Cristiano Conte

 

Cristiano Conte

 

Oggi nessuno sembra avere in mano qualche verità, qualche modello certo sul mondo degli adolescenti e dei giovani, né la parrocchia, né la società sportiva, né il centro di aggregazione giovanile. Ognuno di questi soggetti può, con coraggio e disponibilità, mettere in gioco la propria visione delle cose ed aprirsi a possibili forme di collaborazione con altre agenzie educative, senza paura di perdere la propria identità all’interno di tale confronto.

Permettetemi, innanzitutto, di ringraziare l’associazione di cui faccio parte, l’ANEP (Associazione nazionale educatori professionali), per avermi offerto l’opportunità di essere qui, oggi. Un grazie speciale, poi, va alla realtà presso cui lavoro, la cooperativa sociale Kaleidoscopio di Trento, poiché se è vero, da un lato, che entusiasmo, curiosità e attitudine alla riflessione sono elementi fondamentali ed insostituibili del lavoro sociale, credo sia altrettanto necessaria, dall’altro, la presenza di organizzazioni capaci di valorizzare e motivare tali risorse, sia quelle interne, sia quelle appartenenti al territorio di riferimento con cui queste organizzazioni operano. Un approccio ecologico di impresa sociale, insomma, che ho avuto la fortuna di vivere in prima persona e che tanta parte ha avuto ed ha nella mia formazione professionale quotidiana. Detto ciò, passerei a descrivere in modo rapido e, mi auguro, esaustivo alcuni aspetti caratterizzanti la situazione presso cui opero.

Vorrei evidenziare, in particolare, alcune linee operative strategiche che sono state scelte nel lavoro con i ragazzi per lasciare poi, come contributo al dibattito di questo pomeriggio, alcune dimensioni di criticità rispetto al nostro agire educativo ed una serie di possibili prospettive che sono emerse più volte a partire dal contatto quotidiano con i ragazzi, nel tentativo di costruire assieme a loro qualcosa di sentito e condiviso.

 

Il contesto operativo

 

Lavoro in un sobborgo della collina di Trento, forse il "quartiere bene" per eccellenza. Molte ville private, nessun condominio, al massimo qualche palazzina. Un tessuto comunitario piuttosto vitale, capace di generare diverse realtà associative ed iniziative ricreativo - culturali di vario tipo. Si coglie, tuttavia, da parte dei promotori di queste ultime, una certa difficoltà nel coinvolgere i giovani. L’indubbia perifericità geografica del sobborgo non sembra concretizzarsi ancora in quel luogo culturale e sociale tipico che è la periferia.

L’identità di paese è ancora forte, non ancora inglobata definitivamente dalla città. Forse appena scalfita, a volte, dal massiccio afflusso di nuovi residenti registrato negli ultimi quindici anni. Ma è un’immigrazione che non fa male, considerato che si tratta di gente mediamente piuttosto benestante. La società sportiva del sobborgo e la parrocchia sono punti di riferimento stabili, in particolare per i ragazzini più giovani (6-13 anni). Il centro giovani, gestito dalla cooperativa presso cui lavoro, è presente da quindici anni sul territorio e ha sempre fatto della comunità un interlocutore privilegiato, arrivando a modulare più volte la propria offerta negli anni in base ai bisogni che in essa venivano riscontrati.

Da un’attenzione rivolta prevalentemente ai ragazzi della scuola media, in particolare quelli più in difficoltà, il centro, negli ultimi anni, ha allargato sempre più la propria proposta anche agli adolescenti, arrivando a strutturarsi progressivamente secondo due direttrici chiave: centro aperto per i ragazzi della scuola media e centro di aggregazione giovanile rivolto ai adolescenti e giovani dai 14 anni in poi. Quest’organizzazione del centro è frutto anche di un paziente lavoro di interazione con le iniziative promosse dal "Progetto giovani", che, di fatto, rappresenta l’elemento di maggiore novità generato al proprio interno dalla comunità del sobborgo negli ultimi anni. Negli ultimi mesi del 1998, la segnalazione di alcuni minori, fatta prima ai carabinieri e successivamente al tribunale dei minorenni, legata al consumo di droghe leggere, mette in allarme la comunità. Se ne parla sui giornali ed il sobborgo sembra colto di sorpresa dagli eventi. Grazie alla sensibilità di alcuni residenti ed alla disponibilità nel mettersi in gioco mostrata dalla circoscrizione e dalla coop. Kaleidoscopio, si sceglie di comprendere quanto sta accadendo leggendolo non tanto (o non solo) come problema di alcuni ragazzi, bensì come un gap della comunità stessa rispetto alla sua capacità di prendersi cura dei giovani che la abitano e di costruire assieme a loro dei percorsi di significato condivisi. Da qui la scelta di affrontare il problema impostando un lavoro di sviluppo di comunità che desse voce ai diversi soggetti presenti sul territorio, dai giovani ai genitori, dalla scuola alle associazioni. Nel marzo del 2001 il progetto riceve un finanziamento triennale, ai sensi della legge n. 285/99.

 

Quali giovani?

 

Mi rendo conto che qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare circa la reale necessità di un lavoro di prevenzione e di promozione socio-culturale all’interno di un territorio già di per sé così ricco di risorse, considerato anche lo stato di degrado in cui versano diverse realtà di periferia in Italia, in particolare nei grandi agglomerati urbani. Eppure la situazione, anche all’interno di un contesto caratterizzato da livelli medi di benessere piuttosto marcati, appare, nei fatti, più complessa di quanto si potrebbe supporre. Dunque, quali adolescenti, quali giovani? Recuperando una tipologia proposta da Franco Floris, diversi ragazzi tra i 15 ed i 17 anni si potrebbero definire "dipendenti". Sono adolescenti cui viene concessa, di norma, molta libertà individuale, che godono di un benessere materiale esteso e che, per certi versi, appaiono morbidamente rassegnati alla propria dorata condizione.

Non manca una certa percentuale di giovani critici e flessibili, collocabili prevalentemente dai 17 anni in poi, capaci, da un lato, di mettere in discussione alcune dimensioni tipiche del proprio contesto di appartenenza e, dall’altro, di fare proprie nuove intuizioni culturali senza esserne travolti nel loro credo interiore. Non traspaiono particolari fervori a livello politico o di impegno sociale, salvo pochi casi. Numerosi le compagnie ed i gruppi informali, alcuni più caratterizzati di altri per abitudini e luoghi di ritrovo; certi ragazzi, in particolare, appaiono più aderenti di altri a forme riconoscibili del cosiddetto tribalismo giovanile.

In genere sono ragazzi che gravitano più spesso di altri attorno ad alcune compagnie cittadine. In ogni caso, al di là della qualità della propria adesione, il fatto di vestire secondo canoni piuttosto precisi appare un dato decisamente diffuso. Non mancano, infine, alcuni dei giovani che Floris definisce "implosivi", spesso ai margini di queste compagnie o chiusi a loro volta in microgruppi che sembrano fare di una sorta di precariato esistenziale la loro bandiera. Precariato dorato, considerato che di rado mancano i soldi per le sigarette o la miscela per il motorino. In ogni caso, al di là delle possibili tipologie, un’osservazione è stata spesso condivisa con i colleghi. Nell’esperienza quotidiana di molti ragazzi, in particolare in famiglia e nelle relazioni amicali, sembrano mancare relazioni capaci, attraverso il confronto significativo, di generare capacità progettuale e, dunque, identità.

Quasi sempre, a sentire i ragazzi, entrambi i genitori lavorano. Difficile pensare a situazioni dove, all’interno del poco tempo che si ha occasione di trascorrere tutti assieme in famiglia, le posizioni ed i bisogni di ciascuno possano essere ampiamente esplicitate e discusse fino ad arrivare ad una condivisione di senso che porti a concordare assieme limiti e regole. Più penso alla personale fatica, mia e dei miei colleghi, nel mettere in atto tali dinamiche con intenzionalità giorno dopo giorno, più immagino quanto tutto questo possa risultare decisamente oneroso all’interno di gran parte delle situazioni familiari che i ragazzi si trovano a vivere. Donati, a questo proposito, sottolinea come la famiglia oggi tenda sempre più a divenire "un "nido" capace di offrire affetto e protezione, valori ideali, competenze, informazioni ed aiuti di tipo materiale.

Questa famiglia, però, evitando una reale problematizzazione del mondo, fa sì che questi giovani adulti non acquisiscano capacità critiche di autonomia. Anche la compagnia di amici, in questo senso, non sembra dare risposte convincenti ai ragazzi, i quali trovano prevalentemente nell’amicizia il luogo della reciproca comprensione e dello svago. Non sembrano, però, trovare criteri autonomi per la loro maturazione.

 

Le linee operative

 

Avvicinare una realtà così complessa e multiforme ha reso necessari diversi momenti di riflessione, sia all’interno dell’equipe del centro, sia con i volontari che hanno scelto di essere parte attiva del "Progetto giovani". Questo faticoso e costante lavoro di rielaborazione ha portato ad individuare alcuni elementi capaci di dare senso al nostro agire quotidiano. Identità, partecipazione responsabile, confronto dialogico e protagonismo: queste, a nostro avviso, le parole chiave. Linee strategiche possibili soprattutto perché i ragazzi, al di là di tutto, appaiono ancora sensibili al fatto di essere prima di tutto ascoltati da chi, con la curiosità e l’attenzione tipica dell’esploratore culturale, va a cercare le diverse tribù e le frequenta con la sensibilità di chi è appassionato ad altre culture. Incontrare i ragazzi ed ascoltare quello che secondo loro mancava e da dove si poteva partire è sembrato fin da subito un passaggio fondamentale.

E, infatti, la ricerca intervento effettuata all’inizio del progetto con alcuni gruppi informali di adolescenti e giovani del sobborgo ha rivelato ancora una volta una straordinaria capacità da parte di questi ultimi di recuperare, in un alternarsi di momenti di convinzione e diffidenza, alcune intuizioni generatrici, legate a bisogni, attitudini, interessi, desideri espressi e condivisi con gli altri. Mettere in gioco tutto questo ha significato delineare assieme ai ragazzi un orizzonte del possibile da immaginare, problematizzare, valutare e, nei limiti del possibile, attuare.

È quella prospettiva dialogica di costruzione di senso che Freire sottolinea con molta forza quando afferma che "per l’educatore umanista o il rivoluzionario autentico, il luogo dell’azione è la realtà che deve essere trasformata con gli altri uomini". Ecco, allora, che una richiesta da parte alcuni ragazzi di un contributo per sistemare una parete attrezzata per l’arrampicata diventa un’opportunità per creare una connessione significativa coinvolgendo nel progetto la sezione locale della Sat (Società alpinistica trentina) e la commissione cultura della circoscrizione.

Allo stesso modo, l’idea di una festa nel sobborgo può diventare per molti giovani occasione di confronto e di crescita sotto diversi aspetti, dall’ascolto delle proposte delle diverse compagnie o gruppi di appartenenza (magari rivali tra loro) alla ricerca di amici disposti a fare del volontariato durante la manifestazione, dalla dimensione organizzativa (problemi logistici, permessi, gestione dei vari momenti della festa) alla capacità di spiegare al resto della comunità l’importanza dell’evento, accogliendo e valutando anche eventuali critiche. L’ascolto reciproco, pur faticoso, dei vari punti di vista ed il tentativo di arrivare a qualcosa di condiviso è un processo che genera identità attraverso una progressiva integrazione da parte dell’adolescente delle dissonanze cognitive, che sul piano socioculturale nascono quando si verifica un contrasto tra usi e tradizioni personali o del gruppo di appartenenza e il contesto più ampio in cui una persona concretamente agisce.

Si tratta, in sostanza, di avere la possibilità di porre la propria individualità di fronte all’individualità ed ai bisogni dell’altro. Significa assumersi la responsabilità di scegliere, di decidere, di accettare o di rifiutare, di dire di sì o di no. La grande scommessa, nella maturazione di tale capacità progettuale, è quella di arrivare ad una graduale percezione del valore dell’alterità, nel concreto, tale valore passa attraverso l’interiorizzazione di una logica di produzione di beni comuni, intendendo come bene comune anche organizzare una festa dei giovani in cui i diversi gruppi accettano di sedersi attorno ad un tavolo, ragionare sul senso dell’iniziativa, accettare la sfida del produrla insieme, senza delegarla ai professionisti o allo stesso animatore.

 

Criticità

 

Quali sono le dimensioni critiche riscontrate rispetto ad un simile approccio di lavoro? Un primo tipo di criticità può essere riscontrato all’interno di un certo modo di intendere le politiche a favore di adolescenti e giovani da parte degli enti pubblici. Non è raro verificare, almeno nel territorio da cui provengo, come tali interventi spesso si risolvano in una sorta di proposta preconfezionata e standardizzata.

Se mi si passa il termine, "a scatola chiusa", un concerto rock, la manifestazione sportiva, per lo più sporadici. Qua e là, qualche timida apertura alle cosiddette "forme di espressione del mondo giovanile", magari un concorso grafico o un pomeriggio di murales su pannello. Tutte cose belle, per carità. È vero, i giovani hanno bisogno di esprimersi. Ma non è mai un’espressione fine a se stessa, almeno per quello che personalmente ho potuto riscontrare. Sono forme che connotano un modo di essere e di percepirsi, che mettono in gioco veri e propri microcosmi culturali fatti di valori, simboli, condotte, etiche ben precise. Occorre ascoltare tutto questo, innanzitutto. E ascoltare significa investire tempo, energie, capacità di stare all’interno di eventi che, visti da vicino, raramente appaiono lineari e di facile lettura. Un esempio su tutti: il lavoro che stiamo facendo con alcuni writers per ottenere una hall of fame (una parete pubblica) per l’aerosolart (l’arte dei murales).

Quasi un anno per avere un numero di telefono, dopo una serie di contatti e chiacchierate più o meno casuali. Nessun nominativo, solo tags (firme, nomi d’arte). Gradualmente, il rapporto di fiducia col "Progetto giovani" si consolida. Nasce l’idea di una doppia mediazione che permetta a loro, attraverso il Progetto, di mantenere l’anonimato nei confronti dell’ente pubblico, pur impegnandosi in prima persona, e al "Progetto giovani", per tramite loro, di allacciare contatti col mondo dei writers di Trento senza per questo conoscerli e "schedarli" uno ad uno. Rispetto alla loro percezione dell’ente pubblico, i ragazzi sono stati estremamente chiari: "Ci chiamano solo per fare bella figura quando serve a loro e ci siamo rotti le palle". "Chi accetta di dare nome e cognome pur di fare il proprio pezzo su una parete pubblica non è un writer, perché tra noi la prima legge è la segretezza".

A quanto serve predisporre dei contenitori dove è sempre qualcun altro (ma non i ragazzi) che stabilisce tutte le regole del gioco? È inevitabile che, alla lunga, i giovani non vivano la cosa. Manca una condizione fondamentale per la partecipazione, ovvero la percezione che quello che sei e che hai da dare possa contare davvero qualcosa. Per riprendere Martini e Sequi "il bisogno di essere protagonisti, di essere soggetti del proprio destino non è un bisogno di elites più o meno illuminate; è un bisogno fondamentale di tutti". Favorire le forme espressive non è altro che un mezzo per innescare processi partecipativi e decisionali forti e sentiti, che richiedono impegno e che, proprio per questo, se vanno in porto, possono rimanere ai ragazzi come esperienza significativa.

Quanto e come l’ente pubblico può permettersi questo tipo di processi, che spesso comportano tempi e modalità complessi, nell’organizzazione di eventi e spazi a favore dei giovani? Facendo riferimento alla nostra esperienza quotidiana, un secondo livello di criticità, può essere individuato, a mio avviso, nel consumo di alcol. Non c’è dubbio che il bere alcolici rivesta un significato simbolico trasgressivo di primo piano nell’immaginario dei ragazzi. La nostra scelta, preso atto di questo come dato non eludibile di un processo evolutivo, è stata quella di scegliere la via del confronto, piuttosto che proibire le cose a priori. I momenti critici, finora, hanno riguardato soprattutto le feste che i ragazzi chiedono di potersi autogestire durante il fine settimana e le uscite di più giorni organizzate assieme.

Per ognuna di queste iniziative si è proposto un percorso della partecipazione responsabile, che prevedeva, a monte, un confronto che portasse all’esplicitazione di alcune regole condivise. Nel complesso la cosa ha funzionato, al di là di qualche trasgressione tutto sommato preventivabile e comunque sempre spontaneamente ammessa. Alcune cose, tuttavia, ci interrogano. I ragazzi, per quello che è stato possibile cogliere nelle esperienze vissute con loro, sembrano bere in modo meccanico, quasi rituale, al punto che, spesso, tutti gli alcolici (o quasi) vengono consumati all’inizio della serata.

"Bevo perché così sono più spontaneo" mi ha detto con convinzione uno di loro. Essere più spontaneo, nella fattispecie, significava avere un atteggiamento più disinibito con le ragazze in discoteca. Altra cosa che mi ha stupito è stato il consumo di alcuni alcolici ben precisi, piuttosto che di altri. Rhum con aranciata, vodka dai sapori più vari, crema al whisky, gin lemon. Di tradizionale, almeno agli occhi del sottoscritto (che, evidentemente, sta già entrando nella categoria "operatori sociali del paleolitico è rimasta solo la birra. Ci siamo chiesti il perché. Da dove saltano fuori tutte queste marche così precise, questo consumo così esatto, geometrico. Forse, una risposta la si può avere guardando spots di tutti i canali televisivi rivolti ai ragazzi. Tanti gli alcolici pubblicizzati. Casualmente, forse, gli stessi. Ed un messaggio che, di fondo, sembri attraversare tutti gli spots: "con quello che ti offriamo ora tu puoi". Immagini di gente allegra, trendy, bella. In fondo, una specie di omologazione che ormai non fa più nessun rumore, considerali che, oggi come oggi, molti music pub e persino uno dei festival musicali più importanti d’Italia soni sponsorizzati da una nota marca di birra. Tutto questo appare un fenomeno decisamente più subdolo e inafferrabile rispetto a situazioni pur complesse come quella del bar del paese che tutti i venerdì sera estivi propone un happy hour con litri, litri di birra anche a ragazzi di 14 o 15 anni. Almeno con il gestore del bar puoi tentare di parlarci. Ma di fronte a dimensioni di marketing e di consumo su vasta scala, le cose si complicano non poco. Come possono le politiche giovanili rispondere a realtà di intrattenimento che, facendo leva su bisogni e dimensioni simboliche e trasgressive potenti, contribuiscono a far diventare i ragazzi niente altro che un ingranaggio del mercato? Come porsi, rispetto a tutto questo?

Un ultimo punto, forse il più controverso da affrontare. Lavorando all’interno della comunità è stato possibile condividere con diverse realtà del territorio una considerazione centrale. Oggi nessuno sembra avere in mano qualche verità, qualche modello certo sul mondo degli adolescenti e dei giovani, né la parrocchia, né la società sportiva, né il centro di aggregazione giovanile. Ognuno di questi soggetti può, con coraggio e disponibilità, mettere in gioco la propria visione delle cose ed aprirsi a possibili forme di collaborazione con altre agenzie educative, senza paura a perdere la propria identità all’interno di tale confronto.

Questa prospettiva ci sembra un passaggio obbligato se consideriamo che un dato evidente, almeno nella nostra esperienza, appare quello dell’esistenza di una buona fetta di ragazzi che, di fatto, nessuno riesce ad intercettare. Sono quegli adolescenti che spesso compaiono in occasione di feste o manifestazioni pubbliche per poi scomparire senza lasciare traccia. Ha senso immaginare dei percorsi per avvicinarci a loro? E loro ne hanno bisogno oppure no? Ci stanno aspettando? Esiste una domanda non espressa che va intercettata? Come creare occasioni per avvicinarsi e mettersi in ascolto di quelle realtà di adolescenti che rimangono ai margini dei canali più consueti dell’aggregazione giovanile?

 

Prospettive

 

Per concludere, mi piacerebbe immaginare degli orizzonti possibili. Alla luce di queste criticità (per molti versi ancora senza risposta, almeno nella nostra esperienza) quali prospettive immaginare per lavoro promozionale con adolescenti e giovani? Quali progettualità potrebbero delinearsi a seguito delle esperienze sorte grazie alla legge 285/99? Queste, forse, alcune direttrici possibili:

sostenere la centralità dell’agire educativo negli interventi a favore dei giovani. Ciò significa promuovere percorsi, spazi, occasioni di partecipazione dei giovani all’interno del tessuto comunitario di cui fanno parte. Le possibilità di confronto con soggetti a cui i giovani riconoscano una valenza normativa sembrano drasticamente ridotte. Contemporaneamente, le scelte possibili sono aumentate a dismisura e il criterio di scelta spesso appare unicamente quello del desiderio. Occorre dare a questo desiderio la possibilità di diventare progetto, di confrontarsi con le possibilità ed i limiti della realtà. Questo processo di relazione critica con il mondo genera identità nei ragazzi e potrebbe permettere di creare con loro forme di partnership che portino ad immaginare percorsi evolutivi inediti (ad esempio un’educazione al benessere che dia nuovo senso al concetto di piacere, staccandolo dalla dinamica "mi riempio-mi scarico" tipica dell’alcol);

immaginare sempre più la figura dell’educatore come un facilitatore di processi e un mediatore di significati, capace, da un lato, di mettersi in ascolto delle varie culture giovanili con rispetto e curiosità e, dall’altro, di creare connessioni significative tra i giovani e la comunità locale, sia in termini di contatti con le diverse realtà presenti sul territorio, sia rispetto alla capacità di ascolto e dialogo reciproco;

promuovere politiche giovanili capaci di dare sostegno nel lungo periodo a questo tipo di interventi, centrate maggiormente sul processo piuttosto che unicamente sull’esito. Politiche fortemente focalizzate sul territorio, capaci di decentrare razione di prevenzione coinvolgendo le singole comunità locali (comuni, ma anche singoli quartieri) come soggetti portatori di risorse anche inedite e capaci di prendersi cura dei giovani che le abitano;

immaginare, infine, politiche giovanili che sappiano fare cultura ed incidere anche sulla politica che conta, opponendosi con forza ad una concezione mercificante della realtà giovanile che intercetta bisogni e desideri dei ragazzi unicamente dare loro una risposta in termini di consumo.

Solo sogni o prospettive concrete? I tempo, come sempre, dirà. Intanto, credo sia doveroso sperare. E crederci.

 

 

 

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