Radiocarcere

 

La vita appesa a un filo

 

Ma quant’è difficile a volte per un detenuto telefonare a casa!

 

Quattro sono i colloqui telefonici che possiamo fare ogni mese, ma proprio quelle telefonate, che dovrebbero rappresentare per alcuni minuti il piacere di comunicare con i propri cari, si trasformano troppe volte in un momento di frustrazione, di nervosismo, di rabbia.

"Siete in tanti, non si riesce a farvi telefonare tutti!", ti dicono. È vero, siamo in troppi in carcere, dovremmo essere molti di meno.

Succede poi che con il nuovo Regolamento Penitenziario, entrato in vigore nel settembre 2000, il legislatore ha introdotto alcune sostanziali modifiche, una delle quali riguarda la durata massima di ciascuna conversazione telefonica, che ora è di dieci minuti (prima erano sei): un’ottima cosa, se non fosse che le linee sono rimaste le stesse, e per motivi di tempo non si riesce quindi sempre a fare tutte le telefonate consentite.

Più volte abbiamo fatto presente questo problema, sono successi anche fatti deprecabili, come quando qualcuno, preso da rabbia per non aver potuto telefonare a casa pur avendone diritto, ha frantumato il box telefonico della sezione. Ci sono infatti episodi e circostanze, anche molto piccoli per una persona dotata di un normale equilibrio, che in carcere invece a volte ti portano a toccare i limiti estremi della sopportazione. E ci sono detenuti che, incalzati dalla stanchezza e dalla frustrazione, arrivano alla perdita del controllo sino ad esplodere, e finiscono per fare danni, ma anche per rovinarsi, spesso per cose da niente, dopo avere per anni avuto un comportamento corretto e rispettoso. E così, fioccano quei rapporti disciplinari che sono sempre pronti a scattare, ed ogni rapporto può costare al detenuto la perdita di 45 giorni di liberazione anticipata: come dire che un momento di rabbia lo puoi pagare con 45 giorni di galera in più!

Si dovrebbe assolutamente trovare una soluzione, e non lasciare incancrenire il problema, che è fonte di forti tensioni, con persone esasperate perché non c’è stato il tempo per inserire la loro telefonata. E per un detenuto saltare una telefonata significa perdere una boccata di ossigeno; per i suoi cari, vuol dire sentir crescere la tensione, chiedersi che cosa può essere successo, attendere con angoscia crescente lo squillo del telefono.

Noi siamo soliti avvisare le nostre famiglie del colloquio in ogni modo possibile, giorni prima, o addirittura una settimana prima, proprio per non incorrere nel rischio di non trovare nessuno in casa, ed è poi desolante quando ci si sente dire: "Abbiamo provato, ma non risponde nessuno", o "Lei non ha potuto telefonare, perché è senza fondi!".

A molte persone è stato detto, quando hanno chiesto perché non sia stato loro possibile telefonare nonostante avessero soldi sul libretto, i famigliari fossero in attesa, e la telefonata spettasse loro di diritto, che non è colpa del carcere, che le linee sono quelle che sono e miracoli non se ne possono fare. Noi vogliamo allora sollevare il problema, per far capire che, per chi fatica a mantenere in vita i già fragili rapporti con i famigliari, saltare una telefonata può voler dire mettere la famiglia in un inutile stato di ansia e nello stesso tempo rischiare di lasciarsi prendere la mano dalla tensione e di perdere il controllo.

Quello che chiediamo è semplice: che vengano messe altre linee telefoniche. Perché già prima dell’entrata in vigore del nuovo Regolamento, con le telefonate di sei minuti, capitava di saltare qualche telefonata, ora sta diventando quasi una normalità il fatto che ogni tanto non si telefona. Ma per noi e per le nostre famiglie è una "normalità" pesante da sopportare, in una situazione nella quale già sono pochissime le possibilità di incontro e di condivisione di qualche momento di intimità.

 

Enrico Flachi

 

 

 

 

"Se questo è un uomo"

 

Cronaca di un giorno di ordinaria follia in un ordinario carcere sovraffollato

 

La testimonianza è tratta dal bollettino n. 2 (dicembre 2001) dell’Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore

 

Un anno e mezzo fa circa, su un quotidiano nazionale viene pubblicata l’intervista fatta ad un agente della polizia penitenziaria, riguardante massicci arresti effettuati nei confronti dei suoi colleghi dentro il penitenziario sardo della città di Sassari, (causa, un’accusa di tremendi pestaggi ai danni dei reclusi). In quell’intervista, in difesa dei suoi colleghi, l’agente, tra l’altro, dichiarava: "…Vorrei che i muri delle carceri fossero trasparenti, così tutti vedrebbero in quali condizioni siamo costretti a lavorare!…". Una frase, questa dell’agente, niente male. E come potrebbero essere diversamente interpretate le parole di uno che chiede la trasparenza del suo fare? Insomma, prima di giudicare gli effetti cerchiamo di esaminare le cause che li hanno determinati.

Niente male, come si diceva prima, seppure questa frase suona molto parziale, ovvero, partigiana. In poche parole, se i muri delle carceri fossero trasparenti, quale spettacolo si offrirebbe ad un eventuale ben intenzionato spettatore? Uno spettacolo "insolito" senza dubbio! La prima cosa che noterebbe sarebbe la lentezza con la quale procede l’esistenza lì dentro. Subito dopo si renderebbe conto che la matematica è un’opinione, vista la precisione con cui sono state incastonate le masse di esseri umani, nei piccolissimi spazi disponibili: sei uomini "blindati" nello spazio che, a mala pena, soddisferebbe i bisogni di uno (sic!)… e poi, via così, la stanza dopo la stanza, il piano dopo il piano, il raggio dopo il raggio. Comunque non sarebbe giusto affermare che in quegli stanzini, cosiddette celle, uno trascorre le intere ventiquattro ore che Iddio gli manda; ci sono anche gli spazi riservati ai passeggi, uno, suddiviso in quattro (quanti sono i piani), per ogni raggio (che sono sei, più il reparto femminile), pavimentati con lo stesso cemento con il quale sono stati innalzati i solidi muri divisori. Però, dal tempo previsto per i passeggi, ai quali si accede due volte al giorno, complessivamente per tre ore e mezza, bisogna detrarre il tempo che si usa per fare la doccia, (quattro docce per centocinquanta uomini circa) e coincide nello stesso orario previsto per i passeggi, e i conti sono presto fatti: negli stanzini si sta, ininterrottamente, per diciassette ore e quarantacinque minuti, più due ore e quarantacinque minuti tra un passeggio e l’altro: va anche ricordato, nonché aggiunto nel computo, il fatto che quasi tutti gli incontri che i detenuti possono effettuare fuori dagli stanzini - con i familiari, con gli avvocati, quelli religiosi (la funzione domenicale), gli intellettuali e didattici, compresi quelli con i medici, e l’accesso alla barberia – sono rigorosamente stabiliti negli orari previsti per i passeggi nell’aria aperta.

Riassumendo, in quelle tre ore e mezza sono state collocate tutte quelle cose, molte delle quali irrinunciabili, che rientrano nei diritti di un recluso. Le rimanenti venti ore e mezza sono caratterizzate, come si è già detto, dalla lentezza. Dalla lentezza con la quale passano le interminabili ore, alla lentezza (come se questa fosse contagiosa) con la quale si muovono i reclusi dentro gli stanzini. L’intero ambiente emana un’inconfondibile sensazione d’attesa, ossia una lenta attesa. Ma cosa fanno i reclusi in tutte quelle ore chiusi in quegli stanzini, oltre che lentamente muoversi e spostarsi, in quella lenta attesa? La risposta è niente! E quando si dice niente s’intende proprio niente, compresi tutti i significati, anche quelli più estremi, attinenti a questo così ampio termine. Non c’è la teoria, a qualsivoglia ramo della scienza appartenesse, che riesce a confutarci e convincerci che l’uomo anche quando non fa, pur sempre qualcosa fa, se l’uomo in questione si trova rinchiuso dentro una delle celle del carcere di "San Vittore".

Ci sono sempre dei reparti che, per un motivo o per l’altro, sono differenti dagli altri, ma qui non vogliamo parlare dei pochi bensì dei tanti, anzi dei tantissimi. E le venti ore e mezza di quei tantissimi, ecco come vengono trascorse.

 

Che succederebbe se tutti i sei uomini si alzassero nello stesso momento?

 

Verso le ore sette e mezza sono quasi tutti svegli, ma sarebbe un guaio se tutti si alzassero contemporaneamente: altro che i mezzi pubblici, nelle ore di punta. Non si esagera. Lo stanzino è lungo quattro metri e largo due metri e mezzo circa. Poi metteteci dentro sei brande di ferro (due a castello per tre). Poi ancora aggiungeteci i sei stipetti (cinquanta centimetri per cinquanta ognuno) e, infine, un tavolo (ottanta centimetri per cinquanta – per sei persone!) contornato con qualche sgabello, finisce l’inventario della cella. Il piccolo monitor che svolge la funzione del televisore è posto sopra gli stipetti, in un angolo della cella, visibile da tutti. Ma qui parliamo dell’inventario ministeriale e non di quello personale, cioè non del vestiario e degli oggetti di proprietà del recluso: tra i vari cappotti, gli accappatoi, gli asciugamani e i vestiti che solitamente si usano per gli incontri coi familiari, o per i processi, immaginate allora quanto spazio ci rimane e quale confusione si creerebbe se tutti i sei uomini, come si accennava prima, si alzassero nello stesso momento, ovvero, alle sette e mezza di mattino. Perciò, mentre uno è in bagno, l’altro riceve dallo spioncino (una apertura nella porta, larga ventitre centimetri e alta diciotto) la razione del pane giornaliero, la frutta (di solito due mele a testa) e, se vuole, un bicchiere di latte, mentre gli altri quattro stanno buoni buoni dentro le loro brande. Una volta finiti i turni con il bagno (come esce uno dal bagno un altro entra; mentre quello ritorna nella propria branda un altro scende per aspettare il suo turno) arriva il cosiddetto passeggio. Dopo il primo turno dell’aria e in attesa del secondo, di solito si mangia quello che passa il convento. Alle ore quindici e un quarto si entra definitivamente in cella, per rimanerci fino alle nove del mattino seguente. E in quelle diciassette ore e quarantacinque minuti, cosa si fa? Ripetiamo ancora una volta, niente!

In realtà si ha l’impressione che qualcosa pure si tenta di fare, ma codesti tentativi non sono altro che le interpretazioni di certe mosse e di certi movimenti del nostro corpo, e che l’altro, il nostro compagno di sventura, intuisce ancor prima di qualsiasi messa in atto da parte nostra, cioè, il nostro impercettibile gesto di tentare di fare qualcosa viene, in un lampo, percepito dal nostro compagno che, per puro istinto di difesa, accenna a sua volta la sua volontà di tentare di fare qualcos’altro. Il gesto di questo viene poi percepito anche dagli altri occupanti dello stanzino e il muto comunicare tra le sei persone comincia ad intrecciarsi e ad interpretarsi arbitrariamente. E tutto questo a volte dura per ore intere. Al nostro occasionale e ben intenzionato spettatore sembrerebbero tutti pazzi.

Alla fine anche la lotta coi gesti e i movimenti viene interrotta (siffatta lotta non termina mai, viene soltanto, per poco tempo, interrotta da una tacita tregua) da uno che improvvisamente accende il televisore con intenzione di vedere qualche programma attraverso il piccolo monitor, ma c’è sempre un altro al quale questo, e proprio questo programma non va: questione di gusti, o Dio sa di che cos’altro. Un altro poi, nello stesso momento e dallo stesso discusso programma, trae lo spunto per raccontare il suo calvario processuale, ma difficilmente trova qualcuno che lo ascolti più di qualche attimo. Tuttavia questi continua a parlare e a parlare, pur consapevole che nessuno lo ascolta. Soltanto verso la fine del suo soliloquio, al quale nessuno ha voluto partecipare, il nostro oratore comincia a rendersi conto che il rivivere certi attimi della vita, per lui fatali, ha ulteriormente scosso la sua anima, ormai quasi del tutto dilaniata.

Poi c’è quello che accenna di voler raggiungere il tavolo per scrivere la lettera ai suoi a casa, ma, guarda caso, gli altri due si sono già seduti intorno allo stesso, con seria intenzione di finire una partita a carte iniziata Dio sa quando e che con molta probabilità non finirà mai, o meglio non finirà nel modo di come di solito finiscono tutte le giocate con le carte: con un vincitore e, di conseguenza con un perdente.

 

E poi arriva la sera e, infine, la notte, e con la notte arrivano i lamenti e le grida

 

Un ambiente strano questo carcerario: nessuno vuole accettare la sconfitta, come se avesse ancora qualcosa da perdere. Perciò, dopo ogni partita di carte, nessuno dei giocatori si dichiara sconfitto: il vincitore, per il fatto di aver vinto, e il perdente si dichiara solo perseguitato dalla solita sfortuna; insomma, sfortunato, ma non sconfitto. Una logica tutta interna, e largamente diffusa fra i giocatori meno abili. A scuotere questa apparente tranquillità pomeridiana è la voce dell’agente che invita uno degli occupanti dello stanzino a raggiungere la rotonda, perché lo vuole l’ufficiale giudiziario. Questi così detti ufficiali giudiziari qui li chiamano "Aquila nera". Quando questi signori chiamano qualcuno significa soltanto una cosa: o un altro mandato di cattura, o un rigetto, oppure una multa da pagare, o la fissazione della data di qualche udienza, o qualche altra disgrazia simile.

Una volta rientrato nello stanzino, lo sfortunato compagno tenta di coinvolgere anche gli altri (e con chi altro sfogarsi?), raccontando quella maledetta storia alla quale lui è completamente estraneo. Altri lo guardano senza dargli né ragione, né torto; comunque, lo guardano con un’espressione severa e seria (tale espressione del viso contiene in sé il massimo del rispetto che un recluso può mostrare a un altro: come per dire, per il momento non penso ai miei guai, i miei pensieri e la mia comprensione sono rivolti ai tuoi). Se poi dentro a quell’espressione non ci fosse nessuno di quei nobili sentimenti poco importa, è il gesto che importa. Questo allo sfortunato basta e avanza, anzi, se non è un deficiente, preferisce che le cose stiano così, perché domani toccherà a lui il compito di sollevare un altro con la stessa espressione del viso, severa e seria. Se non altro il nostro compagno sfortunato in quel momento sarà in pace con la propria coscienza.

A volte capita che qualcuno decide di leggere un libro, e come per incanto il volume del televisore si alza proprio in quel momento; si discute a voce alta sulle immagini che scorrono sul piccolo monitor; si ride rumorosamente; si osserva che con la luce spenta l’immagine sarebbe più chiara… insomma, dopo appena qualche pagina, il libro viene chiuso e, guarda caso, nello stesso istante qualcuno scopre che questo film ormai l’hanno visto già tutti, e nessuno può mostrarsi interessato a seguirlo.

Speriamo che ormai abbiate capito cosa intendevamo dire quando affermavamo che dentro le celle di "San Vittore" non si riesce a fare niente!

Si, è vero, qualcuno potrebbe osservare, e con tutte le buone ragioni fare questa domanda: "Ma se le cose stanno veramente così come descritte in questi fogli, allora come si è riusciti a scriverle?". E poi aggiungere quasi maliziosamente: "Quella tesi a cui vi siete così tanto affezionati, e cioè che in un posto simile non si riesce a fare niente, è stata confutata proprio con questo scritto".

Quando, durante la seconda guerra mondiale, dentro l’occupata Parigi, un ufficiale tedesco mentre ammirava il capolavoro Guernica si rivolse a Picasso con le parole: "Ha fatto lei questo quadro?", il pittore spagnolo rispose: "No, l’avete fatto voi"!

La stessa risposta la potremmo dare anche per quello che riguarda questo scritto… Mah! Torniamo a noi. E poi arriva la sera e, infine, la notte. Finalmente la pace, penserete voi, ma vi sbagliate. Col giungere della notte, arrivano i lamenti e le grida. Le chiamate provenienti da diversi stanzini, rivolte agli agenti, con lo scopo di poter accedere alla stanza chiamata "Pronto Soccorso", sembrano non finire mai. E gli agenti, spesso, sembra che non ci siano proprio – ma anche questo sarebbe un altro argomento che non approfondiremo ora.

E dai e dai, alla fine tutto si quieta… o almeno appare così a quelli che vinti dalla stanchezza, finalmente trovano quella pace che soltanto il sonno può dare.

 

Ivano Longo - Gruppo Aurora Carcere di San Vittore

 

 

 

 

Detenuto straniero e telefono: un impossibile percorso a ostacoli!

 

In carcere i colloqui e le telefonate non bastano per far sentire il calore della famiglia… ma chi li può avere è già un privilegiato, soprattutto tra gli stranieri

 

Il carcere è un luogo di sofferenza: è la punizione e la separazione totale dalla libertà per chi ha violato la legge, ma non basta, è anche la separazione da tutte le persone che contano di più nella vita di un uomo. Ed è anche il posto dove si scopre che i normali problemi della vita quotidiana, telefonare, parlare con i propri cari, incontrarli, lì diventano veri e propri percorsi a ostacoli, soprattutto per chi proviene da altri paesi.

Ogni essere umano che si trova dietro le sbarre ha bisogno di appoggio affettivo, per sentire che non è abbandonato totalmente, e il colloquio con i famigliari è una cosa fondamentale per chi si trova in carcere: anche se dura poco è molto importante, perché cancella il peso della sofferenza e ti dà il coraggio di affrontare i momenti più difficili della vita carceraria.

I colloqui permettono di ricevere notizie sugli altri membri della famiglia, così il detenuto si sente un po’ più sereno e cerca, anche lui, di spiegare i suoi problemi, dimostrando che ha riflettuto sul suo passato, magari confessando di non essersi comportato in modo corretto prima di tutto nei confronti dei propri cari. Persone che ora soffrono per lui, che per venire a trovarlo affrontano tante difficoltà: devono passare dall’ambasciata, dall’avvocato, dal tribunale, tutto per avere l’autorizzazione a vederlo.

La difficoltà e la sofferenza sono più sentite da noi detenuti stranieri, perché la lontananza dalle famiglie rappresenta il peggiore dei problemi che si possono avere in carcere. Tanti di noi non hanno nessun colloquio con i famigliari e nemmeno contatti telefonici, perché all’ingresso hanno dato un "alias", ossia un nome falso che poi impedisce di rintracciarne la parentela, oppure perché questi parenti non hanno i mezzi economici per affrontare il viaggio fino in Italia, o ancora perché incontrano complicazioni nelle pratiche per ottenere il visto d’ingresso in Italia.

Uno straniero che torna dal colloquio con i famigliari, ancor prima di rientrare in cella sente già le urla dei suoi paesani, che lo chiamano per chiedergli come sta la sua famiglia, ma anche se ha saputo qualcosa dei loro parenti: chi non ha nessun contatto diretto con il mondo esterno cerca di averlo tramite i compagni che fanno il colloquio. Quelli che hanno già mandato un messaggio alla moglie, o ai figli, aspettano con impazienza notizie da loro e, qualche volta, mettono in imbarazzo i loro compagni che fanno da tramite: quando le notizie sono brutte, questi cercano di modificarle, o di non riferirle, o di rivelarle solo al momento giusto. Non tutti i detenuti reagiscono con calma, quando ricevono brutte notizie.

Un’altra difficoltà è quella che s’incontra nell’effettuare le telefonate con i famigliari, perché anche nel caso che siamo autorizzati a telefonare, sorgono altri ostacoli per effettuare la chiamata.

Il "colloquio telefonico" dura solo dieci minuti, si cerca di parlare velocemente e con meno persone, magari per dedicare qualche minuto a chiedere notizie delle famiglie dei compagni che non possono telefonare.

Qualche volta chiedi di parlare con una persona a cui tieni molto e non la trovi, allora cominci a preoccuparti, ti rimane il dubbio che le sia successo qualcosa di brutto e non abbiano voluto dirtelo al telefono. Qualche volta i genitori non hanno il telefono a casa e allora sei costretto a chiamare a casa di una sorella o di un fratello, se il telefono lo hanno loro. Qualche volta non si prende la linea, altre volte non risponde nessuno, perché i parenti non sono a casa, o risponde la segreteria telefonica.

Quindi l’unico contatto sicuro con la propria famiglia è la corrispondenza, ma spesso quando ricevi le lettere che portano notizie sulla vita dei famigliari ti senti ancora più deluso, e lo sei anche perché spesso non hai neppure i francobolli per rispondere.

E poi ti senti triste soprattutto in occasione delle feste, perché in queste giornate c’è una naturale nostalgia della propria famiglia, ognuno di noi cerca di cancellare mentalmente le distanze, ma le reazioni sono diverse da persona a persona: c’è chi beve, chi si taglia, chi litiga con gli agenti… un po’ a tutti manca anche quel minimo di serenità e di autocontrollo, che sarebbero necessari per non farsi altri danni.

 

Naufel e Abdul

 

 

Il primo colloquio non si scorda mai…
soprattutto se hai aspettato anni prima di poterlo fare

 

Ho rivisto mia sorella dopo sette anni; lei si è fatta tutto il viaggio da Stoccolma a Padova per vedere me, che sono detenuto da circa 2 anni. L’incontro con lei non è facile da descrivere: capisco che tutti i colloqui con i propri cari sono una cosa unica, ma io ho provato delle sensazioni che ricorderò finché avrò vita.

Prima guardavo spesso ai compagni che ogni settimana vengono chiamati per i colloqui: si preparavano fin della mattina, poi scendevano a trovare le loro famiglie... non era proprio invidia la mia… però avrei voluto provare anch’io quella sensazione.

Tanti miei paesani tengono nascosta alle famiglie la loro situazione e, anch’io, per ora non voglio che mia madre sappia che sono in carcere… quando telefono a casa (ogni due settimane) le racconto che sto lavorando… che non ho tempo per andare a trovarla… insomma è una sofferenza inventare sempre storie credibili.

Tutto questo non lo faccio certamente per cattiveria, ma per non farla preoccupare ulteriormente. La nostra cultura fa sì che siamo molto legati alla famiglia e, anche se commettiamo i nostri errori, non vorremmo mai far soffrire i genitori, non ce lo perdoneremmo proprio! Solo mia sorella e mio fratello sanno dove sono veramente. Per telefono parlo solo con mia madre e con mio fratello maggiore, la telefonata dura poco e non riesco a dire tutto quello che voglio, o a poter sentire la voce del resto della mia famiglia.

Mia sorella è in Svezia da circa quattro anni e non le parlavo né la vedevo da tanto tempo: l’avevo lasciata che era ancora piccola, una bambina di 12 anni, e mi sono ritrovato davanti una donna sposata!

Nell’ultima lettera mi chiedeva indicazioni sul modo di venirmi a trovare in carcere. Io mi sono informato, tramite i compagni, che mi hanno aiutato a capire la procedura per ottenere i colloqui: in pratica, era necessario compilare il modulo della richiesta, indirizzandolo poi al direttore (essendo la mia pena definitiva). Così ho potuto inviarle una lettera con la quale le ho spiegato dettagliatamente come doveva fare, ma fino all’ultimo momento non ci credevo…

Quando, quel giovedì pomeriggio, l’agente mi ha chiamato per il colloquio era come se mi stesse chiamando per uscire in libertà: ho fatto la doccia veloce come un fulmine, ho messo il miglior vestito, ho procurato dolci, bibite, caffè, come avevo visto fare a tutti gli altri quando devono incontrarsi con i parenti.

L’ora di questo incontro l’avevo immaginata, ma mi sembrava una cosa impossibile da realizzare: la lontananza, la burocrazia, il costo e la fatica e, non ultima, anche la difficoltà di comprensione della lingua con le autorità italiane erano tutti impedimenti che mi sembravano insuperabili. Ma forse la tanta volontà di ritrovare una persona cara è bastata a superare tutte le avversità… anche oltre alle mie più ottimistiche fantasie.

Ero lì, di fronte a mia sorella e a suo marito, eravamo così presi dall’emozione che quasi non siamo riusciti a parlarci, lei ha pianto per tutte le 2 ore… non sapevo se era per sfogare l’emozione del momento, se per gioia o per inquietudine, ma probabilmente tutte queste cose si fondevano, bloccando le parole.

Mi toccava, come per assicurarsi che fossi davvero presente, che stessi bene (mi vedeva dimagrito), con una preoccupazione quasi materna. Io ero interdetto, incerto tra farle una smorfia di sorriso e mostrarle tutto il mio stupore: quando l’avevo lasciata era una bambina e ora sembrava diventata mia madre, con le sue stesse preoccupazioni e ansie.

Così sono passate le prime due ore… senza quasi che ci accorgessimo del trascorrere del tempo, per fortuna avevo chiesto di fare altre due ore di colloquio il giorno dopo, venerdì, e un’altra ancora per il sabato: con una semplice richiesta al direttore tutto questo mi è stato accordato, anche perché sanno che, da quando sono detenuto, non avevo mai fatto un solo colloquio.

Quando sono risalito in sezione, quel giovedì pomeriggio, mi sono rinchiuso in cella… a ricordare, momento per momento, l’incontro appena terminato.

Non ho mangiato, non sono riuscito neanche a guardare le televisione, ero tutto preso a conservare gelosamente quei momenti indimenticabili. Io vi racconto questo perché per me è stata un’emozione fortissima, non avrei mai immaginato di poter essere così felice da detenuto: il carcere per me rimane un luogo di sofferenza, però è bastato rivedere mia sorella, dopo così tanto tempo, perché in me tornasse la certezza di riabbracciarla, presto, fuori di qui.

 

Karim

 

 

I giornali degli altri - Prospettiva Esse

 

Il giornale realizzato nelle sezioni femminile e maschile della Casa Circondariale di Rovigo. Ce ne ha parlato Livio Ferrari, che è stato uno dei suoi fondatori

 

Quando è nato "Prospettiva Esse", e com’è gestito?

 

L’idea nasce da un detenuto, circa 5 - 6 anni fa, fine anno del 1996. Una proposta fatta da un detenuto, che voleva fare arrivare all’esterno la voce del carcere. Più che altro, voleva fare un giornalino all’interno che coinvolgesse tutti i detenuti, pensava ad un foglio "volante"... Insomma una cosa così. Quando ha coinvolto noi del volontariato, gli abbiamo proposto, invece di fare solo una cosa così ridotta anche nell’obiettivo, di puntare a una iniziativa più "robusta" e farla arrivare fuori. Perché in fondo, serviva ai ragazzi dentro, ma avrebbe dovuto anche servire, secondo me e altri volontari, a portare fuori queste voci. Ci trovammo d’accordo, e da allora è iniziata la storia di "Prospettiva Esse".

E’ una storia difficile da portare avanti, per il semplice motivo che è fatta all’interno di una Casa Circondariale. Il che significa che ogni due, tre, cinque mesi mi cambia la Redazione. E’ gestito così: i detenuti preparano gli articoli, poi ce li danno, ultimamente su dischetti, mentre noi, attraverso un gruppo di volontari, predisponiamo tutto l’aspetto grafico.

In questi cinque anni la redazione è cambiata 6 - 7 volte. In genere c’è qualcuno che fa da capofila, nel senso che traina tutto il gruppo, e diventa un po’ quello che internamente coinvolge gli altri. Però via via, gli altri si susseguono, cambiano, escono, sono trasferiti. Diciamo che questo è l’aspetto più problematico e più difficoltoso, perché di volta in volta bisogna rimotivare, rispiegare, rimettere in circuito tutte le informazioni che erano appannaggio di coloro che avevano precedentemente portato avanti l’iniziativa.

 

Avete delle rubriche particolari? E con quale criterio sono scelti i temi che trattate?

 

All’inizio c’era una rubrica significativa che poi è stata abbandonata, si chiamava "Una lettera aperta" e veniva praticamente rivolta, attraverso il giornale, a istituzioni pubbliche o ad enti privati, o al territorio, su questioni che si pensava non andassero bene: in tal modo si cercava di stimolare un confronto-dibattito o addirittura delle proposte nuove rispetto ai problemi sollevati. Negli ultimi anni diciamo che invece la rubrica che trova maggior spazio è il racconto di quello che succede "dentro".

Quello che si cerca sempre è di coinvolgere il mondo esterno: ad esempio, abbiamo fatto per il penultimo numero una copertina nella quale s’invitava il Sindaco di Rovigo, eletto da poco, a farsi coinvolgere, a interessarsi dei problemi dei detenuti, a venire a visitare il carcere. Cosa che è poi successa.

Ci interessa la quotidianità, quello che succede tutti i giorni, attraverso le iniziative, le attività, che costituiscono in fondo la "memoria storica" del carcere e delle persone che stanno dentro, e poi ci sono spesso degli articoli di carattere generale che parlano un po’ dei problemi della carcerazione, un po’ anche di politica e di come si "vive" il mondo esterno stando dentro.

In "Prospettiva esse" cerchiamo di coniugare, pur non potendo lavorare insieme, due carceri, che sono quello maschile e quello femminile, riunite nell’Istituto di Rovigo. Purtroppo non c’è mai stata data la possibilità di fare una redazione unica, perciò dobbiamo organizzare incontri separati.

 

Con che frequenza avvengono gli incontri di redazione?

 

Andiamo una volta alla settimana al maschile e una volta al femminile. Abbiamo però finalmente una sede, diciamo che rispetto alla vostra è molto poco, è piccola, ma ci sono voluti anni per averla: si tratta di una cella con dei computer che noi abbiamo portato dentro, e questo dovrebbe servire a loro della redazione durante il giorno per poterci lavorare, e una buona cosa è che c’è anche l’autorizzazione a recarvisi nei giorni di festa. Questo però non sempre avviene, primo perché di usare i computer non tutti sono capaci, e non saperli usare diventa frustrante, e poi perché ci sono periodi in cui ci lavorano persone più motivate, e altri in cui l’interesse è più discontinuo.

 

Avete fatto qualche corso per preparare i ragazzi sia ad usare i computer, che ad affrontare l’attività giornalistica, migliorando anche la qualità della scrittura?

 

Non lo abbiamo fatto, ma lo stiamo per fare, nel senso che da un anno a questa parte abbiamo realizzato un enorme salto di qualità. Abbiamo prima di tutto coinvolto un giornalista professionista e un fotografo professionista, e abbiamo già presentato la domanda in tribunale per la registrazione della testata. Perciò, potendo contare su queste persone, è il giornale stesso che ha assunto un carattere, una veste diversa. Credo, tra l’altro, che non siano tanti i giornali dal carcere che abbiano fotografie proprio con agenti o detenuti che sono lì dentro. Non sempre si riesce a fare un’operazione del genere, noi ci siamo riusciti, non so se per sbadataggine o che altro, ma ci siamo riusciti. Adesso un giornalista fa dei corsi di giornalismo ai ragazzi, un fotografo inizierà a fare dei corsi di fotografia, per capire, magari anche se non saranno proprio loro a fare le fotografie, ma che cosa vogliono e come le vogliono, e come farlo.

Penso che, per quanto riguarda le fotografie, dovremmo prendere esempio da voi, perché è molto importante descrivere non solo attraverso le parole, ma anche attraverso le immagini cosa è il carcere.

 

Per quanto riguarda i finanziamenti, come riuscite a finanziarvi? Avete delle sovvenzioni?

 

Sin dai primi anni abbiamo un piccolo contributo, molto piccolo, dall’Amministrazione Provinciale di Rovigo, che ci serve per le spese in generale. All’inizio ci serviva anche per stampare il giornale, che era tutto in bianco e nero, non tantissime pagine, con una spesa abbastanza esigua. In questi ultimi anni invece abbiamo iniziato a stamparlo con la copertina a colori, perciò la spesa è già aumentata, e sicuramente anche la qualità. In questi ultimi anni c’è stato un impegno da parte dell’Istituto per pagarlo.

 

Il direttore del carcere è anche il direttore del giornale?

 

No! Il direttore del carcere è il "proprietario" del giornale. Il direttore del giornale è Sergio Sartori, che è addetto stampa della provincia di Rovigo.

 

Noi nel nostro giornale abbiamo scelto di dare una certa attenzione agli stranieri ed ai molti problemi che hanno. Nella vostra redazione, in che misura sono presenti detenuti stranieri e quali sono i loro ruoli, se ci sono?

 

Si, gli stranieri hanno sempre partecipato. Cerchiamo, attraverso la loro presenza, che ci portino anche la loro cultura, la loro maniera di vedere il carcere. Per capire punti di vista diversi rispetto a questi problemi, a come vivere in carcere, a come superare le conflittualità sempre molto diffuse. Allora la presenza di tutti nel giornale credo che abbia un significato culturale che può arrivare a tutti, per evitare di aumentare quei muri che già ci sono abbastanza.

 

La diffusione come avviene? Avete abbonamenti?

 

Per il momento, non essendo stato registrato, il giornale è sempre stato distribuito gratuitamente, perciò la diffusione avviene internamente, nelle sezioni maschile e femminile, una copia ogni detenuto. Esternamente utilizziamo un indirizzario di enti pubblici, di privati, di altri detenuti in altri Istituti, o dei giornali delle carceri e di persone che hanno finito la carcerazione, ma desiderano riceverlo a casa, con una spedizione gratuita ogni volta che lo pubblichiamo.

Prospettiva Esse è trimestrale, tra non molto verificheremo se ci sono le condizioni per passare eventualmente ad una specie di offerta, di sottoscrizione. Dal punto di vista economico, sicuramente, più aumenta la qualità, più aumenta il costo, anche perché servono mezzi nuovi.

 

Che rapporto avete con la città? Siete riusciti a interloquire con enti pubblici e privati?

 

Il contatto c’è. Diciamo che anzi alcune volte, quando sul nostro giornale escono certi articoli ritenuti interessanti all’esterno, vengono ripresi anche dalla stampa locale. Il Gazzettino, Il Resto del Carlino e Il Corriere di Rovigo sono i tre quotidiani locali. Il Direttore del Corriere di Rovigo, da qualche tempo, entra in carcere e ha cercato di coinvolgere i ragazzi in un progetto di gestione di una piccola rubrica nel quotidiano della città.

 

C’è ancora qualcosa che secondo te sarebbe giusto fare conoscere ai nostri lettori, al riguardo di Prospettiva Esse"?

 

Il giornale ha avuto una funzione importante, secondo noi, per coinvolgere di più la direzione nelle attività. In genere c’è un grande scollamento di tutti coloro che operano in carcere, perciò gli operatori istituzionali, il volontariato, il privato sociale, gli agenti e i detenuti che sono lì, un po’ tutti, lavorano in compartimenti stagni. Diciamo che il giornale ha creato una maggiore visibilità di tutti, e forse una maniera migliore di collaborare, di vivere insieme. Ma è stato, secondo me, anche molto importante in questi anni perché ha portato fuori, soprattutto negli enti locali, questa voce, che a lungo era stata soffocata, al punto che neanche si sapeva quasi che ci fosse il carcere nella città. Questo è un gran risultato. E’ un risultato che non risolve i problemi, ma la sensibilizzazione e la comunicazione verso l’esterno da parte di chi vive in questa realtà sono state e sono importanti.

 

Nicola Sansonna

 

 

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