Carlo Perucci

 

Carlo Perucci

 

Vorrei riflettere con voi su cosa significhi efficacia, dal punto di vista della vita di una persona tossicodipendente. I tossicodipendenti maschi che arrivano ai nostri servizi hanno un rischio di morte che è 15 volte superiore di quello dei loro coetanei non tossicodipendenti. Per le femmine il rischio è 38 volte superiore. Ripeto quello che ho già detto molte volte: è impossibile recuperare un tossicodipendente morto. La sopravvivenza è una condizione della potenziale uscita dalla tossicodipendenza.

Molti, ossessivamente, continuano a parlare della "droga" come di un unico problema. Tutti coloro che affrontano realmente i problemi delle persone che usano sostanze, hanno ormai la consapevolezza che si tratta di sostanze diverse, associate a problemi diversi, la cui definizione come "droghe" dipende esclusivamente dal contesto sociale e giuridico nel quale vengono usate.

L’immagine e gli stereotipi che ci propinano i mass media: "droga uguale eroina" o "droga uguale cocaina" non hanno a che fare con la maggioranza di coloro che usano di sostanze, più o meno legali, che possono provocare "problemi".

Probabilmente in questa sala ci saranno molti di quel 70% di ragazzi sotto la dipendenza di una sostanza chiamata nicotina, che causa dipendenza farmacologica e che li porta a un comportamento ad altissimo rischio di morte (circa il 70% dei tumori del polmone sono associabili al fumo da sigaretta), anche se nel nostro Paese è perfettamente legale (e ci mancherebbe altro che non lo fosse). Molti studi mostrano come tanti giovani usano alcol ad alte dosi: l’alcol da noi è una sostanza promossa, sovvenzionata dallo Stato, pubblicizzata. Mi trovavo un mese e mezzo fa in quel bellissimo Paese che è l’Iran, dove l’alcol è una sostanza illegale, proibita, ufficialmente non si trova, è usato clandestinamente, è "droga".

In questi anni abbiamo imparato a conoscere nomi diversi MDA, MBDB, MDMA etc; recentemente compaiono notizie su un’altra sostanza che si chiamata chetamina, comunemente usata in veterinaria; altre notizie sul GHB. Sere fa, alla televisione, in una puntata di "ER, medici in prima linea", ho visto questa scena: un gruppo di ragazzi di colore arriva in un pronto soccorso. I medici trovano tracce di GHB nel sangue di una ragazza in stato evidente di agitazione: intossicazione da GHB! Peccato che il GHB, superate le dosi da effetto fisiologico, addormenti. Non ci si agita, si dorme.

Il panorama di queste sostanze è enorme ed è destinato a crescere. Alcune di queste sostanze, da un punto di vista farmacologico, non determinano una dipendenza. Alcune, da un punto di vista biologico, non determinano un danno diretto. Altre invece possono provocare danni gravi anche in prima assunzione, a prescindere dalla dipendenza. Molte hanno meccanismi d’azione simili a psicofarmaci di largo consumo. Alcune di queste sostanze, anche se sono caratterizzate da rischio ridotto di danno biologico diretto, possono determinare danni di carattere indiretto particolarmente rilevanti. Quanti dei ragazzi che hanno incidenti, spesso fatali, guidando a fari spenti nella notte, per vedere se è difficile morire, hanno abusato di droghe sintetiche. Ma quanto del danno che arrecano a se stessi e agli altri è causato veramente dalla "droga" proibita, quanto dall’alcol, e quanto dal modo con cui hanno usato/abusato di queste sostanze, legali ed illegali?

Sostanze diverse, quindi, comportamenti diversi, effetti diversi, molto dipendenti dal contesto di uso. Anche se utopisticamente vorremmo un mondo senza proibizioni, ogni società ha avuto e probabilmente avrà sempre sostanze "proibite"; i criteri di scelta dell’oggetto della proibizione e delle sue modalità dipendono da fattori culturali, sociali, economici, largamente indipendenti dalle caratteristiche farmacologiche e dagli effetti biologici delle sostanze. Ogni proibizione tuttavia, anche se, almeno nelle intenzioni, dovrebbe proteggere la maggioranza della popolazione provocherà sempre danni per minoranze nella popolazione. Tutte le politiche di contrasto delle tossicodipendenze dovrebbero quindi prevedere forti interventi di riduzione del danno, paradossalmente funzionali proprio alla efficacia degli interventi di controllo e repressione.

Ovviamente resta sempre aperto il problema del bilanciamento tra gli effetti negativi e quelli positivi delle politiche proibizioniste. In modo molto pragmatico mi permetto di sostenere che, dal punto di vista dei sistemi di intervento sociale e sanitario, dobbiamo ragionare a partire dalle condizioni reali quindi anche in rapporto alle condizioni ed alle regole di proibizione e controllo vigenti, non foss’altro che per ridurne gli (inevitabili) effetti negativi di fronte alla grande eterogeneità degli usi e degli abusi di sostanze si impone innanzitutto per il sistema socio sanitario il tema dell’efficacia dell’intervento.

Questo problema deve essere posto in modo diverso per sostanze diverse, per usi diversi, per abusi diversi; in qualche caso, in particolare per i servizi sanitari, è un problema che non può essere posto, perché si tratta di comportamenti che non sono potenziale oggetto di un trattamento. Cosa si intende per efficacia? Una definizione concettuale: la capacità dell’intervento di raggiungere gli obbiettivi per i quali è stato progettato ed effettuato: una seconda, in termini di misura: il beneficio che un individuo o una popolazione ricevono da un servizio, un trattamento, un programma di intervento. È quindi impossibile definire l’efficacia di un trattamento se chi ha proposto il trattamento non rende esplicito l’obbiettivo per il quale è stato proposto. Impossibile, di converso, attribuire un giudizio di efficacia ad un trattamento rispetto ad un obiettivo non pertinente rispetto

al trattamento valutato. Ad esempio è equivoco valutare un trattamento di mantenimento con metadone in termini di tassi di "uscita" dalla dipendenza dall’eroina: nessuno ha mai proposto questo obiettivo per il mantenimento con metadone. Servirebbe ad aiutare le persone a vivere in modo decoroso finché, in altro modo, non le si aiuta, se è possibile, a uscire dalla dipendenza dall’eroina.

Efficacia poi non significa "plausibilità biologica": il fatto che una sostanza abbia a che fare con un meccanismo biologico non significa che sia efficace. Che un dato trattamento farmacologico, relazionale, psicologico, sociale, sia coerente rispetto ad una teoria, un’ipotesi, un’epistemologia, non è condizione sufficiente per determinarne l’efficacia. Se interpretiamo la realtà in un certo modo, non possiamo giudicare un intervento efficace solo perché coerente rispetto al nostro modo di interpretare la realtà. Efficacia non significa coerenza rispetto ad epistemologie, ideologie.

Soprattutto l’efficacia deve essere dimostrata; devono essere cioè fornite prove (scientifiche), valutazioni empiriche che, nell’impossibilità di avere "vere" certezze, consentano di ridurre l’incertezza sulla quale basare le nostre azioni.

Come, nell’ambito dei servizi sociali e sanitari, provare l’efficacia di trattamenti individuali e collettivi, di cura e di prevenzione? Come si possono ottenere valide prove scientifiche di efficacia? Bisogna verificare/falsificare l’ipotesi che differenze osservate tra un trattamento ed un controllo siano dipendenti solamente dal trattamento o dal caso, ma non da altri fattori non "controllati" nell’esperimento.

È il modo con cui vanno scrutinati i farmaci introdotti nei servizi sanitari. L’ipotesi di efficacia di un trattamento, basata sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili deve essere falsificabile in modo empirico. Ipotesi di efficacia che non sono potenzialmente oggetto di tentativi empirici di falsificazione si pongono al di fuori del contesto di valutazione scientifica.

Gli studi scientifici che valutano l’efficacia di interventi socio-sanitari sono, in ogni campo, molto numerosi, e nessuno di coloro che dovrebbe utilizzarne i risultati può ragionevolmente conoscerli tutti, è difficile talora anche interpretarli; importante quindi il lavoro di "revisione sistematica". Anche qui a Torino ci sono persone che leggono tutti gli articoli pubblicati su un trattamento, ne valutano la qualità e ne sintetizzano i risultati. Queste revisioni sistematiche permettono di considerare se ci sono prove - non opinioni - sufficienti per ritenere un trattamento efficace oppure se è necessario fare altri studi per produrre nuove prove. La Cochrane Corporation fa proprio questo lavoro. Il gruppo di collaborazione Cochrane che lavora su alcol e droghe ha base a Roma e vi partecipano anche esperti dell’Università di Torino. Questo gruppo gestisce un archivio dinamico degli studi pubblicati che valutano l’efficacia dei trattamenti per le dipendenze da sostanze. Non è vero che nel campo delle tossicodipendenze non è possibile fare sperimentazione; molti ciarlatani in mala fede lo dicono e pretendono di regolare il sistema dei servizi sulla base di quello che credono, delle loro opinioni politiche, delle loro ideologie, e non di quello che è provato scientificamente. Esempio tipico potrebbe essere la pretesa di regolare per legge il dosaggio e le modalità di somministrazione del metadone.

Di questi studi però una larga maggioranza riguarda dipendenza da alcol (che deve essere considerata una dipendenza importante) poi sostanze allucinogene, sedativi, steroidi, anfetamina, circa il 23% riguarda studi sulle dipendenze da oppiacei. Va notato che una delle dipendenze (legali) di più difficile trattamento è quella da nicotina, per la quale sono disponibili revisioni sistematiche dell’efficacia degli interventi di cessazione del fumo e di quelli di prevenzione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto vorrei far notare come sia possibile ragionare in termini razionali anche sull’efficacia degli interventi di prevenzione: nel campo delle cosiddette tossicodipendenze prevale spesso un approccio ideologico, che pone la prevenzione in antagonismo con la cura, e vengono condotti interventi di prevenzione privi di ogni supporto scientifico, privi di evidenze di efficacia, a volte potenzialmente dannosi (si ricordi la campagna televisiva nazionale con gli "occhi bianchi"), esclusivamente basati su teorie, quando non finalizzati ad obbiettivi politici.

Degli studi che riguardano la dipendenza da oppiacei molto è stato studiato degli effetti del trattamento con metadone. Per quanto riguarda il trattamento con metadone di mantenimento: robusta evidenza di efficacia nella riduzione dell’uso di sostanze e della mortalità.

Quali sono i problemi principali dei servizi sanitari, non solo nel campo delle tossicodipendenze? Un grande problema è l’uso di trattamenti dall’efficacia non provata: ricordiamo il caso del cosiddetto trattamento Di Bella, le inaudite sofferenze provocate a persone che sono state illuse dall’efficacia di questo trattamento. Nell’ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma fino a non molti anni orsono c’era un reparto che trattava le persone affette da neurosifilide: non una stranezza locale, visto che un premio Nobel per la medicina è stato vinto per questa - falsa - scoperta. La seconda questione è il ritardo nell’applicazione di trattamenti dall’efficacia provata. Si potrebbero fare tantissimi esempi clinici, uno clamoroso recente è stato il ritardo dell’uso della trombolisi nel trattamento dell’infarto miocardio. Per il trattamento appropriato con metadone non si sa quanti anni dovranno passare ancora, sulla base dell’efficacia già dimostrata.

Ma che di un determinato trattamento sia stata provata l’efficacia in una sperimentazione clinica controllata non è sufficiente per garantire che poi esso sia efficace nella pratica dei servizi. Per ogni trattamento sarebbe necessario valutare l’efficacia nella pratica dei servizi. Ciò è indispensabile per quei trattamenti che per ragioni sociali, etiche, economiche, sono stati introdotti nell’uso corrente senza una preliminare valutazione sperimentale. E di questi trattamenti il sistema dei servizi per le tossicodipendenze è fin troppo ricco. Tre anni fa è stato finanziato dal Ministero della Sanità uno studio dal simpatico nome di Vedette che si proponeva obbiettivi ambiziosi, forse troppo ambiziosi: uno era quello di cercare di descrivere le pratiche cliniche all’interno dei servizi, l’altro di arrivare a capire da studi osservazionali qual era l’impatto sulla salute dei tossicodipendenti, in particolare quanto questi trattamenti riducevano la mortalità e l’incidenza di overdose, quanto aumentavano la ritenzione in trattamento, indicatore da molti ritenuto "surrogato" di efficacia del trattamento. Alcuni risultati preliminari. Sono state arruolate nello studio, tra il gennaio 1999 e il giugno 2000, circa 12.000 persone in trattamento presso i Ser.T. di tutta Italia.

La Regione che ha dato più adesione allo studio è il Piemonte, poi il Lazio. Non credo che sia un caso che ci sono due Regioni che non hanno partecipato allo studio: Lombardia e Veneto, e non perché in quelle Regioni si stiano facendo degli studi alternativi. Può darsi che in Lombardia e Veneto non ci sia bisogno di dimostrare l’efficacia dei trattamenti. Non abbiamo dati sufficienti per quanto riguarda l’Umbria, l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata. Tra poco dovrebbero essere disponibili i dati della Puglia. I risultati principali sull’efficacia osservata dei trattamenti saranno presentati in un convegno internazionale nella primavera del 2003 a Roma.

Invece posso anticipare i risultati preliminari sulle pratiche dei servizi. Primo punto: apparentemente i nostri dati danno ragione ai nostri autorevoli governanti, ai parlamentari che invocano l’uso di salvifici trattamenti alternativi al metadone. Mi soffermo sulla differenza tra metadone a scalare e metadone di mantenimento. n metadone a scalare dovrebbe essere un trattamento di breve durata a dosi che progressivamente si riducono, che avrebbe l’obiettivo di "detossificare". Il metadone di mantenimento dovrebbe essere un intervento di lunga durata, con dosi che non si riducono, e che dovrebbero sostituire temporaneamente la dipendenza da oppiacei. Di entrambi i trattamenti si conosce da studi sperimentali l’efficacia, quando siano supportati da un trattamento psicosociale.

Mi lascia molto perplesso la grandissima quantità di tentativi, ripetuti, di trattamenti di disintossicazione, di trattamenti a scalare, nei cosiddetti pazienti "incidenti", cioè nelle persone al loro primo contatto con il servizio. Appena arrivati in servizio, nel 35% dei casi, non si sa in base a quale valutazione, il primo tentativo dei servizi non è la stabilizzazione, è immediatamente la disintossicazione, l’approccio drug-free.

Arriva la persona dipendente da eroina, che ha trovato la forza di chiedere aiuto, e la prima cosa che gli offrono è la disintossicazione: non importa da quanto tempo è dipendente, quanta eroina consuma, in che condizioni sociali e personali si trova, la prima cosa che si prova è la disintossicazione! E i pazienti "prevalenti", cioè in carico al servizio al momento dello studio, circa un 35% è in trattamento di mantenimento con metadone, circa un 20% assieme a psicoterapia di supporto. Ma attenzione, questa fotografia viene dai Ser.T. che hanno risposto a questo studio, che non rappresenta due Regioni importanti come la Lombardia ed il Veneto e non rappresenta bene l’Emilia Romagna ed altre Regioni che non usano o usano poco il metadone.

Andiamo a vedere le dosi del metadone di mantenimento: negli studi sperimentali l’efficacia è dimostrata a livelli non inferiori a 60 mg, al di sotto di questi la somministrazione di metadone è equivalente a un placebo. Nei Ser.T. che partecipano allo studio dose media è di 40 mg. Paradossalmente ha ragione il Governo: la maggioranza dei trattamenti sono metadonici, ma con modalità assolutamente inefficaci ed inappropriate. Mi soffermo sui trattamenti a scalare: nelle sperimentazioni che dimostrano una debole efficacia del trattamento a scalare la durata media è di giorni, qui c’è una durata media di 64 giorni, paradossalmente maggiore di quella osservata per i trattamenti di mantenimento. In alcuni servizi si prescrive il metadone a scalare, per non dire che si vorrebbe provare un trattamento di metadone di mantenimento. È un effetto perverso dei messaggi politici ideologici "contro" il metadone: se ne fa uso, ma in modo inappropriato, con dosi insufficienti a determinarne l’efficacia, mascherando i (necessari) trattamenti di mantenimento con ipocriti cicli ripetuti e prolungati di detossificazione.

Che cosa significa questo? Che tutte le persone dipendenti da eroina che arrivano con molta fatica a decidere di rivolgersi ad un servizio pubblico, in meno del 20% dei casi ricevono un primo trattamento con metadone efficace, mentre la stragrande maggioranza riceve un "finto" trattamento con metadone che non può avere nessuna efficacia. Ecco a quale umiliante concezione una propaganda intimidatoria e ambigua ha portato la pratica clinica di tanti servizi pubblici! Già in uno studio pubblicato nel ‘98 era stato dimostrato che la ritenzione in trattamento, che sapete essere un integratore surrogato dell’efficacia del trattamento, a 200 giorni era maggiore dell’80% nelle persone trattate con più di 60 mg, e di circa del 20% in quelle con meno di 30 mg.

Vorrei, ancora una volta, riflettere con voi su cosa significhi efficacia, dal punto di vista della vita di una persona tossicodipendente. I tossicodipendenti maschi che arrivano ai nostri servizi hanno un rischio morte che è 15 volte superiore di quello dei loro coetanei non tossicodipendenti. Nelle femmine il rischio è 38 volte superiore. Ripeto quello che ho già detto molte volte: è impossibile recuperare un tossicodipendente morto. La sopravvivenza è una condizione della potenziale uscita dalla tossicodipendenza. Quindi i trattamenti che aiutano una persona tossicodipendente a non morire sono una condizione per l’efficacia di altri interventi che possono aiutarli a uscire dalla dipendenza. Agli inizi degli anni 90 disegnavamo i programmi di "riduzione del danno" con la motivazione dell’Aids.

Dei modelli matematici dimostravamo che l’andamento temporale dell’incidenza di infezioni Hiv era sensibilmente modificato dai programmi di "riduzione di danno". Soprattutto dimostravamo che ad un "piccolo" effetto nei tossicodipendenti maschi si associa un effetto molto più grande nelle donne non tossicodipendenti femmine. Quello che avevamo dimostrato che proteggendo la salute dei tossicodipendenti, in questo caso maschi, si riduceva l’incidenza dell’infezione Hiv nelle donne non tossicodipendenti. Anche con atteggiamento cinico e pragmatico, si può affermare che la protezione della salute di persone tossicodipendenti è uno strumento per la tutela della salute di tutta la popolazione. Aiutare i deboli, anche coloro che non sanno o non vogliono uscire "ora" dalla "droga", protegge ed aiuta anche, o soprattutto, coloro che riteniamo "forti e normali"!

Il programma di "riduzione del danno" ha avuto potenzialmente a Roma tra il ‘94 ed il ‘96 l’effetto di ridurre ogni 3 mesi l’incidenza di 10 casi d’infezione da scambio di siringhe usate e di 6 casi d’infezione Hiv da trasmissione sessuale. Cioè, se fosse durato dieci anni, ne avrebbe prevenuti 1073, di cui la metà da trasmissione sessuale. Mi permetto di rilanciare un messaggio per questo Governo: la necessità ed efficacia dei programmi di "riduzione del danno" è tanto più alta quanto più elevati sono gli interventi di controllo e di repressione.

Avrei molto da discutere con Livio Pepino sul razionamento dei servizi sanitari. In particolare sui cosiddetti livelli essenziali di assistenza. Mi permetto di dire che rispetto ai sistemi sanitari siamo sempre alle prese con una contraddizione insanabile: i bisogni di salute sono infiniti, o meglio indefiniti, anzi sono tanto più grandi quanto migliore è la condizione di salute della popolazione. Le risorse, però, sono sempre finite. Le risorse economiche che la società, indipendentemente dal tipo di sistema sanitario - sistema pubblico o sistema, come quello americano, privatistico - destina a un bene come la salute, sono costantemente in competizione con quelle che destina alla scuola, alle strade, alle ferrovie, ad altri beni individuali e collettivi. Che cosa succede in presenza di risorse definite a bisogni infiniti?

Un esempio: sopravvivenza a Roma delle persone con Aids. Fino al ‘93-’95 disponevamo di trattamenti per l’Aids di modestissima efficacia; ricordo che nel ‘93 la sopravvivenza media di una persona con Aids era 18 mesi. È cambiato tutto nel ‘96 con l’avvento delle cosiddette terapie combinate. Se nel ‘93 a 60 mesi dalla diagnosi era vivo meno del 30% della popolazione con Aids, nel ‘98 a 60 mesi è vivo l’80% di persone con Aids.

Grande scoperta scientifica, probabilmente con effetti negativi sulle dinamiche di circolazione virale nella popolazione di cui ci accorgeremo tra qualche anno, ma intanto grande beneficio per quelli che ne h armo fruito in questi anni. L’introduzione di un nuovo trattamento efficace - attenzione: in un servizio sanitario nazionale pubblico determina equamente benefici per tutti i malati di Aids? Purtroppo sembra di no. Prima non c’era differenza di sopravvivenza per livello socioeconomico, ma appena subentra un trattamento efficace comincia la differenza di sopravvivenza per livello socio economico, il nuovo trattamento è offerto ed è efficace per quelli più forti e non è offerto o non è fruito da quelli più deboli. C’è quindi, anche in questo sistema sanitario, un’iniquità nell’offerta e nell’accesso ad un trattamento dall’efficacia provata. Anche nei trattamenti di efficacia provata c’è addirittura un’iniquità sull’efficacia.

Prendo ad esempio la mortalità a Roma dopo un "efficace" intervento di bypass aorto-coronarico: a prescindere dalle condizioni di salute o dalla qualità dell’ospedale, le persone di livello socioeconomico più basso muoiono 2 volte e mezzo di più rispetto a quelle con un livello socioeconomico più alto. Non c’è solo quindi iniquità nell’accesso ai trattamenti, c’è iniquità nella qualità delle cure.

Ma come mai, allora, sembra in generale che i gruppi sociali più deboli "consumino" più servizi sanitari, dando l’impressione di un sistema che parrebbe dare, equamente, più servizi a coloro che stanno peggio? Il problema grave è che c’è iniquità nell’abuso di trattamenti di inefficacia dimostrata o di dimostrata inappropriatezza. Due esempi. La tonsillectomia è un intervento chirurgico ad alta probabilità di inappropriatezza. Non c’è nessun motivo per ritenere che l’incidenza di malattie che necessitano di tonsillectomia sia diverso tra bambini di alta e bassa classe sociale. Eppure i tassi di tonsillectomie nei bambini dei gruppi sociali più deboli sono più elevati del 50% rispetto a quelli dei bambini della più alta classe sociale. Tra donne ricche e donne povere ci si aspetta che il tasso di isterectomie sia uguale e tuttavia le donne di livello socioeconomico più basso hanno un tasso di isterectomie oltre del 65% più alto di quello delle donne ricche.

Molto schematicamente sembra che i servizi sanitari, quando si tratta di "vendere" merce, prestazioni, destinano gli interventi efficaci ed appropriati a quelli che sono più forti e tanta inefficacia ed inappropriatezza a quelli che sono più deboli.

C’è un problema di "vulnerabilità", di esposizione dei ceti economici e sociali più bassi alla somministrazione di trattamenti inefficaci o di provata inappropriatezza; e questo vale anche e soprattutto nel campo delle tossicodipendenze, dove troppo spesso operatori e servizi, pubblici e privati, fanno cose prive di validità scientifica e di nessuna efficacia.

È possibile che ad alcune persone faccia bene il trattamento anche se studi sperimentali è stato dimostrato che fa male? Ebbene sì, un trattamento di provata inefficacia a qualcuno può far casualmente bene. Ma se è veramente inefficace, vuol dire che ci sono altre persone su cui ha fatto male. L’offerta di prestazioni di non provata efficacia, o di inefficacia dimostrata, soprattutto in un servizio pubblico come il nostro sistema sanitario nazionale è uno degli aspetti peggiori e più insidiosi dell’iniquità. Da un lato si sottraggono risorse ad interventi efficaci ed inappropriati, dall’altro si colpiscono, con l’inefficacia e l’inappropriatezza, le persone più deboli e vulnerabili, per giunta illudendole.

Una delle parole che girano di più, con queste ossessioni di aziendalizzazione, è la parola "clienti"; i cittadini, per quanto riguarda la salute non sarebbero più titolari di un diritto, ma consumatori, acquirenti di prestazioni. Se volete comprare un’automobile grosso modo sapete che cosa vi serve - valutate se vi serve una Fiat o un’Audi, un’utilitaria o una fuori serie, la cilindrata, il prezzo - se invece vi fate male ed andate al pronto soccorso non potete scegliere quello che volete. Altro che "client satisfaction"! Mi dicono che il nostro Governo vorrebbe mandare davanti agli ospedali "rilevatori" per chiedere ai pazienti se sono soddisfatti, e così valutare gli ospedali. Ebbene è facilissimo che costoro siano insoddisfatti di trattamenti di altissima efficacia e soddisfatti di interventi inefficaci ed inappropriati!

In queste condizioni è un obbligo del sistema sanitario offrire in condizioni di equità solamente i trattamenti di provata efficacia; mi permetto di dire che l’efficacia è la condizione dell’equità. Applicare, con risorse finite, risorse a trattamenti inefficaci significa generare iniquità. Ci troviamo di fronte ad una situazione che richiede il passaggio da un razionamento iniquo, che c’è e si aggrava nel nostro servizio sanitario, ad una razionalizzazione equa. Vi pongo alcune domande finali e torno alla mia definizione iniziale di efficacia. Il problema è: efficacia verso cosa?

Verso la salute, mi direte. C’è una classica definizione di salute: "condizione di completo benessere fisico, psichico e sociale". È certamente un valore, la salute, che deve essere tutelato dalla società nel suo complesso, non certo dal solo sistema dei servizi sociali e sanitari. Se così fosse il servizio sanitario sarebbe il governo della città, dovrebbe occuparsi dei trasporti, delle scuole, delle famiglie, di tutta la nostra vita. È una tentazione che, a volte, alcuni sembrano avere. Ma dobbiamo essere realisti e definire obiettivi pertinenti per i servizi sociali e sanitari.

Propongo alcuni potenziali obiettivi per il servizio sanitario, per un nostro ragionamento. È obiettivo dei servizi sanitari, in termini utilitaristici, la massimizzazione della salute nella popolazione? Ossia massimizzare la quantità complessiva di salute indipendentemente dalla sua distribuzione? È obiettivo del servizio sanitario curare malattie? Oppure obiettivo del servizio sanitario, come pensano molti operatori del Ser.T., è soddisfare la domanda di assistenza? Il problema è quello di soddisfare la domanda a prescindere dalla natura della richiesta, oppure il problema è anche di andare a cercare quelli che hanno bisogno, non sanno come e dove esprimere una domanda.? O addirittura non sanno nemmeno di avere il diritto, esigibile, di esprimere quella domanda.?

È un obiettivo del sistema sanitario distribuire egualmente la salute? Attenzione: l’ineguaglianza della distribuzione della salute nella popolazione ha determinanti genetiche, sociali, culturali, economiche in larga parte indipendenti dai sistemi sanitari, alcune con radici storiche non facilmente reversibili. Il sistema sanitario ha l’obiettivo di riequilibrare la distribuzione della salute? La risposta a questa domanda implica l’accettazione o meno del carattere di ridistributività del sistema di welfare e condizionerebbe fortemente le scelte di allocazione delle risorse verso il sistema sanitario ed al suo interno. Pensate anche solamente al problema delle liste d’attesa. Se una malattia è più grave e più frequente in un gruppo sociale svantaggiato, il basso livello socioeconomico dovrebbe dare priorità? La risposta non è semplice, anche considerando che oggi, empiricamente, i gruppi di popolazione più forti, economicamente e socialmente, riescono ad avere effettivamente priorità.

 

 

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