormire, ho un letto, un lavoro, ho i soldi, e allora perché mi porti da mangiare? Non sono più piccola, ho 28 anni, mangio quando voglio e me ne prendo, invece quando avevo 7 anni era dura non avere nessuno che pensava a me e alla mia fame".

Tornando a quando ero piccola, mi ricordo che dove io vivevo era normale vedere uomini che ti correvano dietro, ti prendevano, si strusciavano su di te, era tutto normale, sapevo che dovevo avere paura di questi uomini e quando li vedevo scappavo e basta. Ad 8 anni un ragazzo mi ha strappato i vestiti e penso mi voleva violentare, aveva con sé un piccolo cane, me lo ricordo come fosse oggi, lui era sopra di me che mi strappava i vestiti e il suo cane lo prendeva dai piedi e lo tirava, poi sono scappata ed ero tutta insanguinata, con i vestiti strappati, ma non mi aveva violentata, a casa però non ho detto niente. Altre volte mi è capitato con la polizia che qualcuno con noi Rom si prendeva certe libertà sgradevoli, è successo anche a Firenze: un ispettore mi porta nella camera di sicurezza e mi dice di girarmi, di alzare le mani, e lui si è messo dietro di me e ha cominciato a cacciarmi le mani sul seno e mi stringeva, lì già ero una donna, questa cosa mi ha fatto rabbia e non sono mai riuscita a parlarne con nessuno. Quando sono tornata a casa, anche se non mi aveva fatto niente perché mi ero messa ad urlare, non ho detto nulla, ma mi sentivo male, in colpa.

Anche quando mi sono sposata mi hanno come violentata.

Io stavo con mio marito da più di un mese, però non lasciavo che mi toccasse, avevo solo 12 anni; una mattina sono andata a farmi la doccia e ho iniziato a sentirmi male, sono uscita nuda, solo con l’asciugamano e mi sono messa a letto perché stavo davvero da cani, lui è venuto e mi è stato subito sopra. Tra i Rom è normale sposarsi a 12-13 anni, ma un conto è quando la ragazza ha quell’età e il ragazzo ne ha 14-15, e tutta un’altra cosa invece se il ragazzo ne ha 18, 19, allora il primo rapporto è brutto, dopo piano piano ci si abitua, ma rimane sempre brutto. E tuttora, anche se ho dei figli e poi con mio marito ho avuto dei normali rapporti sessuali, io non riesco a vedere un uomo nudo, mi fa stare male. Se uno poi mi dice "Ma come hai fatto a fare così tanti figli?", non lo so nemmeno io; ho 4 figli maschi, ma se devo fare la doccia a mio figlio ancora oggi mi dà fastidio.

Il fatto è che mio marito era molto più grande di me, forse per questo sono rimasta terrorizzata, perché se avesse avuto la mia stessa età forse andava meglio il rapporto. Lui aveva 20 anni, era già un uomo. Ecco, io non sono affatto come quella che ha avuto il suo primo rapporto sessuale e dice che è stato bellissimo, meraviglioso, io se qualcuno mi domanda come è stato rimango come una stupida e mi chiedo: "Ma come mai il mio primo rapporto è stato così brutto?".

 

Perché abbiamo voluto raccontare queste storie? Per tanti motivi, ma primo fra tutti perché vogliamo avere il coraggio di andare a indagare anche nelle zone buie del mondo delle donne, senza forzature, ma solo per capire. Capire, per esempio, che la violenza può essere di casa in una normale famiglia "nostra" così come in una famiglia Rom. Capire che la famiglia, che rappresenta per molti la risorsa principale, la sicurezza, l’unica fonte di un sostegno concreto, per alcuni invece è il luogo da cui fuggire, da cui prendere le distanze il più possibile per non ritornarci forse mai più. 

Il bilancio di due anni a casa, da detenuta

 

Due anni e quattro mesi di "detenzione senza sbarre". La vita di Giuliana, detenuta a casa sua

 

La legge sulle detenute madri ha poco più di due anni di vita. La testimonianza che abbiamo ricevuto è di una donna, che è stata fra le prime (e poche) a tornare a casa dal carcere della Giudecca grazie a questa legge. Qualcuno crede che stare in detenzione domiciliare sia una vacanza, una non-pena, ma non è affatto così, e lo spiega bene Giuliana quando dice che la sua vita oggi "è come avere le chiavi dei cancelli ma non poterle usare". I cancelli sono ancora chiusi, per lei, anche se il luogo è migliore e ci sono i suoi figli con lei, e questo è importante, ma non può far dimenticare che sempre di pena si tratta, e quasi sempre vissuta in una grande solitudine interiore. 

Sono uscita dal carcere, penso tra le prime, beneficiando della detenzione domiciliare speciale per le detenute madri, grazie al fatto che rientravo in un nucleo familiare "socialmente normale", ho un’abitazione e posso inoltre contare sul sostegno economico dei vari enti provinciali preposti.

Chi sono le donne con bambini che dovrebbero fruire di tale beneficio? E che prospettive hanno? Tornano a casa, e cosa trovano? Dei figli, dei genitori, alcune un marito, se non è successo che si siano fatte la galera per causa sua, e lì che fanno? Le serve come minimo, poi spesso diventano la valvola di sfogo dei vari membri del gruppo familiare… tanto per loro i fatti parlano da soli… devono solo pagare. Bene che gli vada si trovano un "lavoretto" tipo fare le pulizie da qualche parte, non vedo altre prospettive.

Eppure dico ugualmente: per fortuna che c’è questo beneficio, se così non fosse avrei dovuto rinunciare ai miei figli. Perché è vero che in teoria si possono ricucire tutti gli strappi, ma bisogna poi vedere i segni che restano… Troppo tempo avrei dovuto stare via, per sperare di ritornare poi senza traumi. Ora invece, anche se con grossi limiti perché la nostra vita si svolge prevalentemente in casa, io ci sono, sono presente.

L’essere in detenzione domiciliare richiede una grande autodisciplina. Dovendo trascorrere un periodo relativamente lungo in questa condizione, e avendo inoltre responsabilità verso i miei figli, fin dall’inizio ho cominciato ad attivarmi per ritrovare la mia dimensione nel mondo esterno. Sembra semplice detto così, ma è un processo complesso…

È proprio vero, espiare una pena è soffrire, anche dopo, anche quando la pena continua a casa. A me riesce difficile raccontare, testimoniare un’esperienza che, anche se dolorosa, deve diventare un bagaglio nel percorso di consapevolezza che è la vita, ma cercherò di farlo. Ora sono con i miei figli, sono felice di esserlo, però di fronte a loro con me stessa devo riconoscere la mia sconsideratezza, rimettere in discussione tutto il mio essere e cercare di superare i sensi di colpa e la vergogna, puntando a una visione di vita futura che vorrei diventasse una rielaborazione positiva delle mie esperienze. È così che spero di riuscire a liberarmi del tormento interiore che vivo.

Ho seguito l’iter della legge sulle detenute madri dal suo nascere e ora eccomi qui. Sono mancata un anno e mezzo, e ora sono più di due anni che ci sono di nuovo, e da pochi mesi siamo nuovamente solo noi, io e i miei figli, senza altri famigliari. Per i due grandi è ritrovare una dimensione che avevamo, e per i due piccoli scoprirla, in quanto troppo piccoli per ricordare di quando eravamo insieme.

Ci sono momenti in cui mi dico: sì sono presente, sono con loro, ma è sufficiente questo? Loro sono costretti a molte rinunce, molte esperienze gli sono negate. Non intendo grandi cose, ma penso all’andare in piscina, a fare una passeggiata in uno splendido pomeriggio autunnale, ma anche solo l’andare insieme in un supermercato, in un centro commerciale. Fortunatamente queste esperienze i miei figli le fanno, posso contare su una sorella che mi sostituisce nelle cose che io non posso fare, ma anche lei ha la sua vita.

La detenzione domiciliare è impegnativa, richiede capacità organizzativa e una forte motivazione per sopportare un ménage alienante e nel mio caso una solitudine estrema. Io mi ritengo una madre responsabile, apprezzo la compagnia dei miei figli, ma non mi basta comunicare solo con loro.

 

Servono grandi capacità organizzative per gestire una vita quotidiana complicata

 

Posso uscire giornalmente un’ora e mezzo, in quel tempo devo sbrigare tutto ciò che concerne la mia famiglia numerosa. Come ho risolto questo? Programmo il tempo settimanalmente:

un giorno è dedicato alla spesa. In questo caso devo aver programmato già, almeno in linea di massima, tutto ciò che cucinerò quotidianamente per tutta la settimana, nessun errore o dimenticanza, ma questa capacità di programmazione ho imparato a esercitarla già in carcere con la spesa da fare una volta a settimana al sopravvitto;

un giorno a settimana l’uscita si accavalla con il lavoro ed è persa;

il fine settimana ci sono i bambini ed è l’unica possibilità di fare un giretto, o meglio io tento di proporre loro quelle cose così regolari tipo la passeggiata la domenica mattina… con il risultato che esco da sola con il cane, che così almeno lui abbia fatto il giretto…

L’andare per uffici poi è da curare nei dettagli, ora riesco ad andare in due uffici in un’unica uscita!

Ci sono poi tutti gli extra che accadono nel vivere e che richiedono l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. In merito a questo devo affermare che il magistrato mi ha sempre concesso i permessi relativi a necessità legate all’accudire i figli, vi è però da parte mia l’impegno a non eccedere nelle richieste, anzi a limitarle al massimo. Il fatto è che i figli sono quattro, ci sono settimane che sono spesso fuori ed è come una vita normale, ma non devo non posso dimenticare che invece così non è…

Se la gestione delle cose pratiche mi richiede una programmazione settimanale, quella dei bambini è stagionale. Questo perché devo richiedere le autorizzazioni per tutto. Di nuovo programmare corsi, orari, produrre documentazione, consegnare, aspettare la risposta e poi, forse, si fa. I miei figli devono vivere una realtà quotidiana normale come tutti e io faccio in modo che così sia, però sono costretta a circoscrivere e perciò limitare le possibilità.

 

Una vita "da documentare" giorno per giorno

 

Mi è capitato di dover andare dal dentista, stavo già soffrendo terribilmente, ho fissato l’appuntamento per telefono, nelle condizioni in cui ero mi avrebbe visitato in giornata, ma ho spiegato vagamente che mi serviva una attestazione dell’appuntamento, che il dentista mi ha fissato perciò dopo quattro giorni, e imbottita di antidolorifici mi sono recata all’ambulatorio per ritirare la dichiarazione da allegare all’istanza preparata e inviarla al magistrato di sorveglianza tramite questura. Ho avuto la prima autorizzazione e poi quelle seguenti per continuare ad andare a curarmi i denti, allegando sempre le dichiarazioni che il dentista mi ha scritto di suo pugno… come ha tenuto a farmi notare, rincuorandomi anche in qualche modo, perché ho percepito in lui una certa comprensione.

Trascorso non molto tempo dopo il mio rientro a casa, ho notato che il mio terzo figlio manifestava dei comportamenti che era necessario prendere in considerazione con attenzione. Credo di avere sufficiente competenza per riuscire a riconoscere una situazione di disagio e la necessità di un intervento, che io stessa poi ho proposto, decidendo di far fare al bambino musicoterapia.

Sono contenta della scelta fatta, quasi per caso, grazie al fatto che in quel momento stavo svolgendo un tirocinio presso una struttura che ospita ragazzi in situazione di disagio familiare e sociale. Lì c’è pure un centro terapeutico che offre servizi anche all’esterno, c’è lo psicologo, naturalmente io gli ho parlato e lui ha visto i bambini. Però il far fare la musicoterapica ai miei due figli più piccoli, perché gli fa bene, perché ho già potuto vedere dei risultati, rimane una scelta mia, lo psicologo non si prenderà mai la responsabilità di scrivermi una dichiarazione, e il magistrato mi ha sì permesso di accompagnare i bambini al centro, però mi ha chiesto poi una motivazione scritta.

 

Ora sono nei termini per l’affidamento ai servizi sociali: aspetto con ansia che venga fissata la camera di consiglio, comincia ad essere troppo stretto questo beneficio della detenzione domiciliare. Stando a casa non sono davvero "fuori", sono come dietro ad un vetro, vedo ma sono separata. Deve esserci una barriera e tocca a chi deve starci dietro sapere di doverci stare. Quando si gode di un beneficio si hanno le chiavi dei cancelli ma non si devono usare.

Non è facile, sono stanca, il ménage quotidiano è dettagliato e scandito fino all’ossessione. Vorrei davvero reinserirmi nel mondo del lavoro, ho un progetto, mi sto preparando per questo, frequento una scuola serale, che è pure una boccata d’aria fresca, ma sono in dubbio: riuscirò ad inserirmi potendo esprimere le mie capacità e potenzialità o questa macchia del carcere mi pregiudicherà il futuro per sempre?

"Mi stavo stancando di dipendere da qualcosa

prima l’eroina fuori, poi i farmaci dentro"

 

Una lettera coraggiosa sulla tossicodipendenza, sul metadone, sulla voglia di smettere

 

di Patrizia

 

Patrizia, da quando è a casa in detenzione domiciliare, ha continuato a mandarci lettere e articoli, per sentirsi viva e partecipe delle discussioni che il nostro giornale promuove, e anche per non provare la tentazione di dimenticarsi dei problemi che l’hanno portata "dentro". Proponiamo ai nostri lettori queste sue opinioni sul metadone, sulla molla che ti porta a smettere di drogarti, sul carcere, sperando che altri intervengano con posizioni diverse, osservazioni, critiche, per mantenere vivo il dibattito sulla tossicodipendenza. Non dimentichiamoci però che su tutti noi che ci occupiamo di questi temi incombe "minaccioso" il disegno di legge Fini, che probabilmente a persone come Patrizia imporrebbe come unica scelta (o meglio, non-scelta) la comunità o il carcere.

Adesso che sono a casa, adesso che posso uscire dal mio domicilio per svolgere attività lavorativa, mi rendo conto di come nel territorio poco sia cambiato dal punto di vista sociale, almeno per quel che riguarda la tossicodipendenza, che è la questione che mi sta a cuore. Parlo di persone che sono in cura presso il Ser.T., persone che conosco perché anni fa frequentavo, persone la cui vita non è cambiata molto da allora. Naturalmente non posso avvicinarle perché la mia condizione me lo vieta, posso vederle solo di sfuggita da lontano, ma il fatto che si ritrovano nei soliti posti di anni fa mi fa capire che le loro abitudini, la loro quotidianità è la stessa di allora. Già li vedo, quando si alzano la mattina, vanno a prendersi il metadone, si ritrovano in gruppo sulle panchine, se hanno i soldi si comprano qualche birra e stanno lì, a parlare, a bere e se capita qualcosa di meglio ben venga. La gente che passa, li guarda con la coda dell’occhio, li schiva indifferente, vuole far finta che non ci siano. Il bello è che la cosa è reciproca, anche il tossicodipendente è indifferente, c’è solo lui e il gruppo, parlano delle loro storie e quello che c’è attorno a loro non esiste.

Il problema è che nessuno fa niente, non fa niente la gente comune, non fa niente il tossicodipendente e cosa peggiore fanno poco i servizi territoriali, penso di potere dire che spesso è più conveniente (anche dal punto di vista economico) dare il metadone che aiutare il tossicodipendente a smettere di assumerlo. Il tossicodipendente quasi mai si rivolge al Ser.T. perché vuole smettere di drogarsi, lo fa perché è stufo di sbattersi per trovare l’eroina che non sempre si trova sulle piazze, non sempre è buona e poi ci vogliono i soldi che non sempre ci sono, e per procurarseli si cade nell’illegalità con il rischio di essere arrestati. Si rivolge al Ser.T. perché lavora e quindi ha bisogno di essere coperto, altrimenti non potrebbe lavorare, perderebbe giorni e alla fine sarebbe licenziato. Si rivolge al Ser.T. per tanti motivi ma quasi mai perché vuole smettere.

Arriva al Ser.T. che non è nella sua forma migliore, magari sta male e la sua mente non è nella condizione di ragionare con lucidità, si affida totalmente al servizio che quasi sempre gli propone il metadone a mantenimento.

Una ragazza che conosco e che vedo spesso perché lavora con la mia stessa cooperativa, mi ha raccontato che lei si faceva tanto e avendo una bambina ad un certo punto ha deciso di smettere di "farsi" di eroina, si è rivolta al Ser.T. per farsi aiutare, voleva il metadone a scalare per togliersi il vizio, per voltare pagina; invece di darglielo a scalare le hanno consigliato, visto il quantitativo di eroina che assumeva ogni giorno, di prendere il metadone a mantenimento, e lei in quel momento era fragile, con molti problemi e paure, così ha accettato. Dopo un anno circa si è resa conto che così non andava bene, che dipendeva dal metadone, sapeva che senza sarebbe stata molto male ma non poteva continuare, non era una vita normale, serena, la sua, e allora ha deciso di scalare il metadone, e questa volta era ferma sulla decisione, ma è stata sua la decisione, non del Ser.T., questo è il punto.

Io vorrei sapere in quante occasioni è stato il Ser.T. a proporre al tossicodipendente di assumere il metadone a scalare. Io penso che oltre a somministrare il metadone, i servizi dovrebbero lavorare in modo costante e attento all’analisi psicologica del tossicodipendente, aiutarlo a trovare dentro i suoi sogni la voglia di diventare quello che vorrebbe essere, soprattutto aiutarlo a non prendersi in giro, a non vivere nella convinzione che la sua unica esistenza possibile sia quella che sta vivendo. Bisogna offrire una possibilità di scelta, forse qualcuno bisognerà costringerlo perché non ha la forza e gli obiettivi per farlo, ma costringerlo aiutandolo a capire chi è, essergli amico, dargli fiducia anche sapendo che potresti restare deluso perché all’inizio, da lui, avrai solo e soprattutto bugie, il drogato mente già a se stesso, gli è quindi facile mentire anche agli altri.

Io personalmente, anche se mi costa dirlo, sono guarita in carcere, sono stata costretta vista la situazione, non costretta dagli altri ma da me stessa. Se fossi stata fuori non so se o come avrei smesso, in carcere è diverso: hai molto tempo e io lo usavo per pensare, per guardarmi dentro, e quello che vedevo non mi piaceva, non volevo più mentire a me stessa dicendomi che stavo bene. Mi stavo stancando di dipendere da qualcosa, prima l’eroina fuori, poi i farmaci dentro, il tran tran della terapia, ogni giorno avevo la nausea, così mi sono fatta togliere tutto quello che assumevo, naturalmente a scalare. Ho cominciato a sentirmi viva, ad impegnare il tempo in modo produttivo e ad andare in qualche direzione. Adesso sono a casa e sto lottando molto per ricostruire la mia vita, mi sento forte, il mio corpo e la mia mente sono miei, non suoi (della droga), e questo mi piace. Posso fare quello che voglio perché decido io, non "lei".

Ci sono molti mali nella nostra società, ma quello peggiore è l’indifferenza. Ma se non si è indifferenti ai temi della droga, bisogna almeno provare a parlarne sgombrando il campo da ogni luogo comune: io ho provato a farlo.

 

 

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