Livio Ferrari

 

"Persone dentro e volontari fuori"
Giornata nazionale di studi su: volontariato penitenziario e informazione
Casa di Reclusione di Padova - 26 ottobre 2001

 

Livio Ferrari

(Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia)

 

Prima di tutto devo ringraziare il direttore Carmelo Cantone perché, da quando c’è lui, in questo istituto sono cambiate molte cose per quelli che lo frequentano. Siamo felici dell’invito del Centro di Documentazione Due Palazzi, che ci ha coinvolto in questa iniziativa, e ringraziamo anche gli amici del D.A.P., attraverso il dottor Di Somma, che è qui presente.

La maggior parte di voi è da anni impegnata in questo mondo. Molti hanno speso anni e anni della propria vita per entrare in questi luoghi e, se oggi siamo in tanti, lo si deve anche a voi, soprattutto.

Ho molte cose, certamente, da raccontarvi, che non possono diventare ovvie, perché voi mi insegnate la fatica, la difficoltà di un mondo troppo spesso lontano, di un mondo emarginato, checché se ne dica, pur parlandone sempre di più, soprattutto sull’onda lunga del Giubileo, un’onda che adesso si è un po’ rallentata: del carcere si è parlato molto, soprattutto lo scorso anno.

Nonostante tutto questo, però, il carcere rimane un luogo separato, rimane “altro” dal territorio e, questo, lo dico soprattutto per gli amministratori degli enti locali: aldilà di alcune situazioni particolari, di alcuni casi sporadici, il carcere è sempre un luogo a cui destinare piccoli investimenti, un luogo dove non c’è investimento da parte del territorio.

Allora abbiamo voluto fare una cosa: visto che oggi parliamo di volontariato, parliamo di comunicazione, abbiamo voluto contarci, per contare un po’ di più, per capire veramente chi siamo, perché in questi anni molte statistiche hanno “dato dei numeri”, nel vero senso della parola.

Abbiamo voluto veramente, con l’aiuto dei vari Provveditorati regionali sparsi in tutta Italia, del Dipartimento e degli Istituti, capire chi siamo.

L’analisi precisa, certamente con uno scarto che può essere dell’1 – 2 %, dice che in Italia, tutte le settimane, nelle carceri entrano 6.500 volontari, continuativamente, perché in questo numero non ci sono le altre 4 – 5 mila persone che, a diverso titolo, entrano in carcere durante l’anno: per qualche spettacolo teatrale, per una partita di calcio, etc., etc.

Perciò siamo 6.500 persone, un numero consistente, un numero probabilmente più grande di quello che molti di noi pensavano. Però non dobbiamo farci trarre in inganno da questi dati, perché in Italia sono attualmente funzionanti 206 Istituti (questo, almeno, è il numero che abbiamo rilevato) e, su 206 Istituti, ce ne sono 76 (che non è un numero basso) in cui il volontariato è praticamente assente, o inesistente.

Perché non c’è, o c’è poco e niente? Perché è osteggiato, come succede in alcuni casi: non solo al sud, badate bene, ma anche nel nostro civilissimo nord industrializzato; o perché il territorio è assente, o perché fa fatica, o perché c’è paura. Perché certamente non è la stessa cosa fare volontariato a Padova o farlo a Palmi, o a Reggio Calabria, o farlo in altre località dove la vita già tutti i giorni è più faticosa.

In questa elaborazione di dati, poi, il volontariato si mischia spesso anche al privato sociale, alle cooperative. Ci sono alcuni dati che ci indicano anche da chi è composto il volontariato penitenziario: in questi anni si è ridotta sempre di più, praticamente sta scomparendo, la figura del volontario singolo e sempre maggiore è il volontariato organizzato, e questo è un segnale positivo, perché allora abbiamo un volontariato che vuole darsi dei mezzi, che vuole darsi della formazione.

Io ho una mia idea in proposito, suffragata dall’esperienza di questi anni, che dove il volontariato manca, perché “osteggiato”, o comunque dove non c’è una cultura di attenzione da parte di alcuni soggetti istituzionali, molto spesso la colpa non è soltanto di questi soggetti, ma anche di un volontariato che non è capace di rappresentarsi, che non ha una cultura e una formazione tale perché possa rappresentarsi.

C’è anche da dire, però, che a volte siamo di fronte all’autarchia, dello Stato, di alcuni direttori. Il nostro Provveditore regionale, pur da pochi mesi qui nel Veneto, sa di alcuni casi, anche da noi, dove c’è la difficoltà, alle volte, di far comprendere quanto sia importante la presenza del volontariato per creare condizioni di vivibilità, per portare aria di vita, non l’aria di morte che si respira spesso nelle carceri.

Francesco, che prima mi ha preceduto, vi ha già detto una cosa sulla quale riflettere: il dato che salta agli occhi è che in Italia, su 55 Centri di Servizio Sociale, ci sono solo 35 volontari. Allora, uno si chiede come mai, da cosa nasce questa distanza? I Centri di Servizio Sociale servono proprio per il reinserimento, servono come presenza della comunità esterna che lavora per creare le basi per cui la persona non abbia più problemi di recidiva. Perché c’è questo fallimento?

Io ho una mia idea. Il fallimento più totale, in questi casi, avviene nei Centri di Servizio Sociale del Sud, dove non c’è neppure un volontario. Ce ne sono 20, su 19 Centri al Nord; 10 volontari su 14 Centri al centro Italia; nessuno nei 12 Centri del Sud e 5 nei 10 Centri delle isole. È un dato emblematico, sul quale dobbiamo riflettere, da non prendere così alla leggera.

C’è ora una necessità, amici miei: tutti quanti dobbiamo fare un passo in avanti, forte, veloce; un passaggio culturale forte, come volontari, perché il nostro compito lo stiamo facendo ancora con dei mezzi impropri, in una modalità assistenzialistica, non in una modalità che incide sull’emarginazione e crea progetti e strade per uscire da questa emarginazione.

Molto spesso, nel nostro atteggiamento di generosità, d’impegno, di qualità, non ci accorgiamo che siamo anche noi un anello di una macchina di emarginazione. Spesso non ce ne rendiamo conto. È una riflessione forte, dura, ma dobbiamo guardarci bene in faccia, rispetto a quello che facciamo.

In ogni caso, chiunque di noi deve avere anche un senso pratico nell’informazione sui problemi del carcere, perché c’è il rischio, anche qui, parlando di carcere, parlando da addetti ai lavori, di dare il senso della normalità e il carcere non è un luogo normale!

Non possiamo continuare a parlarne come sia un luogo normale. Possiamo portarci dentro tutte le televisioni, tutta la gente di questa terra, ma queste sbarre che lo dividono dalla società non possono farne un luogo normale.

E poi tutti i problemi che ci sono dietro, come il rapporto con le vittime, di cui si parla un po’ di più in questi anni ma che è ancora lontano dal divenire un rapporto vero, reale, sentito. Perché c’è chi ha fatto del male ma c’è chi l’ha subito, ricordiamocene. E c’è chi, dopo averlo fatto, subisce a sua volta del male.

Allora, non possiamo far finta che tutto questo sia normale, non possiamo far finta che sia un carcere normale quello che pagano le donne, in un carcere costruito al maschile, con una legislazione che è ancora “occhio per occhio, dente per dente”, che rispetto alla gravità del reato impone una gravità di pena, senza nessuna restituzione, senza nessuna riconciliazione.

L’altro dato forte, emerso da quello che diceva Francesco prima, è la recidiva: se nelle nostre case abbiamo qualcosa che non funziona cerchiamo di cambiarlo, perché questo è intelligente e umano.

In molti posti (e il carcere è uno di questi), pur non funzionando le cose, pur essendoci dei dati drammatici che parlano di autolesionismo, di suicidi, di salute che non c’è più (l’Associazione Nazionale Medici Penitenziari dice che l’80% delle persone, entrate in carcere sane, esce malato), non si sta facendo assolutamente nulla per cambiare.

Pochi anni fa, quando era Direttore Generale il dottor Margara, sul giornale “Repubblica” (che è uno dei quotidiani più letti, che fa opinione) c’era un articolo di grande allarme: “Attenzione, ci sono quasi 49.000 detenuti! Le carceri scoppiano!”.

Sono passati tre anni, ce ne sono oltre 58.000, che è un dato oltremodo drammatico, e nessuno ne parla più. Non si sente, in questo momento, nessun progetto politico che parli di carcere. Si è pensato di riportare i soldi dall’estero, i soldi di quelli che li hanno truffati prima, e quello è stato fatto subito, perché era un emergenza…

Ma ci stiamo prendendo in giro? Dov’era l’emergenza?! Qual era l’emergenza? Probabilmente qualcuno ha pensato bene che in questo carcere non voleva venirci, allora si è parato il fondoschiena. Questo, sicuramente… ma questi sono gli atteggiamenti politici di questi giorni, nella nostra nazione.

Allora, con tutto il rispetto dovuto a chi lavora, a chi s’impegna politicamente e in ogni ambito nel nostro territorio, noi non dobbiamo rimanere lì a fare le formichine, non guardando più in là del nostro naso, ma dobbiamo affermare quei diritti che sono di ogni essere umano, che sia o no rinchiuso in una gabbia.

Poi ogni giorno noi ci rinchiudiamo nelle nostre case in gabbie mentali, nel “Grande fratello” e in mille altre gabbie: quelle ce le facciamo da soli, senza nessun giudice che ce le commini, perciò a volte certe gabbie non sono così drammatiche come sembrano.

Chiudo il mio intervento, perché non voglio esagerare, ma mi piacerebbe parlare anche di cose che riguardano l’informazione corretta che è la richiesta del Centro di Documentazione Due Palazzi, ma che è la richiesta di tutto questo mondo carcerato, perché non deve essere solo il volontariato a portare fuori le idee: come diceva Ornella prima, i detenuti vogliono essere persone che hanno il diritto di dire quello che pensano.

Solo per il fatto che stanno pagando una pena per un reato commesso, per un errore fatto, non possono essere penalizzate anche nel diritto di dire quello che pensano. Non ci debbono essere cittadini di serie A e cittadini di serie B, ci devono essere cittadini in cammino, ognuno con la propria fatica, ognuno con i propri sbagli, ognuno con le proprie qualità.

Però, tutti insieme, per portare avanti quel cammino in cui crediamo e che fa sì che un nome come quello della nostra Associazione sia ancora un termine che abbia un significato, perché quello che sta succedendo in questi giorni mi fa pensare che tra poco sarà un termine desueto, sarà accantonato dal nostro vocabolario. Allora mettiamoci al lavoro perché abbia ancora un senso, per tutti noi, parlare di giustizia. Grazie.

 

 

 

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