Luigi Ciotti

 

Luigi Ciotti

 

Avete visto il titolo di questo nostro incontro: "droga, la ricerca e la proposta". Siamo in tanti sotto le tende di un circo, di questo circo. Non è stata una scelta casuale. A Cesenatico c’è la scuola nazionale del circo e, come molti di voi sapranno, tra le materie insegnate dagli artisti nazionali e internazionali c’è l’acrobatica, il contorsionismo, il tappeto elastico, l’equilibrismo; è quello che in un certo modo abbiamo imparato e fatto anche noi nell’arco di questi anni operando nel settore delle dipendenze. Abbiamo fatto gli equilibristi, gli acrobati, ci siamo trovati sui tappeti elastici.

Il circo in passato ha rappresentato sempre uno spazio fuori dalle mura della città, dei paesi; i personaggi del circo erano visti come appartenenti ad un mondo diverso, nomade: oggi, qui a Torino, sotto questa tenda da circo - che significa non solo diversità e nomadismo, ma anche essenzialità e semplicità - noi vogliamo parlare di inclusione. Ecco l’obbiettivo di queste tre giornate promosse da ventiquattro realtà: parlare d’inclusione, ognuno con le sue esperienze, il suo contributo, la sua storia.

Siamo qui oggi spinti dalla necessità di fare il punto sulle pratiche e i risultati conseguiti; dare vita a nuove iniziative, proposte di lavoro, nuove pratiche inclusive; offrire una lettura della situazione capace di restituire profondità e storicità all’esperienza di lavoro di tutti questi anni, di tutti noi: operatori, volontari, servizi pubblici, privato sociale, ricercatori.

Ma siamo anche qui perché abbiamo dentro una grande inquietudine. L’inquietudine che da sempre ci attraversa in queste difficili questioni, che ci ricorda che dobbiamo sempre aprirci allo stupore, non dare mai nulla per scontato, facendo in modo che il nostro impegno non diventi routine.

Qui, in questo circo, convinti che su questi temi non ci sono facili e rassicuranti certezze. lo sono molto preoccupato da chi ha certezze, da sempre. E sono ugualmente preoccupato dagli slogan, dalle semplificazioni. È importante essere sempre pronti a rimetterci in discussione a fronte di nuove esigenze, con umiltà e disponibilità, senza per questo rinunciare all’esperienza maturata nell’arco di questi anni nei servizi pubblici come nei servizi privati.

Siamo stati testardi, e vi prego di continuare ad esserlo affinché la ricerca di nuove strade, possibili perché praticabili, resti la nostra priorità.

Avete visto che non c’è patrocinio: né della Regione, né dei Ministeri, né della Città di Torino - che però è presente qui oggi a portarci il suo gradito saluto - perché sentiamo che questo doveva essere un momento nostro, tutto nostro. Le istituzioni restano tuttavia la nostra controparte in questo cammino, nel quale è essenziale un continuo intreccio dei mondi della ricerca, dello studio, dell’analisi. E con le istituzioni concluso questo lavoro, messi insieme i contributi vogliamo andare presto a un confronto, senza fare sconti a nessuno, con chiarezza e nella concretezza.

Ma questo momento - ripeto - vuol essere soprattutto nostro: di ascolto reciproco, di confronto, di messa in comune di fatiche, di speranze, di impegno, di positività, di dubbi, di interrogativi, per un confronto successivo a cui dovremo prepararci con molta chiarezza e determinazione. Abbiamo un dovere, con il quale ci siamo misurati in tutti questi anni: il dovere della ricerca della verità e della denuncia. il dovere di una critica costruttiva, rispettosa, attenta.

Ieri come oggi. . . E oggi qui, sotto questa tenda. siamo chiamati a riflettere innanzitutto su alcuni elementi di complessità e di differenziazione emersi dalle analisi dell’evoluzione dei consumi e dei profili dei nostri amici consumatori di sostanze legali e illegali. Siamo chiamati a sottolineare ancora una volta l’importanza di politiche integrate di prevenzione, di cura, di "riduzione del danno". Il rapporto con la strada, che è fatto di persone, di storie, di volti, ci chiede di non restare mai intrappolati nelle contrapposizioni ideologiche e di trasformare le troppe "o" si fa così, punto e basta! - in altrettante "e". Abbiamo imparato dal confronto con la storia dei nostri amici a tenere insieme la "riduzione del danno" e il recupero, la prevenzione e la lotta al narcotraffico. Ma anche l’ambito della sicurezza e quello dell’accoglienza, il sistema del servizio pubblico e quello del servizio privato. L’elenco è interminabile...

Lavorare sulle "e", e non sulle "o": l’abbiamo imparato dal confronto con le persone, con la strada, con chi si spende nei nostri servizi, nelle nostre comunità, nei nostri gruppi. Abbiamo imparato le "e". non le "o". È per questo che pensiamo che debba essere potenziata quella politica sulla droga che, in Europa, è stata definita "dei quattro pilastri": non "tre pilastri", come ha detto qualcuno. Esiste - ditemi - una casa che sta in piedi con tre soli pilastri?

Quattro pilastri. Primo pilastro: la lotta traffico, alla grande criminalità che ci sta dietro, al riciclaggio. ai paradisi fiscali. Secondo pilastro: la prevenzione, l’informazione corretta, i percorsi di educazione alla salute. Terzo pilastro: i trattamenti. E qui bisogna moltiplicare i servizi per dare alle persone una mano a voltare pagina, ad uscire dalle dipendenze. E poi il quarto pilastro: la bassa soglia, quella scommessa che consiste nell’inventarsi di tutto perché nessuno resti escluso o tagliato fuori. Sono vie che non vogliono essere in contrapposizione ad altre, rappresentano un "di più", una positività, una ricchezza, una risorsa. E allora perché ostacolarle? Perché valorizzare solo alcune a scapito di altre?

 

C’è un orizzonte culturale che rischia di schiacciarci

 

Diverse ricerche rigorose e approfondite indicano che solo poggiandosi contemporaneamente su questi quattro pilastri gli interventi risultano più efficaci. Meno malattie, meno carcere, più recupero, più integrazione sociale. Ciò che serve a dare vita, speranza, dignità alle persone.

Ma, come ho detto, ci sono grandi inquietudini. n progressivo smantellamento del sistema dei servizi del nostro Paese. Non tocca a me entrare nel merito, lo faranno altri… ma il taglio dei fondi sociali, il ragionare solo in termini di mercato, di sostenibilità economica l’aziendalizzazione dei servizi che rischia di trasformarsi in mercificazione della vita delle persone.

C’è un orizzonte culturale che rischia di schiacciarci, e - guarda caso - gli stessi che propongono scorciatoie rispetto alla complessità del mondo dell’esclusione, sono quelli che quell’orizzonte non lo mettono in discussione. Un orizzonte culturale dove a contare sono solo l’apparenza, la prestazione, il denaro, il possesso, la forza, il potere.

Gli amici di un’associazione giovanile - l’Acmos di Torino - hanno aperto proprio in questi giorni, in un vecchio stabilimento della Ceat un punto di accoglienza per ragazzi e ragazze che vogliono riflettere su questi temi e ritrovare un rapporto sobrio, essenziale, autentico con le persone e le cose.

Perché tutto questo rischia di creare nuove dipendenze. Lo abbiamo visto con il doping. L’uso delle sostanze nello sport non ha finalità solo agonistiche ma è funzionale al mero vigore muscolare, al raggiungimento di certi modelli estetici. È quindi una lettura più ampia sulle dipendenze quella che dobbiamo fare oggi.

Un’altra inquietudine è legata ai giovani. Questa è una società che si preoccupa dei giovani ma poi tutto si ferma lì. Anche qui non bisogna generalizzare - ci sono esperienze positive, importanti. Ma i giovani sono una grande risorsa, hanno bisogno di essere ascoltati, di partecipazione, protagonismo.

Non parlo solo della realtà più conosciute, dei giovani che fanno capo alle associazioni, ma anche di chi ha altri riferimenti. Abbiamo il dovere di investire, di credere nella grande ricchezza del mondo giovanile! Lo citiamo sempre dopo il mondo della marginalità e dell’esclusione, etichettandolo, semplificandolo. E invece anche qui dobbiamo inventarci di tutto, prima di etichettare, di ridurre a categoria.

L’adeguatezza e l’efficacia degli interventi si misurano a partire dalla realtà e dai bisogni delle persone più fragili. C’è bisogno di disegnare insieme nuovi orizzonti. È brutto constatare che la questione delle "dipendenze" non è ancora uscita, nel nostro Paese, dalla logica dell’emergenza. Tutti i problemi sociali sono sempre emergenza! Molte questioni sono state congelate o annullate da prudenze esasperate, da rigidità, da tatticismi, da timori legati a logiche di consenso e di controllo sociale.

Ma lasciatemi esprimere un’altra grande inquietudine - con molta libertà e credo anche con rispetto, che dobbiamo sempre alle persone - per l’agenda di questo Governo. Ho chiamato prima in causa altre responsabilità. I ritardi, le prudenze calcolate. Guardiamo la realtà attuale. Semplifico dicendo - mi perdonerete se procedo per titoli - che questa agenda, annullando la distinzione tra droghe pesanti e altre droghe, dicendo no alla "riduzione del danno", mettendo in discussione l’esistenza di gran parte del servizio pubblico, prefigura un radicale cambiamento di rotta nelle politiche sulle tossicodipendenze. Ciò che più colpisce sono le semplificazioni, la ricetta risolutiva, il carattere ascientifico delle proposte, nonché il proposito dichiarato di contrastare, indebolire, annullare molte delle esperienze maturate in questi decenni.

Ma noi andremo avanti, come sempre. Continuando a fare quello che abbiamo fatto perché crediamo profondamente nelle persone, le persone che sono al centro con le loro storie, i loro volti, i loro nomi. Andremo avanti confrontandoci, guardando anche ciò che avviene altrove, le sperimentazioni avviate in altri Paesi. È vero che manca una vera e propria politica europea in materia, ma è anche vero che esperienze che hanno aperto nuove strade, indicato nuove possibilità, sono state messe in atto.

E qui voglio ringraziare il Presidente Prodi, che ha voluto inviare un suo osservatore perché riferisca in sede di Commissione Europea. E ringrazio anche il Prefetto Soggiu, che ha mandato un suo rappresentante a seguire i nostri lavori.

Avremo modo di riflettere, interrogarci, dirci le cose con estrema chiarezza, di non farci sconti ma di non fare sconti a nessuno, perché quello che c’interessa veramente è trovare percorsi propositivi che aiutino le persone a voltare pagina.

E oggi il rischio è di perdere questa consapevolezza, perdere la capacità di costruire politiche che prevedano interventi differenziati e integrati - le "e", non le "o" - la cui adeguatezza ed efficacia si misura a partire dalla realtà e dai bisogni delle persone più fragili.

Possiamo dirlo perché molti noi lavorano nelle scuole, negli ambiti dell’inclusione, in una progettualità più ampia. on ci siamo limitati a operare solo al servizio delle persone più fragili. Ma proprio per questo rivendichiamo con forza che l’adeguatezza e l’efficacia degli interventi si misurano a partire dalla realtà e dai bisogni delle persone più fragili. Sempre. Dagli elementi più deboli, dagli ultimi della fila. E questo comporta anche accettare di confrontarsi con situazioni più difficili, in grado di mettere a dura prova gli interventi, indipendentemente dalle filosofie e dalle metodologie proposte.

 

Il carcere è sempre più il tappeto sotto cui nascondere problemi e responsabilità

 

So che potrà piacere o non piacere, ma tutti - nessuno escluso - siamo chiamati a fermarci, a interrogarci. Cogliendo il positivo di quello che abbiamo fatto ma senza dimenticare che in un percorso di ricerca e di sperimentazione gli errori sono sempre dietro l’angolo. E nessuno può dirsene esente.

E quindi mi sono interrogato, ognuno si è interrogato, credo che i nostri gruppi e le nostre realtà si siano interrogati. È un segno di positività. sapete, di grandezza. Riflettere senza dimenticare gli errori. Fare parlare l’errore per apprendere, per guardare l’oggi, per progettare, e orientare di nuovo gli interventi per gli ambiti più diversi. Penso solo ai temi che abbiamo deciso di affrontare in questo convegno solo alcuni, non si può fare tutto!

Il carcere, i giovani e la prevenzione, le nuove droghe, le città vivibili, l’inclusione sociale, i modelli regionali, il sistema dei servizi. Per sommi capi vorrei parlare di alcuni di questi temi. Il carcere: sono presenti amici magistrati, operatori che lavorano nel mondo carcerario che hanno promosso con noi questo momento. E sono loro la voce più autorevole, e poi quelli, tra voi, che hanno provato sulla pelle il carcere. Il carcere è l’istituzione che più di altre si confronta con lo zoccolo duro della tossicodipendenza. Il numero delle persone in carcere con il problema della droga continua essere enorme, impressionante. Importante è l’attenzione sul fenomeno della cosiddetta "doppia recidiva".

L’attuale protesta delle persone detenute è un grido che dobbiamo fare nostro. I problemi del carcere riguardano tutti. E tutti, o quasi tutti, almeno a parole si dicono convinti che a questo punto è necessario individuare nuove strade, indispensabili per mitigare le sofferenze di chi è detenuto e riportare vita e speranza anche dietro le sbarre. Certo, ci sono delle belle esperienze, anche in questa città. Ma non basta. Il carcere dovrebbe essere utilizzato come ultima possibilità, come "extrema ratio". A parole tutti sono d’accordo, ma poi le riforme non si fanno, stentano ad arrivare. E oggi il carcere continua a essere più di ieri il facile tappeto sotto cui si nascondono altri problemi e altre responsabilità. Un altro segnale inquietante ci viene dall’annunciata riforma della giustizia minorile. È un percorso in linea con un clima più portato alla punizione che all’educazione. Il ministro ha detto che non abbiamo più a che fare con i ragazzi della Via Paal. Il grande rischio che si nasconde sotto il desiderio di reprimere è quello di trasformare le questioni sociali che sono alla base di tanti reati in problemi penali.

 

L’investimento sulla sicurezza passa attraverso la garanzia dei diritti di cittadinanza di tutti e per tutti

 

Un altro grido che dobbiamo fare nostro è quello dell’immigrazione, dei tanti amici che chiedono di essere accolti per trovare speranza e dignità. Parleremo anche di questo. Ma poi c’è, strettamente legata a tutte le altre, la questione dell’emarginazione e della vivibilità delle nostre città. L’inclusione sociale è la vera strategia vincente per contenere la micro-delinquenza e l’insicurezza. Una città che accoglie è una città sicura, l’ho sempre ripetuto. Laddove è più efficace il contrasto all’emarginazione - contatto con servizi, dormitori, cooperative, sostegno relazionale - meno pressante è il problema dell’ordine pubblico. Molte, a riguardo, sono le esperienze che abbiamo fatto insieme. E voi sapete che l’esclusione genera spesso violenza, così come la violenza genera esclusione. Lo abbiamo detto tante volte e lo ripetiamo questa mattina: il diritto alla sicurezza è un diritto sacrosanto. È un diritto di tutti, anche delle persone più fragili, più deboli, in maggiore difficoltà, L’investimento sulla sicurezza passa attraverso la garanzia dei diritti di cittadinanza di tutti e per tutti. Vuol dire creare spazi, riferimenti, opportunità. Vuol dire non dimenticare mai che dobbiamo partire dai bisogni delle persone. E i bisogni delle persone sono i diritti, e i diritti sono servizi, sono opportunità. E allora più che di città sicure abbiamo bisogno di città vivibili, dove il grado di vivibilità si misura dalla capacità delle relazioni umane e delle relazioni sociali, dalle attenzioni a tutti, anche agli ultimi della fila.

Non dimentichiamoci quelle quattro chiavi che ci hanno accompagnato nell’arco di questi anni. Quelle quattro chiavi che non dobbiamo mai perdere e che ci hanno aperto gli orizzonti del nostro impegno, del nostro volontariato, della nostra professione, del nostro esserci.

Prima chiave: incontrare le persone e affrontare i problemi, non viceversa. Seconda chiave: accompagnare, non portare. Terza chiave: non bastano le risposte tecniche, pur importanti. Quarta chiave: la persona sempre al centro, partendo dai suoi bisogni, dalla sua affettività, dalle sue risorse.

 

È più faticoso affrontare senza certezze un contesto che cambia, è più impegnativo passare dalla condanna della sostanza all’incontro con le persone, ma è la strada obbligata

 

L’ultimo punto, la questione etica. Mi sta molto a cuore, sapete, perché qui molti ci dicono che noi, nel fare certe cose, calpestiamo la morale. Alcuni ci considerano forze sociali disposte ad abbandonare i cosiddetti principi per una confusa concezione della libertà: altri ci rimproverano - se facciamo certi interventi, certi servizi a bassa soglia - di difendere i consumatori di droghe e di renderci in qualche modo complici dei loro usi o abusi di sostanze. Credo che sia arrivato il momento di fare chiarezza su queste questioni, riaffermando linee e valori che proponiamo non da oggi ma da sempre.

Primo: non ha senso dividere le forze sociali tra chi ha i principi morali e chi non li ha. L’orizzonte valoriale della giustizia, della solidarietà, della libertà, dell’uguaglianza, della pace resta il nostro unico e vincolante riferimento. Ciò che ci inquieta sono i principi assolutizzati e sganciati dalla storia delle persone. Quando questo avviene il principio diventa una barriera che non permette d’incontrare la persona e i suoi bisogni. È un’operazione che mortifica un possibile dibattito sulle strategie riducendo tutto a uno sterile scontro ideologico. Anche per noi sono fondamentali i principi: non per se stessi, ma per sostenere, valorizzare e aiutare la persona, in ogni condizione. Non vogliamo che in nome dei principi si dilatino sofferenze e discriminazioni personali e famigliari, perché questo è ciò che avviene di fatto oggi.

Secondo punto. Ci dicono che la "riduzione del danno" - curare la vita e ridurre le sofferenze - è troppo poco. No, amici, quel poco è sempre meglio e di più del nulla, del vuoto e dell’abbandono che si può creare quando i soli principi non ci fanno incontrare la persona. I principi, non dimentichiamolo, possono anche condannare e uccidere. È contro questa possibilità che ci muoviamo, per un’etica della possibilità e della giustizia, intesa come corresponsabilità, contro una sola morale rigida fatti di così tanti principi e norme da rendere difficile l’incontro con la persona.

Terzo. Ci dicono, ce lo sentiamo ripetere da più parti, che bisogna condannare le sostanze e le droghe senza ambiguità e senza tentennamenti. Attenzione però che un’eccessiva enfasi sulla sostanza – droga, purtroppo espressa sempre al singolare, senza specificare a quale sostanza ci si riferisca - non dimentichi la persona. Noi guardiamo alla dipendenza a partire dalla persona, non dalla sostanza. È la persona il metro di giudizio, il riferimento vincolante della valutazione. Una persona - non dimentichiamolo - che usa o abusa delle sostanze per mille ragioni e in contesti dinamici, in continua trasformazione. Non prendere in considerazione queste differenze, non rispettare le molteplici diversità che compongono questo orizzonte e non distinguere fenomeni distinti tra loro, è l’inizio della confusione. È più faticoso affrontare senza certezze un contesto che cambia, è più impegnativo passare dalla condanna della sostanza all’incontro delle persone, ma è la strada obbligata. Strategie differenziate e interventi efficaci e vincenti. Per noi non ci può essere una sola strada per tutti, una sola strada per tutti è un vicolo cieco.

Allora vogliono che noi diciamo "no alla droga". Lo abbiamo sempre detto. Ma vogliamo includere in quel "no" una condanna delle politiche miopi che creano l’abbandono dei giovani; vogliamo includere in quel "no" quell’orizzonte culturale che riduce i nostri ragazzi a meri consumatori; vogliamo includere in quel "no" le infinite lotterie, "gratta e vinci" e concorsi più o meno truccati che drogano il Paese con l’illusione di vincere subito tanto denaro: vogliamo includere in quel "no" le tante droghe legali che passano molte volte con la sollecita benedizione della pubblicità. Questo "no" così avulso dal contesto e rispondente solo ad una questione di principio al nostro mondo non serve a nulla. Noi preferiamo il "sì" ad una complessità che ci chiede e c’impone una serena fedeltà alla persona.

 

Voleva dare dignità e futuro ai giovani e per questo lo hanno ucciso

 

Lasciatemi chiudere consegnando a due amici che ci sono stati maestri un mazzetto di spighe di grano. Cosa c’entrano - direte - le spighe di grano con questo momento di riflessione? C’entrano perché provengono da un campo di grano di Corleone, in provincia di Palermo. Nel 1948, un anno dopo la strage di Portella della Ginestra, a Corleone fu ucciso un giovane sindacalista, che aveva fatto il partigiano in Carnia e che voleva che su quei terreni si realizzassero delle cooperative di lavoro per i giovani: Placido Rizzotto. Voleva dare dignità e futuro a quei giovani, e per questo motivo lo hanno ucciso. A indagare su quell’omicidio arrivò un giovane capitano dei Carabinieri, che scoprì che ad ammazzare Rizzotto era stata Cosa Nostra. Quel giovane era Carlo Alberto Dalla Chiesa. A sostituire Rizzotto arrivò un altro giovane segretario della camera del lavoro, Pio La Torre: verrà assassinato nel 1982, come Dalla Chiesa. Ebbene dopo 54 anni, su quella terra, grazie a una legge voluta dai cittadini e dall’associazione "Libera" - che riunisce realtà presenti anche qui, parte di un grande coordinamento della società civile impegnata nella lotta contro la criminalità organizzata, le mafie, la corruzione, l’illegalità - grazie a quella legge che prevede la confisca dei beni ai mafiosi e la loro riutilizzazione a scopi sociali sono nate alcune cooperative agricole.

Un mese e mezzo fa c’è stato il primo raccolto di grano. Abbiamo messo da parte alcuni mazzi. Uno l’abbiamo consegnato a Sergio Cofferati, perché Placido Rizzotto era un sindacalista e uno a Nando Dalla Chiesa. Gli ultimi li voglio consegnare, a nome di "Libera" e di quei tanti giovani che lavorano in quelle cooperative, ad Alessandro Margara, grande punto di riferimento nel corso di questi a1mi, e a Paolo Vercellone, che da sempre ha seguito il Gruppo Abele e che è stato presidente dei giudici minorili di tutto il mondo. Queste spighe di grano come testimonianza del bene che vi vogliamo e per ricordare che la giustizia, nonostante tutto, vince.

 

 

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