Massimo Campedelli

 

Massimo Campedelli

 

Gli interventi di questi giorni hanno fatto luce sul l’idea di welfare da diversi punti di vista: istituzionale, economico. culturale, territoriale, valoriale. Mi pare che ci sia però un punto chiaro e condiviso: noi crediamo nella civiltà del welfare, cioè noi crediamo che non si può restare soli davanti ai rischi della vita, e che non si è soli esclusivamente perché qualcuno ha buon cuore, ma soprattutto perché si è cittadini, portatori di diritti e di doveri. Questa è la cultura del welfare che proponiamo, meglio, in cui ci riconosciamo. Poi dobbiamo discutere sui rischi e sui modi di attuazione ed è chiaro che questi si evolvono, cambiano nel tempo, il punto fondamentale quindi è saper aggiornare i diritti di cittadinanza al momento storico.

Ovviamente affrontare queste contingenze introduce un dibattito: il welfare è una spesa, cioè un costo puro, o un investimento? Quando si discute di welfare è facile che anche chi è culturalmente in sintonia esprima delle difficoltà a capire che noi stiamo ragionando in termini di sviluppo sociale ed economico del nostro territorio. Il welfare non è un costo, è un investimento. E come tale deve essere considerato, anche se è chiaro che quando parliamo di welfare parliamo anche di mercato, non c’è dubbio. Ma a monte c’è un problema di fondo, e qui credo che le differenze regionali stiano esprimendo diverse culture di un mercato del welfare: c’è chi pensa che il welfare debba essere sottomesso alle logiche pure e semplici di qualsiasi mercato e c’è chi dice che bisogna incorporare nelle logiche di governo del welfare i fattori positivi che il mercato esprime. Il rapporto pubblico - privato in questo senso cambia completa mente prospettiva. È questa consapevolezza che introduce un’apparente contraddizione da chiarire, perché noi ragioniamo spesso di bisogni e di risposte ai bisogni, certamente, ma poi nell’organizzazione, nella cultura operativa, nella normazione di questi processi ci troviamo a ragionare anche di domanda e di offerta. I bisogni non si traducono immediatamente in domanda, così come le risposte non sono immediatamente incanalabili in un discorso di offerta da parte di un venditore.

Chi lavora dentro questo nodo, che è un problema teorico a mio parere aperto, si pone un punto fondamentale che è quello di come tutelare anche quel bisogno che non può diventare domanda o che paradossalmente diventa la trasformazione della domanda di qualcun altro per negare il bisogno di quella persona. Dobbiamo ragionare anche in termini di economia, di mercato, di rapporti con le forme istituzionali, in termini di Europa.

Il mercato "sociale" in Italia ha, a mio avviso, una data significativa nel settembre del ‘92 quando, per salvare dalla bancarotta il Paese, il Governatore della Banca d’Italia Ciampi e il Primo Ministro Amato hanno fatto quella manovra che poi è diventata la finanziaria del ‘93, con un taglio di 80 mila miliardi e l’introduzione nel nostro sistema di quelle linee guida che hanno accompagnato la rivoluzione in questi 10 anni. Da allora lo Stato e le sue appendici (Regioni, Comuni, ecc.), intersecano, compattano, mescolano, impastano quello che noi oggi chiamiamo welfare.

E contemporaneamente vale il principio che il welfare deve essere fattore di sviluppo entrando nel mercato, nello Stato, in Europa, vorrei sottolineare un paio di cose, pensando al bilancio della mia attività e del Comune dove lavoro, comincio anch’io ad avere davvero un grosso timore: se è vero che il Governo sposterà il problema dell’aumento della tassazione o della riduzione della spesa agli enti intermedi o decentrati, sarà un problema delle Regioni vedere come risolvere alcune questioni, e ancor più probabilmente in campo sociale sarà un problema dei Comuni.

L’anno scorso il Governo ha posto il tetto dell’aumento del 6% della spesa sulla base dei dati del 2000: di quel 6%, 4 punti sono in adeguamento alla spesa contrattuale, il che vuol dire che già con il patto di stabilità interno i Comuni sono ingessati nei loro bilanci, e che i Comuni che sono stati più bravi hanno mantenuto il livello dei servizi che avevano prima, perché non potevano muoversi dentro i bilanci. Questo è un classico esempio di sussidiarietà rovesciata, cioè scaricare sulle realtà di livello inferiore i problemi della realtà di livello superiore, cioè quello che non vuol fare, il Governo lo fa fare agli enti locali. E questo è un pr blema serissimo. Un secondo problema serio credo riguardi la 328.

Pur nella consapevolezza che ci sono situazioni diverse sul territorio nazionale, credo sia una carta in più. Il rischio è che Maroni cerchi di ridurla e inquadrarla dentro le sue logiche e magari anche Tremonti. on dimentichiamo, ad esempio, che insieme al taglio del fondo sociale c’è stato anche il tentativo di utilizzare 50 milioni di euro del fondo per l’handicap per pagare i danni di "mucca pazza". Fortunatamente "Il Sole 24 Ore" e Ciampi hanno bloccato questa operazione. Io credo che la 328 debba comunque. come logica, come finalità, andare avanti. La 328 non può risolvere tutte le cose; ci serviranno anni, ci sarebbero serviti comunque anche se le cose non fossero cambiate l’anno scorso. Però riuscire a rendere meno disomogenea la differenza di offerta di servizi e l’impossibilità di fruizione di servizi mi pare sia già un tentativo assolutamente dignitoso.

C’è un ultimo punto che vorrei sottolineare: è il confine tra spesa sanitaria e spesa assistenziale. Noi gestiamo a Mantova i servizi domiciliari per anziani. Nell’ultimo anno il 60% delle persone prese in carico dal nostro servizio sono stati malati terminali dimessi dall’ospedale, cosiddetti "stabilizzati". Questa è spesa sociale che si accolla il Comune o la famiglia, ma è chiaro che non viene coperta dal Servizio sanitario nazionale. Ora, quando si pose questo problema a chi, in Regione Lombardia, sta stabilendo i nuovi sistemi di accreditamento delle strutture per anziani fu detto: "Ma allora che cos’è, "sociale" e "sanitario"?". Se un anziano ha 10 patologie e sta morendo, ha sicuramente bisogno di un intervento sociale, ma è anche una persona malata che ha diritto a essere curata sulla base dei principi della Costituzione. Questo è un problema delicatissimo, perché tutto ciò che non "rimane dentro" una parte, si scarica sull’altra. C’è un conflitto, diciamo così, tra processi di gestione del sociale e processi di gestione sanitaria su "chi tiene in mano il cerino per ultimo": scusate l’immagine, ma poi alla fine è proprio questo. Ed è un nodo fondamentale.

lo chiuderei con tre obbiettivi. Il primo riguarda la responsabilità delle organizzazioni della società civile, insieme agli enti locali, del controllo della spesa. Noi dobbiamo abilitarci a leggere i bilanci: i servizi sociali non sono servizi gratuiti, ancora di più la spesa sanitaria, allora il controllo sulla spesa è un compito che dobbiamo porci. È difficile, ma bisogna avere il coraggio di fare i conti e di farli bene, trasparenti. Il lavoro sui bilanci è una cosa pesante, difficile, onerosa però è un lavoro fondamentale, perché poi le politiche le si fa con le politiche di spesa, con le politiche sulle entrate e le politiche sulle uscite.

Secondo obbiettivo: io credo, pur con tutte le preoccupazioni che sono emerse, che sia fondamentale oggi riaprire la questione sul lavoro sociale. E mi spiego: oggi abbiamo parlato di sanità, di assistenza, di sociale. Non possiamo nasconderci che una carriera nella sanità è ben diversa da una carriera nel sociale, e che nel sociale è ben diverso fare l’operatore degli enti locali piuttosto che l’operatore delle cooperative, che le condizioni di garanzia, di riconoscimento del lavoro e quant’altro sono ben diverse. Chi ha problemi di gestione sa benissimo che conviene scegliere una strada piuttosto che un’altra: ci sono differenze non solo economiche ma anche di possibilità effettive di carriera. Allora il lavoro sociale, quello che facciamo noi, non può avere quel riconoscimento che giustamente crediamo debba avere se non attraverso una rappresentazione diversa. Dare valore al lavoro sociale: è un compito assolutamente impegnativo e serio che permette anche di fare chiarezza rispetto alle disfunzioni e alle perversioni del mercato del sociale.

n terzo compito è dare significato al lavoro di cura e riaprire la questione della difesa di diritti umani fondamentali delle persone che afferiscono o che sono costrette ad arrivare ai nostri servizi. Dare significato al lavoro di cura cosa significa? Credo significhi recuperare l’idea della vulnerabilità. Ma qui si pone il problema molto serio della non autosufficienza.

che ci porterà a situazioni di tensione rilevantissima se non lo affrontiamo in tempo, capendo anche che la non autosufficienza è una fase della vita, e purtroppo per qualcuno non è neanche l’ultima. Ancora oggi noi ragioniamo sulla non autosufficienza degli anziani, ma non possiamo dimenticarci, e le statistiche purtroppo lo confermano, che grazie anche ai progressi della medicina persone che prima non sarebbero sopravissute a un incidente o a una malattia ora possono sopravivere, ma che per il resto della vita avranno bisogno di qualcuno che li accudisca. giorno e notte. Allora, questa è una sfida morale, sociale, economica, che riguarda certamente la terza età, la quarta, ma non solo.

Sull’altro versante c’è il discorso di tutelare i diritti umani fondamentali, e se mettiamo tra questi anche il diritto a non essere stigmatizzato, mi pare che ci siamo in pieno. Ora si apre davvero una stagione, una fase in cui le realtà in cui operiamo non possono non porsi questo problema, si veda ad esempio la legge sulla psichiatria che prima ci è stata presentata, che di fatto violenterà l’idea di persona che ha bisogno.

Chiudo con un riferimento che mi ha colpito di Virginio Colmegna. Virginio diceva, a mio parere, una cosa molto importante parlando delle badanti. "Dobbiamo ripartire dai processi del territorio, perché nel territorio dobbiamo ridare senso al nostro stare insieme, capendo anche che nel nostro stare insieme c’è spazio, anzi, c’è necessità di avere qualcun altro". Ecco, io credo che le badanti - che si collocano a cavallo tra illegale e l’illegale, tra il sanitario e il sociale, tra la domiciliarità e la residenzialità, tra chi è giovane echi è anziano - siano figure su cui si debba concentrare una partita culturale, politica e sociale che porterà certamente un arricchimento per tutti in termini proprio di senso del nostro stare insieme.

 

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