Maria Grazia Giannichedda

 

Modelli regionali di welfare

 

Maria Grazia Giannichedda

 

Se l’attacco è ai diritti sociali e alla cittadinanza delle persone vulnerabili o escluse, è su questo terreno che dobbiamo rispondere, insieme, oltre i confini delle specificità in cui ciascuno lavora.

Se guardiamo infatti agli interventi che si susseguono nei vari settori - la nuova legge sulle droghe, il disegno di legge che ripristina i manicomi, la legge sull’immigrazione, gli interventi sul carcere - se li collochiamo, accanto all’attacco emblematico all’art. 18 e allo smantellamento, di fatto e di diritto, del servizio sanitario nazionale, arriviamo a una conclusione molto dura: ogni battaglia settoriale è destinata a conseguire, al meglio, vittorie apparenti".

Tre esigenze mi pare abbiano caratterizzato queste giornate. La prima è la necessità di fare il punto, di collocare in un quadro strategico le cose da capire e da fare. Comune la convinzione che siamo a un punto di svolta, ma non solo in quanto Governo e maggioranza vogliono orientare altrimenti le politiche sociali e le strategie di controllo. In realtà anche al nostro interno è risultata evidente l’esigenza di una svolta, o meglio di un salto di qualità. Molti dei partecipanti di questo convegno sono dirigenti di servizi, funzionari di città e Regioni, coordinatori di programmi che da decenni gestiscono sistemi pubblico - privati di servizi, muovono budget rilevanti e rispondono a un’utenza importante anche sul piano quantitativo. Ciò significa che in non poche realtà le esperienze innovative sono cresciute e maturate, diventando sistemi complessi che governano le contraddizioni in cui operano, che si misurano con il consenso dei cittadini e con le compatibilità di bilancio, che danno spazio alla verifica e al controllo dei risultati.

Di qui la seconda esigenza emersa con forza: che queste esperienze abbiano opportunità serie per rafforzarsi, per sperimentarsi in altri contesti, per accettare la sfida dei problemi nuovi, della formazione dei quadri, del mutamento culturale, per essere, insomma non solo esperienze esemplari ma politiche alternative a quelle tradizionali. Ciò implica un salto di qualità nel rapporto con gli amministratori, oggi più che mai necessario e urgente. Sotto l’ondata attuale di polemiche ideologiche, queste esperienze rischiano infatti, come alcuni interventi hanno sottolineato, di chiudersi in logiche da assedio, o di ripiegarsi nello spazio angusto delle "buone pratiche", senza peso politico ne capacità di trasformare il pezzo di mondo in cui vivono.

Anche per evitare questo rischio è importante porre in primo piano, come Luigi Ciotti ha fatto in apertura, la terza esigenza che ci ha tenuto qui questi giorni, quella di disegnare di nuovo, a tutto tondo, una identità che ci corrisponda, riandando alle nostre radici e al percorso che ci ha certamente e giustamente cambiato in questi venti - trent’anni, per poi cambiare le leggi, per avviare pratiche innovative e infine per far vivere, nella società di oggi, politiche possibili di costruzione della cittadinanza e della convivenza. Rispondere a questa esigenza di identificazione, e anche alle altre due, non è operazione che possa essere condotta a tavolino.

È un percorso da fare insieme, "strada facendo" appunto, e questi giorni sono stati una tappa ricca, importante. Quali possono essere gli altri passaggi, le altre possibili tappe? Seguendo le discussioni di questi giorni, ho provato a enucleare cinque punti su cui dovremmo lavorare. Il primo lo sintetizzerei così: se l’attacco è ai diritti sociali e alla cittadinanza delle persone vulnerabili o escluse, è su questo terreno che dobbiamo rispondere, insieme, oltre i confIni delle specificità in cui ciascuno lavora.

Se guardiamo infatti (come molti relatori hanno fatto) agli interventi che si susseguono nei vari set tori - la nuova legge sulle droghe, il disegno di legge che ripristina i manicomi, la legge sull’immigrazione, gli interventi sul carcere ecc. - se li collochiamo, com’è corretto, accanto all’attacco emblematico all’art. 18 e allo smantellamento, di fatto e di diritto, del servizio sanitario nazionale, arriviamo a una conclusione molto dura: ogni battaglia settoriale è destinata a conseguire, al meglio, vittorie apparenti.

Un esempio dalla salute mentale. Se anche si riuscisse, a colpi di emendamenti, giocando sulle forti opposizioni delle associazioni degli psichiatri e dei familiari e sulle contraddizioni nella maggioranza, a scardinare l’impianto della legge oggi in commissione (rimando all’accurato intervento di Cesare Picco) cosa avremo realizzato se nel frattempo fosse andato a compimento il disegno di americanizzazione della Sanità che vediamo già operante in Lombardia e in Sicilia, per citare due percorsi diversi ma analoghi nell’ispirazione e negli esiti-? Non si tratta evidentemente di abbandonare i terreni "specifici" di lotta.

Occorre però costruire da subito anche uno spazio comune, unitario, che renda visibile, comprensibile, il fatto che i diritti e i bisogni di ciascuno possono trovare risposta solo in quanto esiste un welfare per tutti

Non credo dobbiamo replicare reti di reti o coordinamenti già fatti. Probabilmente la strada migliore è quella indicata da queste giornate: produrre, partendo dai settori più contigui e a rischio - tossicodipendenze, salute mentale, disabilità, anziani, minori - incontri incentrati sulle pratiche e sulle loro ragioni di fondo, coinvolgendo quanti nei vari campi sentono il desiderio e la necessità di costruire questo spazio comune di ricerca e di proposta. Questo spazio comune non lo immagino abitato solo da noi operatori. ne segnato solo dal nostro linguaggio. Il nostro impegno di questi anni ha infatti contribuito al formarsi di realtà in1portanti e vive che anche in questi giorni abbiamo visto all’opera: associazioni, cooperative, gruppi di auto-aiuto, centri dove, con diversi nomi e vocazioni, a realizzare le imprese sono le più varie persone che avevamo incontrato come esclusi, malati, devianti, detenuti, vittime di ingiustizie e di reati. Queste persone, i loro familiari, gli amici, i colleghi, i vicini sono il primo anello di quella società civile con cui dobbiamo rafforzare la comunicazione, e possono essere con noi protagonisti delle battaglie che ci aspettano.

C’è poi il nodo del rapporto con la politica, che è il terzo tema che vi propongo. Difficile ipotizzare spazi di rapporto tra noi e una maggioranza che in campagna elettorale ha qualificato come "capitalismo compassionevole" il proprio modello di società. Ma misurare la distanza non basta. Dobbiamo analizzare con cura, cosa che finora abbiamo fatto in modo insufficiente, gli interessi e i gruppi forti ai quali le politiche di questo Governo fanno comodo. Certo, esse pescano anche su errori e insufficienze che in questi anni abbiamo visto, tollerato, sottovalutato, commesso. Ma il dato centrale è che si è formata e si sta rafforzando in Italia, come accadde nell’America reaganiana, una pesante offerta di risposte segreganti, autoritarie, concentrazionarie, anche se su scala ridotta. In essa si sommano istituzioni del privato classicamente speculativo con i nuovi prodotti di un privato sedicente sociale, l’intervento lucido e preoccupato di Virginio Colmegna, della Caritas Ambrosiana, ha indicato con quanta urgenza dobbiamo lavorare su questo terreno.

Ma non c’è solo il Governo, ci sono anche le città e le Regioni amministrate dai partiti di opposizione. È qui che le nostre esperienze vorrebbero e dovrebbero trovare quegli interlocutori - partner ai quali pensavo quando, all’inizio, ho segnalato la nostra esigenza di un salto di qualità. Ma il problema è che i governi locali di centro sinistra, e soprattutto quello nazionale, non hanno creduto fino in fondo alle molte sperimentazioni riuscite che abbiamo visto in Italia il1 questi anni, e non le hanno difese ne rafforzate.

Non si tratta, come diceva Franco Corleone di Forum Droghe, di finanziare questo o quel progettino: occorre dare centralità politica a questioni che vengono costantemente degradate allo stadio di problemi residuali, di assistenza o di emergenza, anche nei luoghi anm1inistrati da chi mostra di condividere la cultura della cittadinanza e della solidarietà. Su questo terreno occorre mettere in piedi, presto, iniziative visibili e chiare. Il federalismo può essere una opportunità preziosa per valorizzare e moltiplicare le sperimentazioni, per far vedere che "l’impossibile è diventato possibile", come diceva Franco Basaglia vent’anni fa quando a meste abbiamo chiuso il manicomio e aperto i servizi. Questo possibile dà risultati diversi e migliori che abbiamo dimostrato, ma richiede anche, e produce, un cambiamento di cultura al quale non è detto che siano disposti anche coloro che mostrano di condividere i principi su cui cerchiamo di operare.

Andiamo così all’ultimo punto di questa riflessione, che riguarda più da vicino la nostra identità, la dimensione politica del nostro lavoro, costantemente e inevitabilmente in bilico tra la gestione dei problen1i e la loro ridefinizione. Partendo dalla persona tossicodipendente si arriva alla oggi più difficile critica delle rappresentazioni sociali della droga e alla imbarazzante collusione tra modello medico e modello morale, come ha detto molto bene Grazia Zuffa; lavorare con le donne e i bambini vittime di violenza fa vedere in un’altra luce il tema della sicurezza, minacciata non dall’estraneo ma dal familiare (lo notava Tina Abbondanza, psichiatra di Bari); costruire luoghi dove la persona folle trovi tutela, ma anche rispetto e ascolto, significa accettare la follia come parte dell’esperienza umana. Credo che non dobbiamo cedere su terreni di ricerca come questi, anche se oggi sembrano non esistere nel discorso pubblico. Penso invece che proprio ancorandoci a questi terreni possiamo far vivere e crescere la ricerca di un nuovo modo di lavorare, che poi per noi è anche ricerca di un modo diverso di stare al mondo.

Stamattina, venendo qui al convegno "Strada facendo" e ripensando alle riflessioni che avevo appena messo in ordine, mi è venuto in mente un verso di Antonio Machado che amo molto; "Caminantes no hay camino/ se hace camino al andar", non c’è strada segnata, è il camminare che la traccia. Quando ho incontrato questo verso la prima volta, ricordo che ne avevo colto soprattutto il senso di avventura che comunica, l’idea del "battere strade nuove", aprire nuovi percorsi e opportunità, andare incontro a ciò che non si conosce.

Oggi mi colpisce soprattutto l’altra anima di questo verso, che anzi mi sembra prevalente, quella di una certa malinconica accettazione della necessità, fatale per noi umani, di andare per strade che in realtà non sono segnate, sopportando quindi il rischio, l’incertezza e forse la solitudine che ciò comporta. Questo per dire che ho ben presente che non è affatto agevole andare oggi nelle direzioni che ho indicato, che mi sembrano però necessarie e anche, senza facili ottimismi, percorribili, se siamo capaci di stare insieme e di riconoscerci.

 

 

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