Enrico Fontana

 

Enrico Fontana

 

Sono membro della segreteria nazionale di "Legambiente" e da sei anni dirigo "La Nuova Ecologia", mensile dell’associazione e testata storica dell’ambientalismo italiano. Curiosità vuole che, quasi contemporaneamente all’invito per quest’iniziativa, abbia pensato di dedicare la storia di copertina del prossimo numero della rivista proprio alle città, alle nostre città invivibili, con un titolo abbastanza esplicito: "Ci siamo rotti i polmoni".

Dietro la "rottura dei polmoni" - non solo legata al modo in cui si vive nelle città italiane - c’è uno dei temi su cui dobbiamo interrogarci in questo gruppo di lavoro: l’inclusione. Perché la realtà di buona parte delle città in cui viviamo è che il rapporto "inclusione-esclusione" ha superato la divisione tra esseri umani ed è diventata anche altro. Oggi, ad esempio, le auto escludono le persone e soprattutto quelle classificate deboli.

Il rapporto al Parlamento sulla sicurezza stradale del 1999 è illuminante: i pedoni vengono definiti "utenti deboli delle strade", "causa principale di incidenti stradali". Strade e città sono asservite ad una logica della mobilità, dello spostarsi, del vivere che è ormai ai collimi del disumano. Dice Scatolero nella sua relazione che l’attenzione sugli aspetti della salute dei cittadini è forte, comunque condivisa, ma non quella sugli effetti che queste città invivibili determinano sulle relazioni umane. Ne siamo certi?

Non credo che ci sia una percezione esatta del fatto che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, in cinque città italiane (Milano, Torino, Roma, Bologna e Firenze) una solo sostanza tossica, il PM 10, polveri sottilissime che hanno il difetto di trascinare con sé altri agenti inquinanti che penetrano nei polmoni - fa 3.500 morti l’anno? Non credo che ci sia una consapevolezza del fatto che ogni giorno in queste cinque città ci sono 10 morti per smog. Piuttosto, c’è consapevolezza del fatto che, a causa di questo conformismo (perché questo è), il rischio di ammalarsi di tumore, secondo l’Istituto nazionale per la ricerca sci cancro, aumenta fra il 20 e il 40%.

Oppure che, secondo l’Istituto superiore di sanità, il rischio per i bambini di contrarre leucemie in zone trafficate da 5mila veicoli al giorno è 270 volte superiore rispetto a quello dei bambini che vivono in zone trafficate da 200 veicoli al giorno. Non credo che ci sia una percezione esatta del rischio legato a questo fattore di invivibilità - che certo non è l’unico - delle nostre città. Così come non c’è. nel nostro Paese, una percezione esatta dei danni - ne parlava Gianfranco Bettin - del danno ambientale e biologico legati a questa situazione.In altri Paesi, come Francia e Svizzera. è stata fatta una delle ricerche qui più volte evocate sui costi dello smog, costi in termini di giornate lavorative e costi sanitari: su 30 milioni e mezzo di giornate lavorative perse ogni anno a causa di malattie respiratorie, più di 10 milioni dipendono dal traffico: le spese sanitarie legate allo smog, sempre in questi Paesi, sono state stimate in 27 miliardi di euro all’anno. Sono numeri di fronte ai quali ci si dovrebbe attendere proteste da parte delle vittime. E invece questo incubo dello smog, questa minaccia, questo pericolo persistente non suscita reazioni ne iniziative forti. La paura dell’immigrato, dello straniero. del tossicodipendente, di chi è senza fissa dimora, sposta voti, sposta consensi, divide centro-destra e centro-sinistra sugli atteggiamenti, le politiche, l’inclusione, l’esclusione.

La lotta all’inquinamento non trova posto nell’agenda politica del nostro Paese. Basti pensare al fatto che il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli, che dichiara di avere a cuore la vivibilità delle città, la sicurezza e la salute dei cittadini, ha deciso di togliere i finanziamenti alle domeniche senz’auto. Evidentemente 10 morti in meno in un giorno - cerco di essere pragmatico - non sono considerati un buon risultato. Così come far respirare i centri storici delle città almeno per un giorno. Questo modo di argomentare ha fatto breccia anche nel mondo delle associazioni ambientaliste: il problema è strutturale, si dice. Ma mentre siamo seduti attorno a un tavolo a discutere la "struttura" del problema e le misure "strutturali" necessarie a risolverlo, la gente muore.

Forse varrebbe allora la pena di sperimentare soluzioni e interventi meno strutturali e un po’ più concreti, un po’ più efficaci e immediati: aumentare le isole pedonali, esportarle dal centro alla periferia, restituire le strade alle persone, ridisegnare piazze e marciapiedi. Provarci, provare a sperimentarlo concretamente. Si può fare, tra l’altro, a costi bassi.

Nonostante questi numeri, la percezione di questa invivibilità sostanziale, sotto il profilo sanitario e ambientale, non è così forte. Anzi, per molti l’automobile è certamente un fattore di sicurezza. Dentro l’auto ci si sente più sicuri: è un micro-habitat, lo diceva prima molto bene Tina Abbondanza quando parlava della ricerca della sicurezza "prossima". Evidentemente l’ingorgo rassicura...!

Sicuramente genera più incertezza il rinunciare all’auto per scoprire una mobilità, un modo di vivere le città, di muoversi nelle città, più gentile, un po’ più lento, più aperto all’incontro e forse per questo, per molti, più insicuro. Roberto Merlo ci invitava a ragionare (provocatoriamente ha detto) per immaginare nuovi valori intorno a cui conformare una comunità, ritrovare dei punti di contatto. Sicuramente abbiamo bisogno di immaginare nuovi stili di vita perché le nostre città siano più vivibili. Ma forse abbiamo bisogno anche di una maggiore capacità di pensare l’altro, il diverso come una risorsa anche da questo punto di vista.

Nessuna persona dotata di buon senso, se partisse dal punto di vista di un bambino, immaginerebbe le strade delle città italiane per come sono oggi. Non a caso Legambiente tra le sue iniziative organizza "Cento strade per giocare", che è il tentativo di ricordarci che la strada è anche un luogo di incontro e di gioco. È possibile in questo modo ad esempio immaginare che i senza fissa dimora - che pure abitano e vivono parchi e altre zone verdi, spesso non restituite davvero alla città e che diventano luoghi di emarginazione vengano coinvolti invece come soggetti attivi che in quei luoghi fanno accoglienza, visto che ci vivono. Sicuramente questo tipo di approccio ne riconoscerebbe un ruolo, un’esistenza, e li tutelerebbe anche da chi, ogni tanto, ne uccide uno a sprangate. È solo un’idea, ma per i cani randagi è stata immaginata una soluzione: quella del cane di quartiere, che è li, randagio e che è aiutato a vivere la sua vita di randagio. È possibile immaginarla per gli umani?

Concludo, rispondendo al richiamo forte di Tina Abbondanza sul ruolo delle donne. Credo che nel costruire città più vivibili le donne debbano avere più potere: già oggi, del resto, quasi sempre sono donne a muovere i comitati antismog, le proteste dei cittadini. Sono le "mamme antismog" di Napoli che da sole hanno fatto grandi battaglie; sono le donne che hanno animato i comitati per la salute antismog di Bologna a fare vertenze importanti. Noi uomini invece dovremmo esercitare un poco di più la nostra capacità d’ascolto: io oggi ho molto ascoltato e ringrazio anche per questo gli organizzatori di questo incontro.

 

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