Paolo Pierucci

 

Paolo Pierucci

 

Come CICA (Coordinamento italiano case alloggio Aids) ci fa molto piacere essere qui, anche perché avremmo avuto voglia di raccontare la nostra attività da dieci anni a questa parte, nelle nostre esperienze di case-alloggio per persone con Aids. Per questo auspichiamo ci possa essere un’altra occasione ed un altro invito. Quanto ad oggi, anche per motivi di tempo, preferisco proporre qualche riflessione sul sistema dei servizi, nel quale lavoriamo da dieci anni.

Questa mattina sono state offerte ai partecipanti alcune immagini suggestive: il tendone, il circo. gli equilibristi. Anche io, in questo senso, voglio offrirvi due immagini particolari, che nascono dalla nostra esperienza (fatta di volti, di storie, di percorsi e di provocazioni) e che, come la battuta che girava in mattinata, sono nate "strada facendosi". Sono immagini che, credo, debbano essere le coordinate di questa riflessione che vuol ripensare il sistema dei servizi, la collaborazione e l’integrazione tra gli stessi.

La prima immagine che voglio portare è quella della "bottiglia", come questa che è sul tavolo. Il contenitore, quindi, capace di contenere. Ecco, penso che dobbiamo tornare a fare i conti con l’accoglienza che, come diceva Keats, è fondamentalmente "capacità negativa". Accoglienza, quindi, non come abilità, non come arte di manipolare le cose per ingabbiarle e neppure come mera professionalità, ma come "capacità di tenere dentro", di fare spazio. di riconoscere la centralità e il volto dell’altro in quanto parte di noi e bene comune per tutti. Ecco la capacità di accoglienza! È in questo senso che, più di un generico sistema di servizi, mi piace parlare di "sistema di servizi di accoglienza", perché o i servizi si ri-orientano a questa capacità oppure non so quanto valga la pena investire in un indifferenziato sistema degli stessi. Ecco allora delineata la prima coordinata: una serie di servizi che abbiano recuperato la capacità di accogliere le persone perché attenti e capaci di riconoscere non solo bisogni (ce lo siamo detti più volte), ma anche i desideri delle stesse.

Il bisogno, infatti, implica appagamento e prestazione; il desiderio, invece, è il volto del richiedente che chiede di essere riconosciuto. Il desiderio implica l’attesa, la cittadinanza, ed esige reciprocità. Ecco allora una prima coordinata del lavoro di rete: recuperare quella capacità di accoglienza che ci costringe a riprendere in mano e a risignificare il senso del lavoro di rete ed il senso dell’integrazione. Se dobbiamo semplicemente "fare", se dobbiamo spendere

energie (attraverso operazioni di mera ingegneria strutturale) per inventare sistemi di rete e di integrazione che rispondono solamente a bisogni e a ragioni esclusivamente economiche, organizzative, aziendali o politiche, non dobbiamo meravigliarci che esista, poi, una distanza tra quelli progettati e quelli realizzati. Se il lavoro di rete, se il provare a mettere insieme le risorse del pubblico e del privato è fatto solo nell’ottica dell’economicizzazione, dell’organizzazione più funzionale, non credo che riusciremo ad arrivare da nessuna parte. Il lavoro di rete, infatti, è il luogo privilegiato dell’incontro e della progettazione; è il luogo per eccellenza del confronto tra realtà che si accolgono, che si fanno spazio reciprocamente, con pari dignità e che sanno, al di là delle parole, accogliere la diversità come vera risorsa. Il lavoro di rete è il luogo dove si costruisce una strategia del positivo e, secondo me, abbiamo tante cose positive ancora da valorizzare e che dovremmo recuperare al meglio. Dobbiamo uscire da quella logica di pensiero che ci porta a dire che noi lavoriamo con il residuo e con i residuali; i nostri servizi non sono residuali. Credo che dobbiamo sforzarci di recuperare il positivo che c’è in ognuno di noi, in ogni persona, nei nostri servizi, nelle nostre fatiche, e forse dovremmo crederci un po’ di più, perché ognuno di noi è sempre molto di più di quello che riesce ad esprimere. Questo vale per tutti, vale anche per gli amici che incontriamo nelle nostre realtà e nei nostri servizi; sono molto di più di quell’insieme di problematiche che portano, sono molto di più.

Questo è il lavoro di rete che ci interessa e che vorremmo costruire; un lavoro che parta da questo riconoscimento del desiderio dell’altro e che si pone l’obiettivo, appunto, di alimentare la capacità di tenere dentro e di fare spazio. un lavoro di rete che ontologicamente si radica nella scelta della comunità di prendersi cura di se stessa, perché solamente in questo modo sceglie di realizzare il suo bene. Ecco perché una comunità che si vuol prendere cura di se stessa non ha bisogno di richiedere interventi esterni, non ha bisogno di espellere, non ha paura di fare i conti con i bisogni, con i desideri, di riconoscere la cittadinanza dell’altro, ma riesce ad esprimere questa capacità di accoglienza: accoglienza di tutta la vita e accoglienza per la vita di tutti. Penso che sia solo dentro questa coordinata che riusciranno a prendere corpo le strategie, gli accordi di programma, i patti territoriali, il contratto di programma, la flessibilità e la continuità dei servizi. Se non recuperiamo questo orizzonte, che è anche etico e culturale, non credo che riusciremo ad arrivare alla meta. È in questo senso, e questo tendone ce lo ricorda, che dovremmo diventare degli artisti: dovremmo metterci ad inventare cose e a recuperare U‘eroe" che è dentro ognuno di noi. Tutti noi, infatti, abbiamo un po’ questa dimensione umana e divina allo stesso tempo; una dimensione reale, concreta e pragmatica, ma anche un respiro che guarda un po’ più in alto, che chiede di essere e che chiede altro.

Questa dimensione appartiene ad ognuno di noi e, non solo, appartiene anche a tutti gli amici che ci frequentano, che bussano alla nostra porta, a quella dei nostri servizi e con i quali proviamo a fare un percorso di riconoscimento reciproco. Ecco il senso della "bottiglia" quale prima immagine e prima coordinata di questa riflessione.

La seconda di queste immagini-coordinate che voglio offrire al dibattito è quella di un puzzle da ricostruire. Per proporla, ho deciso di farmi aiutarmi dal racconto di una piccola storia; una metafora sulla capacità/possibilità di integrazione tra i servizi che trovo molto adatta a riassumere, meglio di tante altre parole, quello che ho provato a dire in questi pochi minuti. Questa piccola storia - chiedo scusa a chi già la conoscesse - narra la vicenda di un importante uomo d’affari che ha due figli simpaticissimi e vivacissimi e che, in un pomeriggio qualunque, si trova a doverli gestire da solo, in casa, poi che la moglie si era dovuta assentare. Questo importante uomo d’affari, tra l’altro, si era portato a casa delle pratiche da sbrigare, pratiche complesse, e non sapeva come potersi prendere un po’ di spazio per fare il suo lavoro, a fronte delle pressanti richieste di presenza e di attenzione avanzavate, con insistenza, dai propri figli. Fu cosi che, pensandoci un poco, decise di inventare qualcosa per coinvolgerli: prese una rivista, la sfogliò accuratamente e riuscì a trovarvi una bellissima e coloratissima, carta geografica. Era una carta geografica del mondo intero, in cui ogni Stato era rappresentato con colori diversi. Fu allora che gli venne in mente di proporre questo gioco: strappò la pagina, la tagliò con le forbici in tanti pezzettini e propose ai figli di ricostruire il puzzle; allo stesso tempo si impegnò, una volta ricostruita l’immagine.

a portali fuori per prendersi insieme un gelato. Affidò cosi questa attività ai propri figli e, nella speranza di occuparli per almeno un paio d’ore, si mise nel proprio studio a lavorare. Se non che, dopo circa un quarto d’ora, i figli tornano da lui con il puzzle ricostruito. I:importante uomo d’affari rimase stupito e meravigliato: "Come è stato possibile che in un quarto d’ora abbiate ricomposto ciò che era cosi frammentato?". Fu il figlio maggiore a rispondere:

"È stato facile, papà. Sul rovescio di quella mappa c’era la figura di un uomo, il volto di un uomo. Noi ci siamo concentrati su quel volto e, dall’altra parte, il mondo si è ricomposto da solo!". Ecco allora la seconda coordinata di questa breve riflessione: recuperare nei servizi, accanto alla capacità di accoglienza, la centralità delle persone, con i loro volti e con le loro biografie. Questo, infatti, è l’orizzonte della nostra esperienza: di fronte alla sfida del lavoro di rete e di fronte alla fatica di integrare la frammentazione delle risorse solo se saremo capaci di "concentrarci sul volto delle persone il mondo si ricomporrà da solo" e i nostri servizi saranno degni di questo nome.

Questo è quanto augurian1o continuan1ente a noi stessi e questo è ciò che, oggi, vogliamo augurare anche ad ognuno di voi, nella speranza che la riscoperta del volto dell’altro e la riscoperta dell’accoglienza possano essere alcuni dei frutti più succulenti di questa tre giorni di riflessioni "circensi".

 

 

 

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